3 Maggio

3 maggio 2023

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Verso il tre di maggio, in un giorno di polvere bionda e di luce tenera, abbandonammo malinconicamente Kratowice ormai impossibile da difendere, con il suo triste parco destinato a divenire di lì a poco un campo sportivo per gli operai sovietici, e la sua foresta devastata dove fino ai primi anni della guerra si aggiravano ancora gli unici branchi di buoi selvatici sopravvissuti dai tempi preistorici

Marguerite Yourcenar, Il colpo di grazia, 1939, tr. it. M. L. Spaziani, Feltrinelli, 1984, p. 107

Nella regione baltica, in un luogo a cui viene dato il nome di Kratowice, negli anni successivi alla rivoluzione russa, si svolge la storia di Eric, soldato tedesco, del suo amico fraterno Corrado e di Sofia, sorella di quest’ultimo.  Mentre si combatte per il controllo di territori di confine, contesi fra un regime e l’altro, si consuma anche la storia dell’attrazione fra Sofia ed Eric, la voce che racconta ciò che è accaduto. Mentre la vicenda si avvia alla conclusione, il giorno di maggio sembra mostrare – come attraverso un velo di polvere dorata – il passato lontano e il futuro prossimo di quel luogo amato e conteso. 

 

Dicono del libro

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Era su era nel giardino planetario di Pietro Ruffo

Allestita nella galleria Lorcan O’Neill di Roma, la mostra Il Giardino Planetario espone una serie di opere recenti che l’artista Pietro Ruffo dedica al tema del complesso equilibrio fra specie umana e pianeta, raccolte sotto al titolo Antropocene.
Ai visitatori che si aggirano nella prima sala della galleria, scenograficamente arricchita da tendaggi su cui è riprodotta una imponente foresta primordiale, la prima cosa che Ruffo dice è che la Terra si è sempre modificata e continuerà a farlo e che il punto su cui concentrarsi non è tanto e solo la nostra capacità di rovinare il pianeta, quanto quella di distruggere la nostra possibilità di vivere in esso, su di esso, insieme.
Artista, architetto – che di volta in volta si fa studioso di cartografia, botanica, geologia, antropologia, archeologia – Ruffo si ispira per il titolo della mostra a un saggio omonimo di Gilles Clément, il filosofo paesaggista e agronomo francese autore del Manifesto del terzo paesaggio, mentre le singole opere fanno riferimento al concetto di antropocene, una definizione che – con una dose di presunzione – usa il nome della nostra specie per definire un’era evolutiva.
Nella scia delle sue creazioni, caratterizzate dall’uso di mappe geografiche e carte antiche, dall’intaglio e dalla sovrapposizione di strati, Ruffo dà vita a una collezione di vedute arricchite: ogni immagine rappresenta un luogo in cui è stato ritrovato un teschio dei nostri antenati; da questo incipit si dispiega il palinsesto di forme vegetali, animali, minerali, cartografiche, raccordate da inserti di colore e dalla sagoma, spesso dissimulata e latente, del teschio di partenza.
«Questi lavori sono dei lavori classici sul paesaggio a cui però ho voluto aggiungere anche un elemento legato al tempo», spiega bene Ruffo. Ogni opera richiede infatti una strategia di indagine che sfogli percettivamente e cognitivamente gli strati di tempo accumulati in una porzione di paesaggio, avvicinati da Ruffo – con sapienza e leggerezza – in un modo che richiama gli assemblaggi di Piranesi, i libri animati dell’Ottocento: diorami dello spazio tempo da smontare e rimontare con responsabilità e piacere.   

Pietro Ruffo, Il Giardino Planetario, Galleria Lorcan O’Neill, Roma, vicolo dei Catinari
14 marzo 2023 – 29 aprile 2023
Il sito dell’artista: pietroruffo.com

(a.s.)

“Era ora” un film con le date dipinte

Il fim Era ora (2022), “commedia esistenziale” diretta da Alessandro Aronadio, interpretata da Edoardo Leo e Barbara Ronchi, distribuita da Netflix, è un piccolo regalo per chi è attratto dal grande tema del tempo e delle invenzioni narrative che ne raccontano i paradossi e i vincoli. La storia – ispirata a Long Story Short di Josh Lawson – è imperniata sul giorno del compleanno del protagonista Dante, un manager talmente concentrato sulla vita lavorativa che passa dal 26 ottobre del suo quarantesimo compleanno a quelli successivi senza rendersi conto di ciò che accade ai suoi cari: la moglie delicata illustratrice, la figlia Galadriel, il padre che perde la memoria, gli amici, le colleghe.
Solo nelle 24 ore del compleanno, il tempo della sua vita coincide con quello condiviso dagli altri, e Dante fa i conti con i cambiamenti di cui non si è accorto nel ritmo condensato delle sue giornate iperattive.
Una parte importante della storia è affidata alla figura della moglie Alice, che firma i suoi disegni con un datario, un vecchio timbro a data da ufficio, in cui le cifre giorno-mese-anno vanno sistemate manualmente.

A chi conosce il panorama degli artisti contemporanei interessati al tempo, non può non venire in mente la tecnica di Federico Pietrella, che ha sviluppato negli anni uno stile peculiare, in cui le forme rappresentate nelle sue tele – paesaggi, interni, ritratti –  sono ottenute proprio attraverso datari. E difatti, nel film, dal dettaglio della data si passa a vedere una grande composizione in cui il volto emerge dalla sapiente trama, più e meno fitta, più e meno regolare, delle date.


Ma anche i disegni di Alice hanno una fonte artistica reale, le opere dell’illustratrice e scrittrice Beatrice Alemagna,  pluripremiata, fra l’altro, per il libro, dal titolo assai pertinente, Un grande giorno di niente. Aver inserito gli stili di questi due artisti italiani nella narrazione dà al film un valore aggiunto, un’intensità visiva che accende la curiosità e permane nella memoria.

(a.s.)

Su diconodioggi: Le date dell’artista Federico Pietrella, di Franco Chirico
e Notizie da una mostra sul tempo

Giorno dopo giorno. Alice Guareschi

Il tubo arriva per posta e dentro, arrotolato, c’è un foglio di carta avoriata, un poster 50 x 70. Una volta disteso, mostra il suo messaggio: una frase di tre parole, composta al centro in modo che emerga – prima ancora della frase –  la consistenza dei gruppi di lettere in cui l’artista Alice Guareschi ha suddiviso e ricomposto le tre parole, che sono “Giorno dopo giorno”. Un sintagma di uso consueto prelevato dal linguaggio; una unità di misura lessicale che suggerisce il ritmo e la misura del tempo circadiano che scandisce le nostre vite;  un modo di dire e raccontare la ripetizione.
E anche una frase di sedici lettere: questo numero fa subito pensare ai quadrati magici di Alighiero Boetti in cui le lettere sono disposte in griglie di 4 righe e 4 colonne, le parole  (dare tempo al tempo / dall’oggi al domani) sono scritte in verticale e gli incroci regolari consentono scorrimenti ortogonali e diagonali dello schema. 
Nella sua opera, Alice Guareschi (nata a Parma nel 1976)  scompone la sua frase in quattro blocchetti che tagliano le parole in gruppi irregolari e li dispone uno sull’altro  (giorn / nod / opo / gior / no), producendo una lettura serpentina e lievemente instabile, che dona all’insieme una illusoria plasticità dinamica.
Realizzata nel 2022, quest’opera fa parte del progetto Utopia dell’Enciclopedia Treccani, che chiede ad artisti e artiste di interpretare visualmente un lemma a scelta fra gli oltre 150.000 del Vocabolario Treccani, “per completare l’impresa utopistica di creare un vocabolario di immagini”, e mettere a disposizione una collezione di poster d’artista acquistabili.
Nella pagina web dedicata al progetto, si possono visionare le parole che hanno trovato già la loro rielaborazione d’autore, fra di esse Ascolto del collettivo Claire Fontaine, Farfalla di Emilio Isgrò, Emigrazione di Giuseppe Stampone, Persona di Francesco Arena, la stessa Utopia, di Elisabetta Benassi e altre, che aggiungono dimensioni visive e concettuali alla nostra lingua.

