Wittgenstein dice di oggi
Wittgenstein dice di oggi
di Simone Zacchini
In una delle sue prime lezioni dopo il ritorno a Cambridge (1930-32), Ludwig Wittgenstein afferma che “il tempo come sostantivo è una terribile fonte di confusioni“. Sono questi gli anni in cui, tornato all’attività filosofica, Wittgenstein inizia a delineare il percorso che lo porterà alle Ricerche filosofiche, in cui rimette in discussione le sue stesse teorie, che aveva espresso nel Tractatus logico-philosophicus.
Già in quest’opera troviamo un’analisi del concetto di tempo. Wittgenstein istituisce, nella proposizione 6.4312 del Tractatus, un nesso tra quello che egli chiama l’“enigma della vita” e il riconoscimento che la vita umana si svolge “nello spazio e nel tempo”:
«L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguito. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale)».
Il problema della sopravvivenza eterna della nostra anima, della nostra infinita durata nel tempo, è uno di quei problemi che, da sempre, i filosofi hanno considerato più importanti, più universali, di altri.
Ma Wittgenstein ci dice che rispetto al senso della vita questo problema è altrettanto indifferente della domanda sul tempo (meteorologico) che farà domani. Infatti, anche qualora questo problema venisse risolto positivamente (mediante, per esempio, una dimostrazione metafisica dell’immortalità dell’anima o attraverso l’indefinito prolungamento della vita permesso permesso dalla scienza medica), i nostri problemi vitali, nello spazio e nel tempo, non sarebbero né risolti né acquietati. Chiaramente, chi aspira alla sopravvivenza eterna aspira non alla mera continuazione di questa vita, non a quella che Wittgenstein chiama una «infinita durata del tempo», ma per l’appunto a una vita che abbia quel senso che a questa vita sembra mancare.
A questo proposito, Luigi Perissinotto spiega:
«La sopravvivenza eterna significa qui lo scioglimento dell’enigma che la vita è; la cessazione piena della sua problematicità. Ma ciò equivale, per l’appunto, a riconoscere, quantomeno implicitamente, che il problema del senso della vita è, di principio, distinto dal problema scientifico dell’immortalità temporale; che la risposta a quest’ultimo problema non rappresenta in alcun modo una risposta al primo»
(Il tempo e il senso della vita nella filosofia di Wittgenstein in Tempo, evento e linguaggio, a cura di M. Ruggenini e L. Perissinotto, Carocci, Roma, 2002, p. 244)
La soluzione del senso della vita è pratico-vitale, non scientifica o speculativa: è solo vivendo in maniera del tutto diversa (a chi vive la vita come problematica rispetto al senso) che il senso della vita può divenire chiaro, ossia che la vita può cessare di apparire senza senso. Ma questo non può che avvenire nel presente, fuori del tempo. In un appunto del 1916 Wittgenstein afferma:
«Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice. Per la vita nel presente non c’è morte».
E pochi anni più tardi, nella proposizione 6.4311 del Tractatus scriverà:
«La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti».
Ma se risulta chiaro che la risposta al senso della vita è da trovarsi nel presente, perché Wittgesntein, tornato negli anni Trenta all’attività filosofica, afferma che, in realtà, «il tempo come sostantivo è una terribile fonte di confusioni»?
È bene specificare che Wittgenstein non rimette in discussione le conclusioni etiche sul “presente” che aveva delineato nel Tractatus, ma continua a interrogarsi sul tempo da un punto di vista linguistico, analizzando l’uso del tempo “come sostantivo” all’interno del linguaggio. In un’annotazione diaristica del 1937 scriverà: «Pensa come il sostantivo “tempo” può darci l’illusione del medium; come può indurci in errore così che inseguiamo (su e giù) un fantasma».
L’analisi più interessante sulla grammatica delle espressioni temporali relative al presente (oggi, adesso) la troviamo nella prima parte del Libro Marrone che, dettato ai suoi discepoli di Cambridge nel 1934-1935, rappresenta l’abbozzo iniziale delle Ricerche filosofiche.
Nel paragrafo 56 del Libro Marrone, Wittgenstein, dopo che nei paragrafi precedenti aveva analizzato alcuni enunciati contenenti espressioni di tempo, cerca, attraverso l’uso di “giochi linguistici”, di scardinare il loro aspetto problematico ed enigmatico che, secondo lui, è una delle più fertili fonti di perplessità filosofica:
«Quale sia quest’aspetto, e come esso possa presentarsi, si può esemplificare se consideriamo la domanda: “Dova va il presente quando diviene passato? E dov’è il passato?”. – In quali circostanze ci appare affascinante questa domanda?».
Continua poco più avanti:
«Può così accadere che noi non possiamo liberarci dalle implicazioni del nostro simbolismo, che sembra permettere domande come: “Dove va la fiamma d’una candela, quando la candela viene spenta?”, “Dove va la luce?”, “Dove va il passato?”. Noi siamo ossessionati dal nostro simbolismo».
A renderci perplessi è un’analogia fuorviante insita nel nostro linguaggio che ci trascina irresistibilmente, ma illusoriamente, a considerare il sostantivo “tempo” come il medium tempo. Ciò avviene, ad esempio, quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. La parola “adesso” non rientra nel gruppo di quelle che potrei chiamare “specificazioni temporali”, ma il nostro linguaggio comune usa la parola “adesso” e le specificazioni temporali in contesti analoghi, come nell’esempio: «“Il sole tramonta alle sei”. “Il sole tramonta adesso”». Spiega Wittgenstein:
«Noi propendiamo a dire che sia “adesso”, sia “le sei”, si riferiscano a punti del tempo. Quest’uso delle parole produce una perplessità esprimibile nella domanda: “Che cos’è l’adesso?” – Infatti, l’“adesso” è un momento del tempo, e tuttavia lo si può chiamare “il momento in cui io parlo” o “il momento in cui l’orologio batte le ore”, etc. etc. – La nostra risposta è: la funzione del termine “adesso” è affatto differente dalla funzione d’una specificazione temporale. – Ciò appare chiaro, se consideriamo il ruolo di questa parola nel nostro uso del linguaggio; ma appare oscuro quando, invece di guardare tutto il gioco di linguaggio, noi guardiamo solo i contesti, gli enunciati nei quali la parola “adesso” è usata».
E Wittgenstein conclude:
«La parola “oggi” non è né una data, né qualcosa di simile ad una data. Da una data essa differisce non come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo (quantunque, certamente, vi sia una connessione tanto tra un martello ed un mazzuolo, quanto tra un martello ed un chiodo)».
Che si parli, dunque, di “oggi”. Ma senza dimenticare che questa espressione non è il tempo. Quel tempo presente dentro cui (e non fuori da cui) possiamo cercare le soluzioni al senso della vita. (s. z.)