Il lemma scelto da Alice Guareschi è Giorno e nel verso del poster è riportata per intero la voce del dizionario Treccani, ciò che rende il foglio una medaglia a due facce, da mantenere visibili entrambe.

Come si legge nelle note informative del progetto Utopia, “Alice Guareschi sceglie il lemma giorno, riprendendo la frase palindroma giorno dopo giorno, già protagonista di una sua opera di arte pubblica installata in modo permanente dal 2019 nella periferia sud di Milano”.
Invitata a partecipare al progetto Open (Bando Periferie 2018 del Comune di Milano), Guareschi ha infatti proposto – per quell’incarico – la 
scritta giorno dopo giorno, realizzata al neon in tre esemplari di colore blu, verde e rosa, installati in tre punti nei quartieri Chiesa Rossa e Stadera.
“Giorno dopo giorno è una scritta palindroma, che si può leggere sia in un verso che nell’altro; è una scritta aperta, che continua oltre sé stessa e può essere ripetuta all’infinito, come infinito è il tempo cosmico al di là delle scansioni numeriche del nostro calendario; è una scritta che non ha un soggetto definito, perché riguarda tutti, anche se ognuno a suo modo, a seconda della storia personale o più banalmente dell’umore del momento; è una scritta semplice, eppure complessa, perché allude alla vita quotidiana nelle sue molteplici, e a volte imprevedibili, sfaccettature”.
Mentre la scritta al neon corre in orizzontale, alludendo agli statement concettuali e alle suggestioni pop, quella disposta sul foglio rientra nella ricca tradizione della poesia visiva che manipola e ricombina gli elementi del linguaggio.
Come è stato scritto con acume “le lettere, ora nere su sfondo bianco, si fanno sobrie e minimal, mentre l’intervento di solo testo – quasi un ex libris – riduce all’essenziale la componente gestuale, cancellando ogni immagine e sottraendo elementi al fine di moltiplicare, ancora una volta, i possibili significati”.
Scorrendo l’archivio dell’artista, emergono poliedrici percorsi nel tema del tempo, delle sue misure e dei suoi intervalli, riflessi in opere come Every day, every morning, every day (2007),  I giorni e le ore (2010), 2005 (basato su un calendario), Ogni orologio è un labirinto (2014). 
(a.s.)

Il gioco dei giorni narrati ad Esquilibri 2023: leggere al passo col tempo

Esquilibri è la rassegna romana dedicata al libro usato e d’antiquariato che si tiene nella zona di piazza Vittorio, nel multietnico e letterario quartiere Esquilino. Una rassegna diffusa sotto i portici, nelle librerie e articolata in mostre ed eventi. Fra questi, diconodioggi è lieta di segnalare una conversazione sul Gioco dei giorni narrati, la raccolta di crononimi letterari che è all’origine di questo blog e dell’account Twitter. Pubblicata dall’editore Giunti nel 1994, diventata via via digitale e social, la raccolta è stata ristampata nel 2021, in una felice alternanza di immateriale e cartaceo.
Domenica 19 febbraio 2023 alle ore 15:00,  al Gatsby Cafè di piazza Vittorio, ne parlano l’autrice Antonella Sbrilli e Nicoletta Cardano.
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“Il gioco dei giorni narrati”: Leggere al passo col tempo.
Un incontro con Antonella Sbrilli, a partire dal suo libro “Il gioco dei giorni narrati”, Giunti Editore • Demetra 2021: un libro-calendario, un’antologia portatile, un aiuto per la memoria, un dono da fare o da farsi per attraversare il tempo in sincronia con la letteratura.
Una conversazione in “gioco” tra l’autrice e il pubblico, tra il calendario del tempo reale e il tempo della finzione narrativa, introdotta da Nicoletta Cardano.
Qui il link all’evento facebook

 

L’anno dei petali appuntiti: l’orologio floreale di Ridler

L’immagine statica che si vede riprodotta non restituisce se non in minima parte la natura dell’opera dell’artista Anna Ridler dal titolo Anno oxypetalum: il titolo è traducibile comel’anno dei petali appuntiti”, con riferimento al nome di un cactus a fioritura notturna, i cui petali hanno una tipica forma a punta, acuta (in greco ὀξύς ).
Si tratta di un’opera d’arte generativa che si muove – come sempre nella ricerca dell’artista britannica – intrecciando i temi del tempo, dei fenomeni naturali (in particolare botanici) e le occasioni che digitale e Intelligenza artificiale offrono nell’esplorazione e nella generazione di nuove forme miste di arte, calcolo, durata, interazione.
Per vedere l’opera nei suoi effetti mobili e vibratili, ci si può collegare tramite questo link al sito di Sotheby’s, che ha messo all’asta l’NFT (Non Fungible Token) collegato ad essa (2022).
Nel video, il ritmo della fioritura annuale di questo cactus che fiorisce di notte  è compresso in tre minuti. Come si legge nella scheda tecnica dell’opera, ogni mezzo secondo rappresenta un giorno, i fiori si aprono e si chiudono, mentre la luce cambia con le stagioni. Il video è sincronizzato con il solstizio d’inverno del 2021 a Londra, ma la caratteristica sorprendente è che quando viene acquistato (come NFT)  il video si sintonizza con la stagione del passaggio di proprietà.

Non solo: come spiega l’artista “la tempistica codificata algoritmicamente è precisa fino all’anno 3000. L’opera diventa una forma di cronometraggio ad alta precisione, anche se fa riferimento a una forma più medievale di calcolo del tempo, legata al tramonto e all’alba”. L’intento  è dunque anche quello di riflettere su come le capacità di calcolo, montaggio, sincronizzazione offerte dalla tecnologia attuale entrino in risonanza con una materia prima antica, ciclica, organica. Reti neurali e blockchain sono la forma attuale di un tentativo antichissimo di categorizzare tempo e natura. 
Anno oxypetalum si inserisce nella ricerca di Ridler sugli orologi crono-biologici delle piante, avviata con il progetto dal titolo Circadian Bloom, ispirato all’orologio floreale che Carlo Linneo propose nel 1751 nella sua Philosophia Botanica. Osservando come ogni fiore si apra e chiuda in momenti precisi e ricorrenti, il naturalista svedese ipotizzò  di poter utilizzare i momenti delle fioriture per segnare le ore e i minuti di quello che sarebbe stato un “horologium florae”. Sulla scorta di questa idea, Anna Ridler nel 2021 ha utilizzato la tecnologia più avanzata per realizzare una sorta di sistema di misurazione del tempo scandito dalle fioriture, un sistema che fa incontrare e reagire meccanismi naturali e artificiali, aspettative umane e algoritmi, istanti e stagioni. 

(a.s.)

The Age/L’Età

The Age/L’Età è il titolo di una mostra dell’artista inglese Emma Talbot (Stourbridge, UK, 1969), vincitrice dell’ottava edizione del Max Mara Art Prize for Women, nato dalla collaborazione fra Whitechapel Gallery, Max Mara e la Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
Proprio alla Collezione Maramotti l’artista  presenta  un’opera complessa, realizzata con varie tecniche e materiali (dal disegno su seta all’animazione), frutto di ricerche sui temi intrecciati dell’invecchiamento, della crisi climatica, con uno sguardo al concetto di “permacultura” e alla sopravvivenza del  sostrato mitico e artigianale delle culture antiche nel presente.
Il  titolo  – come si legge nel comunicato stampa – “assume come punto di partenza il dipinto Le tre età della donna (1905) di Gustav Klimt”, studiato da Emma Talbot durante la sua residenza in Italia e di cui l’artista reinterpreta la figura della vecchia. 
Uno dei nuclei dell’esposizione è un’animazione in dodici capitoli, durante i quali la protagonista affronta una serie di prove simili alle dodici fatiche di Ercole. “Invece di superare le prove attraverso la distruzione, il furto, l’inganno e l’omicidio (come fece Ercole), la protagonista adotta soluzioni pratiche, produttive e incentrate sulla cura ispirate ai dodici principi della permacultura, un metodo che permette di convivere in modo etico e sostenibile con la terra”. 
Un’altra tappa della mostra è costituita da due grandi pannelli di seta dipinti con paesaggi in rovina e terreni vulcanici, frutto della riflessione svolta dall’artista in Sicilia, in un soggiorno che l’ha portata a contatto sia con le rovine classiche sia con la Casa di Paglia Felcerossa, azienda agricola sull’Etna in cui si sperimenta la costruzione di un ambiente sostenibile.
Ai tanti fili di questa ricerca creativa si aggiunge la competenza sul riciclo di materiali tessili e l’utilizzo di tessuti particolari per l’elemento culmine della mostra The Age/L’Età: una figura tridimensionale di donna anziana a grandezza naturale, per le cui rughe “sono stati utilizzati materiali ideati dall’artista in collaborazione con Imax, la divisione maglieria di Max Mara”.

A questo link le informazioni nel sito della Collezione Maramotti.

 

 

Per Anna Martinatti il tempo è

Fra i tanti completamenti della frase “Il tempo è” (tiranno, denaro, galantuomo, relativo ecc.), Anna Martinatti ne ha scelti alcuni collegati al tema del valore e li ha presi a oggetto di un’azione artistica trasformativa. 
Le frasi fatte sul tempo che ripetiamo nei discorsi quotidiani, spesso senza più pensare agli strati di significato che contengono, sono state scritte in grande su una parete: in corsivo l’incipit col soggetto e il verbo (“il tempo è”) e in maiuscolo il predicato nominale. Questa seconda parte Anna Martinatti l’ha poi modificata secondo le regole dell’anagramma, ottenendo nuovi completamenti, che cambiano profondamente il significato iniziale e quindi – come lei spiega  – possono stravolgere “potenzialmente anche la nostra interazione con il tempo”, nella fattispecie nel suo legame con i temi del valore di scambio. Per esempio “Il tempo è denaro – il tempo è donare”: qui basta lo spostamento di due vocali per ribaltare il detto che collega tradizionalmente la dimensione temporale a quella economica, aprendo alla gratuità e al regalo. 
Studentessa allo IUAV di Venezia, Martinatti ha allestito la sua azione nell’ambito della Summer School of Contemporary Art Counterproduction, organizzata annualmente a Palermo da Stefania Galegati, Davide Ricco e Daria Filardo. Si tratta di una scuola autoprodotta e innovativa che – sulla scia del così detto pedagogical turn –  intreccia pratiche artistiche, curatoriali, e formative. In questo contesto, Anna Martinatti ha scelto dunque di concentrarsi sulle parole e le metafore con cui  affrontiamo il tempo nel quotidiano, ottenendo ribaltamenti ironici, come questo: “Il tempo è risorsa limitata – il tempo è risata, moralisti!” e aperture esoteriche, come nel bellissimo:
“Il tempo è merce pregiata – il tempo è rete magica per…”, che lascia a chi legge la possibilità di completare a sua volta il pensiero.

Ph. courtesy Anna Martinatti, Giacomo Isidori
(a.s.)

Calendaria 2022

A gennaio troviamo ricordate la prima donna medico del mondo antico, la greca Agnodice, poi la dottoressa olandese Jacobs, pioniera della contraccezione, un’altra olandese, d’Eaubonne, considerata la fondatrice dell’ecofemminismo, l’attivista politica lussemburghese Thomas-Clement, e la storica e sociologa croata Sklevicky.
A febbraio la scrittrice e traduttrice bulgara Gabe, l’insegnante irlandese Herlihy, attiva nella nascita delle cooperative di credito, la politica spagnola Montseny, prima donna ministra della Sanità e della Previdenza sociale nel 1936, la fisiologa nutrizionista svedese Kronberg, a cui si deve l’invenzione del latte in polvere, e l’esperta di alimentazione Ochorowicz-Monatowa, nata in Polonia nella metà dell’Ottocento.
E così via, ogni mese del 2022 ricorda un nucleo di donne che “hanno dato una nuova idea del sapere femminile: concreto, realistico, ma profondamente intriso di umanità”, per un totale di 62 ritratti: biografie essenziali  in tre lingue, accompagnate da disegni realizzati da illustratrici di diversa provenienza. 
Stiamo parlando di Calendaria 2022, un calendario sui generis – è il caso di dirlo – curato da Toponomastica femminile, l’associazione che lavora da un decennio sui temi della parità, a partire da un dato statistico ben visibile: le strade, le piazze, i giardini, insomma gli spazi pubblici, intitolati a donne, sono nettamente di meno di quelli dedicati a uomini. Da qui l’impegno del gruppo di ricerca perché la presenza di nomi femminili nelle targhe stradali aumenti, compensando il gap attuale e arricchendo i percorsi quotidiani delle persone di presenze importanti, che hanno contribuito a migliorare le società in cui hanno vissuto e operato, rimanendo spesso in secondo piano.
Sul sito di Toponomastica femminile si trovano informazioni sulle attività dell’associazione, le iniziative educative, le collaborazioni con istituzioni e media, la documentazione su ricerche e progetti in corso, tutti collegati a questo obiettivo.
La creazione di un calendario rientra nelle imprese che contribuiscono a creare una nuova sensibilità: dopo Calendaria 2021, realizzato nel pieno della pandemia, l’edizione del 2022 prosegue nella diffusione di conoscenze su donne europee che si sono distinte – come si legge nella presentazione – “nei diversi campi correlati ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030”.
La Nobel polacca Wisława Szymborska – in Voltando pagina – ricorda che il destino del calendario è effimero e il suo carattere umile, ma la sua diffusione è capillare e quotidiana e la varietà di testi che contiene lo imparenta a una piccola grande narrazione collettiva. Trovare dentro la sua griglia di caselle con i giorni dell’anno le storie e i volti di scrittrici, sindacaliste, cuoche, scienziate ecc. consente di collocare queste donne nel tempo, in attesa di incontrarle nello spazio cittadino.

Il progetto editoriale è di  Donatella Caione, Maria Pia Ercolini, Livia Fabiani che firma anche  il progetto grafico.
(a.s.)

 

Nelle tappe del tempo, con Franco Rella (il 27 ottobre 2021)

In copertina c’è la riproduzione di una scatola di Joseph Cornell, della serie Aviary (voliera), in cui la sagoma di un pappagallo ci guarda da una incastellatura di quadranti d’orologio (marca Elgin), fra molle, spirali e un carillon rotto. È l’ingresso visivo, quanto mai pertinente, al libro del filosofo Franco Rella, L’arte e il tempo (Jaca Book 2020), da poco ristampato in seconda edizione, e che è presentato mercoledì 27 ottobre 2021 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. 
Come un segnatempo, anche il libro di Rella rende omaggio alla scansione delle ore e dei mesi e raccoglie – nella prima parte – dodici saggi che attraversano il pensiero, la scrittura, la visione del Novecento, con affacci sul XIX secolo di Baudelaire, su Van Gogh (Volti e paesaggi), incursioni in Dürer (Specchi e clessidre), in Leonardo (Freud e Leonardo). 
Già pubblicati in diverse sedi e occasioni, questi dodici testi sono considerati dall’autore “capitoli di un libro sostanzialmente unitario, che disegna un lungo arco temporale fatto anche di rinvii, riprese, scoperte e riscoperte. Li vedo come una storia che si è dipanata in diverse tappe. Alcune cose sono ripetute, forse è meglio dire ribadite. Non ho cercato di cancellare questi segni che indicano anche nel tempo la costanza di temi, di concetti, di immagini che costituiscono di fatto il mio sguardo”. Qualunque sia infatti il focus o l’occasione del testo – presentazione, conferenza, saggio – la prosa dell’autore si dipana come un diario intellettuale, ritmato da paragrafi contigui, in cui chi legge ritrova – per motivi sempre leggermente diversi e sempre profondamente  affini – gli interlocutori e le interlocutrici del suo pensiero e del suo sguardo, Benjamin, Rilke, Adorno, Weil, Mann, fra molti (e qui un invito all’editore: proprio perché il libro costruisce una rete di relazioni, l’indice dei nomi sarebbe prezioso).

Nella seconda parte del volume, dal titolo Micrologie, Rella propone dieci “microsaggi”, definiti “elaborazioni, senza note o riferimenti”, che si affiancano ai dodici testi della prima parte, proponendosi come “una sequenza di domande che vengono poste al pensiero”. 
Chiude il libro un album di 41 immagini, riproduzioni di opere incontrate o alluse nei testi che le precedono e che entrano in tensione con essi, sempre attraverso la porta – e il gioco di specchi –  del tempo. Volendo, si può cominciare la consultazione del libro proprio da questa sequenza, che si apre con l’Inverno di Benedetto Antelami (una stagione) e si chiude con la Lupa di Kentridge dal fregio Triumphs and Laments sul muraglione del Tevere: un’opera del 2016, ottenuta togliendo la patina dal travertino, e che sta ormai svanendo, ricoperta da nuova patina. Un’opera che si introduce consapevolmente nell’azione entropica del tempo, facendone la sua sostanza. E da questa immagine che chiude il libro, si può cominciarne, o ricominciarne, la lettura. 

Presentazione del libro di Franco Rella L’arte e il tempo (Jaca Book)
con Cristiana Collu, Maurizio Gargano, Michele Trionfera
Mercoledì 27 ottobre 2021, alle 17:30
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Roma, viale delle Belle Arti, 131

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Pablo Rubio, “un presente continuo”

Solo a leggere i titoli delle opere e dei progetti di Pablo Rubio (Córdoba, 1974), il tempo e la memoria emergono come i punti cardinali della sua ricerca: Llanuras para cinco vértices, Diarios de navegación, La mañana de un blanco lunes e così via. Ai titoli corrisponde spesso un racconto, sprigionato da un’esperienza, da un palinsesto di letture e di incontri, da una riflessione sulla perdita e sulla trasformazione continua di persone e di ambienti. 
Chi ha avuto l’occasione di conoscere l’artista spagnolo al lavoro, ha avuto un’idea del suo metodo: un contenuto, a volte doloroso, trova la sua forma percepibile attraverso la scelta di carte, tracce scritte, fotografie, oggetti, materie allestite con sapienza (e bellezza) nello spazio che le ospita, anche per breve tempo. 
La pietas di Pablo Rubio nei confronti delle memorie diventa tangibile e provoca in chi guarda, o percorre le sue opere, una gamma di reazioni, che vanno dal piano della sensibilità a quello dell’intuizione scientifica, là dove si sente che l’artista sta cercando di rappresentare l’impossibile,  il tempo. 
Il progetto più recente di Rubio si intitola Autobiografía para un presente continuo ed è visibile fino a dicembre 2021 a Córdoba, presso il Vestibulo dell’Hospital Universitario Reina Sofía.
Il progetto si lega allo stato di paura, solitudine e dolore che la pandemia ha instillato, e – coerentemente con la ricerca dell’artista – vuole dare vita a “un tempo che è passato troppo in fretta”, che “si disintegra all’istante”, con il rischio che tutto diventi “un ricordo remoto”.
Come si legge con chiarezza nella presentazione, si tratta di un progetto espositivo “per ringraziare i professionisti dell’Ospedale Universitario Reina Sofía per la loro dedizione e il loro impegno durante la pandemia di COVID-19, sia per la loro grande capacità di adattarsi a una situazione sconosciuta sia per la loro dedizione e il loro sforzo, che li ha resi un esempio di progresso e umanizzazione”.
In bilico fra solitudine e fragilità individuale e forza collettiva, l’Autobiografía para un presente continuo prende come fulcro un luogo, l’ospedale, inteso “come un gigantesco nido dove risiedono resistenze, sforzi e vittorie, e naturalmente la gratitudine nel senso più ampio della parola”.

Qui il sito di Pablo Rubio 

(a.s.)

 

Incursioni nel tempo

Incursioni nel tempo

Nel libro di Salvatore Settis dal titolo Incursioni. Arte contemporanea e tradizione il termine tempo ricorre in tante pagine, che indagano e avvicinano gli artisti scelti nel suo viaggio trasversale nella storia dell’arte. Il capitolo dedicato a Giuseppe Penone lo racchiude nel titolo: “Giuseppe Penone: scolpire il tempo”, che rimanda a un altro titolo, quello della raccolta di testi di Marguerite Yourcenar Le Temps, ce grand sculpteur, che – a sua volta – è mutuato da un verso della poesia di Victor Hugo sull’Arco di Trionfo
Settis ripercorre le azioni scultoree dell’artista piemontese, i suoi interventi nei boschi, gli scavi interni al legno dei tronchi o la duplicazione di pietre con pietre e alberi con metalli. Qui la tradizione sprofonda nella dimensione mitica dei regni naturali e trova il suo faro in Ovidio, la cui poesia metamorfica coglie “l’incessante fluire delle forme e delle specie insistendo sui momenti di trapasso […] per suggerire che la mutazione non è solo il momento chiave del suo racconto, ma il cuore stesso della struttura del mondo”.
Insieme al pensiero classico, la lettura di Penone è condotta con affacci su visioni ecologiche attuali, e prende rilievo il tema dell’interconnessione dei fenomeni, che siano naturali o artefatti, inclusi noi stessi osservatori e osservatrici. Discutendo degli alberi bronzei di Penone, Settis chiama in causa le tre diverse temporalità che si intersecano in questa tipologia di opere: la lunga durata naturale, il lavoro minuzioso dell’artista e poi la percezione che ne hanno le persone, che a sua volta implica due dimensioni spazio-temporali; prima lo sguardo da lontano e poi il contatto tattile da vicino. A quel punto, l’inganno è svelato e l’osservatore è incluso per sempre nella vita della materia sfiorata e nella rete di informazioni elaborate.

Una delle incursioni più intense di questo libro di Settis è dedicata all’opera romana di William Kentridge, Triumphs and Laments, il lungo fregio sui muraglioni del Tevere, ottenuto togliendo la patina dal travertino, e che – dopo poco appena cinque anni dalla sua realizzazione – sta ormai svanendo. L’opera monumentale dell’artista sudafricano consente a Settis di tirare molte fila dei suoi interessi archeologici, storici, artistici e politici, offrendo un montaggio di forme e formati che percorrono ricorsivamente la storia di Roma e in cui innesta considerazioni che vengono dalla lezione di Aby Warburg e del suo Atlante Mnemosyne.
La tessitura dei rimandi al passato è talmente fitta e il movimento nel tempo si fa tanto intricato che Settis ricorre anche a degli schemi visuali per fare emergere la stratificazione dei livelli cronologici che si intersecano in molti punti del fregio: il livello dell’evento rappresentato, quello dell’immagine scelta come fonte, quello definito dall’adiacenza ad altre figure. Sono schemi che a loro volta innestano catene di cortocircuiti temporali e anacronismi, intesi non come ‘fuori posto’, ma come compresenze di figure e accadimenti sotto un unico sguardo sinottico. Pur svolgendosi in orizzontale lungo una linea di mezzo chilometro, la linearità è estranea a quest’opera, che parla la lingua aggregante della memoria, con i suoi ingorghi, le zone nere e vuote, i camuffamenti e i ritorni. E pur essendo un’opera statica, si muove con chi la guarda camminando. E la nona incursione di Settis cerca di restituire su pagina sia la non linearità sia la mobilità storica e figurativa, simbolica e tecnica dei Trionfi e Lamenti di Kentridge.

Del resto, Kentridge è stato l’autore di un’altra impresa colossale, The Refusal of Time, una potente installazione multimediale, uno spettacolo, una ricerca sulla temporalità, a cui ha collaborato lo storico della fisica e filosofo della scienza Peter Galison. Presentata alla documenta di Kassel nel 2012, trasformata anche in un libro sui generis, l’opera mette chi partecipa in mezzo a una congerie di stimoli visivi, sonori e ritmici che generano una percezione del tempo multipla e discontinua. Il tempo ‘rifiutato’ è quello della standardizzazione oraria ‘capitalistico-coloniale’, decisa politicamente ed esportata via via in tutto il mondo, il tempo delle sincronie e delle cronologie diritte e progressive. A questa rappresentazione, l’arte è in grado di opporre tecniche e linguaggi che sovrappongono stati temporali e moltiplicano punti di vista. Sono gli scarti, le scomparse e i ritorni, le illusioni e i lampi che si producono nella memoria personale e condivisa, e nei suoi passaggi da un’epoca all’altra, da un emisfero all’altro. Inseguirli e raccontarli in una forma non lineare è la sfida contemporanea.

Salvatore Settis, Incursioni. Arte contemporanea e tradizione, Feltrinelli, Milano 2020

Il testo è un estratto da A. Sbrilli, Ordini e incursioni del tempo, apparso in Incursioni, Arte contemporanea e tradizione di Salvatore Settis. Una lettura corale, uscito nella rivista Engramma, n. 180, marzo/aprile 2021 a cura di M. Centanni e G. Pucci

Intervallo

Intervallo è una pubblicazione e una mostra: il libro, composto da disegni di Paolo Bernacca e da dialoghi di Stefano Scialotti, è edito da Bernacca edizioni (piccola raffinata casa editrice specializzata in grafica) e la mostra  espone le tavole originali alla libreria Fahrenheit 451 e nel foyer del cinema Farnese di Roma, Campo dei Fiori.
Dal 3 al 17 giugno 2021, “sotto l’alto patronato di Giordano Bruno”, come si legge nell’invito, si può entrare, a due a due, nei locali della storica libreria di Catia Gabrielli per percorrere con lo sguardo le tavole e sfogliare le pagine di questo passo doppio.
“All’inizio non c’era nessuna idea precisa, come sempre” – scrive Stefano Scialotti, l’autore dei testi  -, solo una insofferenza per i racconti ripetitivi del secondo anno di pandemia e l’idea di combinare qualcosa con l’amico, complice di molte imprese verbo-visive, Paolo Bernacca.
“Lui mi manda un po’ di disegni di Roma vuota. Panorami della Città Eterna in un campo grigio morbido. Un tempo sospeso. Da molti anni io ero fissato con una serie di brevissimi racconti: Banalità. Alla fine i disegni hanno ispirato un’evoluzione delle mie vecchie banalità e viceversa i dialoghi hanno creato un percorso anche per i disegni”.
Ha origine così la combinazione felice fra i disegni romani di Paolo Bernacca, maestro dello sketchcrawl (maratona di disegni e acquerelli che testimoniano un’escursione, una flânerie nei luoghi prescelti) e i testi a dialogo fra LEI e LUI di Stefano Scialotti (regista, documentarista e scrittore, fra l’altro, di un libro dal titolo Lennon not Lenin. Il muro di Berlino erano due). 


I disegni sono una ventina e, per chi conosce la città, scatta subito l’invito a ricostruire il punto da cui l’artista ha tracciato la veduta, da quale ponte sul Tevere, da quale finestra, da quale parapetto si è affacciato; e poi viene voglia di farsi piccoli per entrare nei dettagli delle finestre, del selciato, degli scorci in discesa. Lo sguardo di Bernacca su Roma è pieno di cura per le cose, i monumenti, i platani, e per le persone, prova ne sia la scritta Free ZAKI che compare, discreta ma decisa, su un cartello. 
Accanto a ogni disegno, si trovano i testi di Scialotti, identificati da categorie che costruiscono una lista eloquente (Depressione, Vuoto, Impossibilità, Inerzia, Stupidità, Concerto, Solitudine, Schizofrenia, Ossimoro, Sciocchezze, Capriola, Finzione, Circolo vizioso, Tran tran, Credo, Problema, Bella domanda, Solo, Fine del mondo) e da un numero, a volte altissimo, come se l’autore avesse estratto il testo da una raccolta senza fine o stesse giocando con i segni, vedi per esempio “Circolo vizioso n. 1001”.
Volendo, si può cercare quali fili leghino i dialoghi con i disegni (“Ma tu ti senti isolato?” è la battuta d’inizio del testo che si accompagna a uno scorcio dell’isola Tiberina), mentre il fiume scorre, con i tratti chiari sul fondo grigio della carta, in corrispondenza di domande ricorrenti “E poi cosa succederà? / Niente di nuovo penso”.
Per la sua natura, questa doppia raccolta mette in risonanza due tracce di esperienza (disegni e testi, domande e risposte, LUI e LEI) e le porge a chi ha voglia di essere coinvolto nel gioco.
Che poi, gli schizzi di Bernacca sono sketch e i dialoghi di Scialotti anche, nel senso che questa parola ha nello spettacolo, dove indica una scenetta, che capta una situazione e la restituisce in poche battute. Qualcuno ricorda, o ha sentito parlare, di un programma radiofonico degli anni Sessanta/Settanta, Eleuterio e Sempre Tua, in cui due grandi attori, Paolo Stoppa e Rina Morelli, interpretavano scenette di vita quotidiana d’antan, dove si affacciava l’attualità, per esempio nel 1973 l’austerity.
Cinquant’anni dopo, la pandemia occupa lo spazio della coppia senza nome di Intervallo e l’arguzia coniugale di allora è ridotta all’osso di poche parole, dove il tempo, il vuoto, il presente-remoto spadroneggiano. 
Banalità, voleva intitolarle Scialotti, ma poi la scelta del titolo è caduta su una parola molto evocativa: l’intervallo, quello fra le lezioni, quello – remoto e musicale – nella programmazione televisiva, quello dei cinema degli anni ’60, quando la pausa fra il primo e il secondo tempo – è sempre Scialotti a scriverlo – “permetteva di andare al bagno, chiacchierare, comprare bibite e gelati”. 
Ben ci sta dunque questa mostra nel foyer del cinema Farnese (e nella libreria all’ombra di Giordano Bruno). 

Antonella Sbrilli

Paolo Bernacca, Stefano Scialotti, Intervallo, edizioni Bernacca, Roma 2021
Roma, Libreria Fahrenheit 451, Campo dei Fiori 44 e foyer del Nuovo Cinema Farnese (3-17 giugno 2021)
Paolo Bernacca sketches on line
Stefano Scialotti video su vimeo

Giorni barocchi in una mostra a Roma

Oltre a dipinti e disegni esemplari, a manufatti di grande ingegno e perizia meccanica – come gli orologi notturni – la mostra Tempo barocco (Roma, Palazzo Barberini), offre una riflessione sul tempo nella poesia, firmata in catalogo da Emilio Russo. La riflessione prende avvio dalla Riforma del calendario di Gregorio XIII, e  da una lettera di Torquato Tasso, siglata 8 ottobre 1582. Una lettera – scrive lo storico della letteratura – “letteralmente fuori dal tempo”, perché scritta in uno di quei dieci giorni dell’ottobre 1582 soppressi dalla bolla di papa Gregorio XIII. Elaborata per correggere l’invecchiamento del calendario istituito da Giulio Cesare, sistemare i calcoli sull’Equinozio e sulla data della Pasqua, la Riforma che introduce il calendario gregoriano ha avuto un influsso sul senso del tempo di chi l’ha vissuta. Michel de Montaigne annotava di non riuscire ad adattarsi  al cambiamento, tanto da essere con la mente  sempre dieci giorni avanti oppure dieci giorni indietro (Saggi, libro III, capitolo X).
Nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco lo sfasamento di dieci giorni fra i calendari in vigore dopo la Riforma – che fu accettata prima, e in diverse fasi, dai paesi cattolici e più avanti in quelli protestanti –  ha la sua rilevanza nell’intricata vicenda. E la cancellazione di quella decina di giorni è stata di ispirazione per un’artista contemporanea, Chiara Camoni, che li ha rivendicati da un notaio e ha costruito intorno ad essi una performance durante la quale regala uno dei giorni ai visitatori, con tanto di certificato timbrato.
Tornando alla mostra Tempo barocco e alle riflessioni sulla rappresentazione ed elaborazione poetica della dimensione temporale, si incontrano altre meraviglie, come l’elogio di Gregorio XIII, il “pontefice che aveva ereditato da Dio la capacità di correggere il sole e di mutare il corso del tempo”, fatto da Giovan Battista Marino nella Galeria. Del poeta napoletano, l’autore del saggio ricorda e discute altre incursioni nella zona del tempo e delle sue iconografie, vecchio alato, rivelatore della verità, cancellatore della bellezza e della memoria, portatore sulla schiena di una clessidra che imprigiona il moto perenne della sabbia prigioniera nelle ampolle (Adone) . 
In dialogo con le fonti classiche e con la cultura iconologica, Giovan Battista Marino svolge – per mezzo delle parole e delle strutture poetiche – percorsi ciclici e orizzontali nel dominio del tempo, dai secoli ai giorni, fermandosi sugli snodi concettuali dell’arte in grado di superare il volo entropico del tempo e sulla sfida dialettica fra Tempo e Amore. 
Il saggio di Emilio Russo si addentra poi nel territorio della “misurazione analitica” del tempo, con le lettere di Galileo che nel gennaio del 1610, “notte dopo notte” annota le sue osservazioni sul moto dei pianeti e della luna: “Tempo come misura del movimento e tempo come orizzonte di una durata, di una permanenza nei cieli”.
Dalla scrittura poetica alla scrittura scientifica, il tempo barocco – e le riflessioni su di esso – si rivela il “perno di un’intera concezione del mondo”, ampia, variegata, virtuosistica, che può venarsi di rimandi morali alla vanitas e di concettismo.

Una postilla su un tema centrale nella mostra:
la contesa fra Tempo e Amore, Cronos e Cupido, illustrato da tele e splendidi orologi, è oggetto del saggio in catalogo di Francesca Cappelletti, Il tempo ma anche l’amore: pseudomorfosi seicentesche fra l’Italia e il Nord.

Il testo svolge un percorso fra allegorie ed ecfrasi, fonti classiche e rivisitazioni, che si intreccia con il tema della Fortuna e con i potenti mutamenti della considerazione del tempo nel pensiero del secolo XVII. 

E poi una osservazione molto laterale, che rimbalza da uno straordinario dipinto in mostra, Il Tempo taglia le ali all’Amore di Antoon van Dyck a un passo dell’Adone di Marino (X, 56-57) citato nel saggio di Russo, dove si legge: “Quell’uomo antico, ch’a le spalle ha i vanni”.


Il termine “vanni” per ali, desueto, si rintraccia ancora nella cultura rebussistica del Novecento: nella vignetta qui riprodotta, una spigliata figura femminile taglia le ali all’amorino in un così detto “rebus onomastico”, la cui soluzione è un nome, in questo caso B a T taglia = Battaglia, GO vanni = Giovanni. 
Il gioco enigmistico mantiene tracce, anche umoristiche, di cultura mitologica e lessicale mescolando le carte (le figure e i termini) della scena.

La mostra Tempo barocco, a cura di Francesca Cappelletti e Flaminia Gennari Santori, è aperta a Palazzo Barberini (nel nuovo spazio mostre) fino al 3 ottobre 2021. Il catalogo è edito da Officina Libraria, il saggio di Emilio Russo citato in questo post si trova alle pagine 33-43 e quello di Francesca Cappelletti alle pagine 23-31.

Antonella Sbrilli
@diconodioggi

 

Calendiario di Maria Teresa Carbone

“aperto dopo il sogno l’occhio
scorre in sovrimpressione
the end la coda della notte
dissolvenza
domani è un altro giorno
è oggi”

Sembra scritto apposta per diconodioggi questo attacco, che viene dal libro di Maria Teresa Carbone, Calendiario, uscito nell’autunno del 2020 per i tipi di Nino Aragno editore. Sembra scritto apposta per chi sente fisicamente e mentalmente il tempo, per chi – in mezzo a qualunque situazione, evento bello o brutto, stravolgimento o noia – non può fare a meno di notare in che punto del tempo si trova, percependo le variazioni minime delle sue porzioni. 
Nello scrivere il titolo, il correttore suggerisce calendario e bisogna inserire “a mano” la i, per mescolare quello che Szymborska descriveva come il perfetto e puntuale best-seller di ogni inizio d’anno con il diario, e ottenere così la parola voluta da Maria Teresa Carbone per il suo libro.
Giornalista (il manifesto, pagina99, alfabeta2), autrice (di recente 111 cani e le loro strane storie), traduttrice (di recente Nella casa dell’interprete, di Ngu˜gı˜ wa Thiong’o), attiva nel campo dell’educazione alla lettura (associazione Monteverdelegge, Forum del libro) e alla visione, Maria Teresa Carbone raccoglie nel suo Calendiario testi che vengono da una lunga stratificazione verticale (Calendiario 2004-2020) e dall’osservazione orizzontale della torta e del corpo del tempo (Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana). I versi riportati all’inizio provengono dal Terzo quarto: del tempo (p. 54 e ss.)
Chi conosce le fotografie che mtcarbone pubblica su Instagram (anche esse esercizi quotidiani) può percepire una matrice comune con le poesie: la scelta di alcuni soggetti, il concatenarsi di interni e di esterni, il sentirsi osservatrice che viene osservata (o che immagina di poterlo essere nello stesso istante). Se nelle poesie queste situazioni innescano una ricerca di parole selezionate e impreviste, nelle fotografie si dispiegano in layer appena sovrapposti, in riflessi che indicano presenze contemporanee o anacronismi, spesso in chiare visioni illuminate.
E per restare nel lessico del tempo,  il libro – che va davvero letto da chi è coinvolto nella cronomania – esce nella collana “i domani”. 

La collana è a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno (che in quarta di copertina incornicia con una sua lettura il Calendiario)
Qui il sito della casa editrice
La foto in apertura viene dall’account Instagram di @mtcarbone 

(as)

What Day is Today?

La perdita di orientamento nel tempo provocata dal lockdown avrà portato molti a pronunciare la frase “Che giorno è oggi?”.
Ora quella frase è diventata un libro che raccoglie le 49 cartoline inviate alla Fondazione VOLUME! da altrettanti artisti e artiste legate allo storico spazio di ricerca e sperimentazione situato a Roma, in via San Francesco di Sales.
“Tra marzo e maggio 2020, durante il lockdown, la cassetta della posta di VOLUME! si è riempita di cartoline da parte dei nostri artisti e amici. Provenienze diverse, orari diversi, giorni diversi. Ognuno racconta la sua quarantena”, si legge nell’incipit della pubblicazione. 
I giorni di marzo, aprile, maggio 2020 sono incastonati in queste immagini – cartoline: ognuna di esse, con la sua tecnica e la sua grafia, invita a fermarsi sulla pagina dove è riprodotta, a collegare ciò che si vede al luogo di partenza, alla data, talvolta anche all’ora (come fa il collettivo Polisonum, nella Registrazione muta da finestra, Roma, 20 marzo 2020, ore 00:43).
Ogni cartolina è uno specimen dell’artista che l’ha inviata (bello ritrovare stili, tecniche, invenzioni compositive) e insieme un affaccio sul tempo e ogni lettore può cercare e trovare affinità, risonanze, tracce, inquietudini, cronofilie e cronofobie.
Per diconodioggi, le attrazioni sono tante, dal termine TIME stampigliato nella cartolina di H. H. Lim, alla pagina dell’artista iraniana Avish Khebrehzadeh che ripete Che giorno è oggi in tante lingue e colori, a Reverie che squaderna la frase Il / virus / del / tempo  nella sua cartolina da Milano (Cambiando l’ordine dei fattori la malattia del mondo non cambia), al Journal d’exile di Monica Biancardi, al cruciverba di Mutsuo Hirano e via sfogliando.
Le cartoline sono state raccolte da Francesco e Daniela Nucci, Marianna De Vita, Antonella Liucci, Silvano Manganaro, Roberta Pucci.
Gli artisti e le artiste (e i collettivi) mittenti sono:
Mimmo Paladino, Stefano Cerio, Claudio Martinez, Sauro Radicchi, Avish Khebrehzadeh, Andrea Branzi, Myriam Laplante, Guido Gazzilli, Bruno Ceccobelli, Giuseppe Gallo, Bizhan Bassiri, Arcangelo, Giovanni Albanese, Valentina Palazzari, Maurizio Savini, Guido Laudani, Alessandro Bulgini, Polisonum, Francesco Viscuso, Thomas Lange, Reverie, Mutsuo Hirano, Sandro Mele, Alfredo Pirri, Flavio Favelli, Carlo De Meo, Nahum Tevet, Rui Chafes, Giulio Telarico, Sissi, Renzogallo, Federico Ridolfi, Daniele Villa Zorn, Dario D’Aronco, Monica Biancardi, H.H. Lim, Roberto Pietrosanti, Roberto Fellicò, Petr Davydtchenko, 2A+P/A, Katrina Haikala, Mariella Bettineschi, Gregorio Botta, Mario Rizzi, Vincenzo Marsiglia, Michele De Lucchi, Michele Welke, Federico Cavallini, Sofia Ricciardi

L’antologia è sfogliabile a questo link.

(as)

La coerenza del tempo: Letizia Cariello

Nella sua pagina Instagram, l’artista Letizia Cariello accoglie con una scelta di immagini legate alla sua ricerca sul tempo: dettagli delle sue opere – fra cui spicca la serie dedicata ai calendari -, scorci di natura, incontri, letture significative. Gli hashtag che accompagnano le immagini sono selezionati con cura:  #dayafterday, #nulladiesinelinea,#listentotime e molti altri che raccontano nella forma della scrittura breve quello che le opere fanno con le loro materie e le loro forme.
Laureata in Storia dell’arte all’Università di Milano e in Pittura all’Accademia di Brera, docente di Disegno anatomico nella stessa Accademia, Letizia Cariello – come si legge nel suo sito – “intende intercettare la coerenza del tempo”, cercando di renderne percettibili le tracce. Il filo rosso, con cui lega oggetti quotidiani e trapunta fotografie è una delle espressioni di questo intento.

Così come la scrittura dei calendari, forme circolari riempite fittamente e ritmicamente di lettere e numeri, date sintetizzate in un codice alfanumerico personale che attira chi guarda nel cerchio ottico di una lingua da decifrare.
Artista dalle letture raffinate e multidisciplinari, votata alla riflessione, Letizia Cariello spiega con grande efficacia l’impulso alla creazione dei suoi calendari con un esempio: quando viene nominato un giorno nel futuro, lei inizia a cercarlo perché quel giorno non c’è ancora; entità inafferrabile e ansiogena, la porzione di futuro diventa addomesticabile nel momento in cui l’artista costruisce con le date un ponte nel tempo.
Ecco qui la sua spiegazione in un video dal titolo I calendari compulsivi.

A questo indirizzo il sito dell’artista e la sua  pagina Instagram

(as)

Il tempo versatile di Mika Vainio

Tre orologi su un muro bianco segnano la stessa ora, ma ogni lancetta dei minuti scorre con la propria cadenza. Dei microfoni collegati agli orologi ne amplificano il battito, restituendo nella sala un ritmo irregolare. Si tratta dell’installazione 3 x Wall Clocks dell’artista finlandese Mika Vainio, risalente al 2001: un’opera – con le parole del suo autore – che “si basa su un’idea molto versatile del tempo”, un’opera che  riflette sul concetto di sincronicità e misurazione.
3 x Wall Clokcs è esposta – insieme ad altre sound installation e alla sua musica –  in una grande retrospettiva (dal titolo 50 Hz), aperta al museo Kiasma di Helsinki fino al gennaio 2021, dedicata a Mika Vainio, scomparso nel 2017. Un artista il cui impatto sulla musica elettronica, come scrive il Kiasma, è indisputabile e che è stato anche il creatore di installazioni sonore rimarchevoli per fisicità e “calore analogico”. 

Qui un video su youtube

https://www.youtube.com/watch?v=VOpO0EMiUZ4

Un puntuale articolo su Mika Vainio, scritto in occasione della sua scomparsa, si può leggere qui

E questo è il sito della mostra Mika Vainio: 50 Hz al Museum of Contemporary Art Kiasma  di Helsinki (20 agosto 2020–10 gennaio 2021)

https://kiasma.fi/en/exhibitions/mika-vainio/

 

“2 agosto. Bologna. […] Io sopravvivo”

Il titolo di questo post riporta l’inizio e la fine di una delle 366 voci di un’opera in forma di diario, in cui l’intero Novecento è condensato in un anno di eventi: la sequenza delle date non segue l’ordine cronologico degli avvenimenti, ma si dipana su un calendario annuale, un giorno dopo l’altro.
Alla data del 2 agosto troviamo scritto: 

“2 agosto. Bologna. Attentato alla stazione ferroviaria centrale. Alle dieci e trentacinque esplode una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto di seconda classe. La miscela di tritolo e T4 distrugge parte dell’edificio e uccide ottantacinque persone, mentre più di duecento vengono ferite. Io sopravvivo”.
L’opera, monumentale e al tempo stesso impalpabile, da cui la frase è tratta,  si intitola Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) ed è dell’artista Daniela Comani,
Nata a Bologna nel 1965 e diplomata presso l’Accademia di Belle Arti della sua città, Daniela Comani si è trasferita a Berlino nel 1989, l’anno della caduta del Muro. Nella Berlino degli anni Novanta, fra riunificazione e ricostruzione, smottamenti politici ed esperimenti sociali, ha proseguito la sua formazione, dando inizio a un’attività artistica orientata verso i temi degli stereotipi di genere, delle abitudini culturali, della memoria, ed espressa attraverso fotografie, disegni, video, performance, installazioni, assemblage, produzioni editoriali.
Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) racconta – come detto sopra – l’intero secolo XX concentrando una selezione di fatti epocali in un anno virtuale di 366 giorni. L’opera ha tre versioni: si può ascoltare come una radiocronaca, in diverse lingue europee, fra cui il tedesco, lingua in cui l’opera è stata in origine concepita; si può leggere sfogliando un libro, diverso per impaginazione da lingua a lingua; si può guardare, stampata su tela e montata su un grande pannello, come un muro di date e parole, di dimensioni variabili a seconda della collocazione. Poiché le date riportano solo il giorno e il mese, l’opera è accompagnata da una cronologia che consente di ricostruire l’anno in cui ciascun evento è accaduto.


Realizzata dunque in diversi formati e lingue a partire dal 2002, presentata nel 2011 alla LIV Biennale di Venezia per il Padiglione di San Marino, esposta nel 2016 alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea (Macro, Roma), è conservata in una versione di 3 metri x 6 nelle collezioni del Mambo di Bologna.
L’immagine che apre questo post è un dettaglio del manifesto scelto nel 2012 per l’anniversario della strage impunita. 
Come Daniela Comani ha raccontato, è nel gennaio del 1999 che il progetto di Ich war’s comincia a prendere concretamente forma.
Negli anni precedenti, l’artista ha lavorato alla raccolta di ritagli di giornale, foto, appunti e testi, che le sono servite per diversi progetti, legati al tema del singolo individuo di fronte alla storia. Nel 1999, mentre anche il millennio – nella convenzione occidentale – si avvia alla conclusione, il progetto si incanala nella direzione di raccontare il ‘900 dalla parte di un soggetto immaginario, vittima, responsabile, correo, testimone di tutto quello che il secolo ha prodotto. 
Come struttura d’appoggio di questo progetto vertiginoso, l’artista individua il sistema di partizione del tempo basato sulle date (dal latino datum: dato, redatto il): il calendario, un sistema in grado di offrire una griglia alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti, dotato di una natura insieme pubblica e privata, amministrativa e identitaria. Nominando il calendario,  il pensiero corre all’artista tedesca Hanne Darboven, che fin dagli anni Sessanta aveva lavorato sulle strutture del tempo in opere calendariali  e, più avanti, aveva stilato elenchi di avvenimenti, allestendo opere al tempo stesso concettuali e dal forte impatto visivo. E in relazione alle date, un richiamo va fatto al giapponese On Kawara con la sua Today series (con On Kawara, nel 1996, Comani ha partecipato alla collettiva Lesen, presso la Kunsthalle di Sankt Gallen in Svizzera); o ancora Roman Opalka, l’artista polacco che ha contato il passare del tempo (una mostra del 2013 a Milano, Accoppiamenti giudiziosi, ha visto dialogare le immagini di Daniela Comani e le opere dell’artista polacco). 
Scelta l’ossatura, in questo caso una griglia di 366 caselle, bisognava riempirla tutta, selezionando un fatto ogni giorno, per un totale di 366 accadimenti che rappresentassero, in modo significativo, tutti gli anni del secolo. Il racconto dei fatti non avrebbe però seguito la successione degli anni, ma si sarebbe svolto giorno dopo giorno in un unico anno solare, da gennaio a dicembre. Inoltre, poiché la prima versione dell’opera era pensata per un’installazione audio, una sorta di radiocronaca del XX secolo, letta da uno speaker senza interruzioni, il secolo sarebbe risultato condensato in un’ora di ascolto.
Il grande archivio personale raccolto negli anni da Daniela Comani viene sistematizzato, in modo che nessuna data resti vuota e nessun anno scoperto. Fanno la loro comparsa i classificatori, i pratici Ordner dalla copertina nera, e vengono stilate tabelle di corrispondenze fra date e avvenimenti. Comincia una metodica frequentazione delle biblioteche di Berlino (la Nazionale, l’Amerika-Gedenk-Bibliothek), con consultazione di banche dati, visione di microfilm con annate di giornali e riviste d’epoca. Per tutto il 1999, Daniela Comani attende al suo lavoro quotidiano di ricerca e classificazione di quei fatti che hanno portato all’Olocausto, ai conflitti balcanici, all’unità europea, alla globalizzazione tecnologica. Prende dagli archivi le notizie, che deposita nel suo schedario personale e poi riversa nell’ordine del calendario. In questo passaggio, però, quelle notizie subiscono un cambiamento inusitato. Di qualunque cosa si parli: la proclamazione del fascismo, il primo volo nello spazio, l’attentato alla stazione di Bologna, la notizia, con linguaggio asciutto, sintetico, quasi protocollare, è sempre data in prima persona (nella versione italiana, Sono stata io, il soggetto si rivela femminile, collegandosi ad altri progetti dell’artista, in cui i titoli dei capolavori della letteratura o del cinema cambiano genere).
Nei mesi di lavoro, il libro che l’artista aveva sul tavolo era Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la scrittrice di Archivi del Nord, capace di trasformare le tracce delle memorie private, familiari e storiche in sottile e potente materia narrativa. E nume tutelare, sempre presente dietro le spalle, era Borges, con i suoi magistrali passaggi dal reale all’immaginario. In quello stesso anno 1999, usciva poi la ricerca di Aleida Assmann sulla memoria culturale, Erinnerungensräume, Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, che rimetteva in gioco i temi della responsabilità e della memoria collettiva.
Scorrendo ancora una volta il calendario di Ich war’s, l’irriverenza nei confronti della cronologia sconcerta e attrae, costringe a un andirivieni nella storia, a uno sforzo di identificazione, a una proficua attività del pensiero. Si cerca di ricordare, senza andare a controllare subito nella cronologia, in che anno, il 10 ottobre, “io”  occupo la segreteria dell’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf; e chi sono “io” (nella fattispecie sono Joseph Beuys e l’anno è il 1972). In questa anamnesi, si sovrappongono memorie personali, ci si ricorda dove veramente si era in alcune date cruciali della storia collettiva, il cui impatto ha fissato la nostra posizione nel tempo. Sono stata io, dice Daniela Comani. C’è sempre io, che compie nefandezze, o prende decisioni umanitarie, o soccombe alle avversità della natura, o sopravvive, come in questo passo del 2 agosto. 

Il sito dell’artista: danielacomani.net 
Ringrazio Daniela Comani per la lunga e generosa collaborazione con diconodioggi
as (@asbrilli)

About Time: una mostra raccontata da Elena Lago

Lockdown: una parola che ormai è entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano. L’isolamento, la chiusura, la distanza hanno dilatato il tempo trascorso nelle nostre case e forse lo hanno reso più penetrabile. La White Cube Gallery di Londra ha organizzato una mostra on line negli spazi del suo sito web, per raggruppare una serie di artisti che hanno da sempre lavorato sul concetto di tempo.
About time è un incantevole percorso virtuale curato da Susan May, Global Artistic Director della White Cube. A cominciare dalla grafica del titolo, in cui le lettere di ABOUT TIME sono disposte a cerchio, la mostra offre subito una visione fluida e circolare del tempo, le cui molteplici sfaccettature ci vengono narrate da tredici artisti: Darren Almond, Olafur Eliasson, Hanne Darboven, Cerith Wyn Evans, On Kawara, Mona Hatoum, Agnes Martin, Christian Marclay, Josiah McElheny, Roman Opalka, Tatsuo Miyajima, Park Seo-Bo, Haim Steinbach.
 Come frase introduttiva alla mostra, la curatrice ha scelto le parole di George Kubler (1912-1996), autore, nel 1962, del libro La forma del tempo:
 «Le forme del tempo sono la preda che vogliamo catturare. Il tempo della storia è troppo grezzo e breve per costituire una lunghezza uniformemente granulare quale i fisici immaginano per il tempo della natura: esso è piuttosto come un mare pieno di innumerevoli forme di tipi numericamente limitati».
 
Lo spazio virtuale della White Cube ci fa leggere il tempo nella sua forma più liquida e mutevole, senza confini, attingendo dagli artisti che hanno raccontato il tempo dei numeri, delle stagioni, della ciclicità, dell’infinito ripetersi di immagini, il tempo visto come susseguirsi di momenti esatti all’interno di una griglia perfetta o come caos primordiale (e qui la memoria torna alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea, tenutasi al Macro di Roma nel 2016, a cura di Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo).
Immersi nella nostra tranquillità dello spazio-tempo domestico, scrollando la pagina della White Cube dedicata ad About Time, tra una presentazione e l’altra delle opere si dipana un universo simulato ed interstiziale, una galassia stellata che ci proietta in un tempo assoluto, silenzioso, dilatato. La mostra è divisa in due sezioni, ognuna dedicata alle due principali maniere di vedere il tempo, attraverso la precisa e calibrata scansione metrica e numerica, o mediante l’esperienza, il flusso e la percezione emozionante e riflessiva o istintiva della durata.
Parole e numeri: iIl primo artista che incontriamo è Darren Almond (1971), che nella mostra del Macro era presente con Tuesday (1440 minutes), del 1996 e su cui –  in diconodioggi – si può leggere questo testo.

Qui, invece, lo ritroviamo con una delle sue tipiche targhe in bronzo su cui è apposta la frase latina Noli Timere, che oggi ci suona più come un consiglio dettato dai tempi che corrono: “Non avere paura”, una versione più ispirata del mantra ripetuto in questi mesi “andrà tutto bene”. Ma l’ambiguità del messaggio sta nel gioco di parole che Almond ha costruito, operando l’obliterazione di alcune lettere per creare il suggestivo e laconico verso No Time: uno spazio della mente in cui il tempo non esiste, non ci trascina nella sua ineluttabilità e di conseguenza non ci fa temere.
Più avanti, Almond ritorna con un’opera veramente iconica della sua produzione, Perfect Time, del 2018. Composta da sei “flip clocks” le cui palette non seguono un andamento coerente tra le due metà, l’installazione non compone orari precisi, ma alfabeti sincopati e sconnessi, piccoli trattini bianchi su sfondo nero. Attraverso questo orologio paradossale, non possiamo controllare il tempo che passa, ma solo cogliere le sue infinite variabili che spesso risultano sfuggenti e impenetrabili, a tratti “interrotte”. Ma è questo il Tempo perfetto secondo l’artista, perché costruito da attimi e flussi che si incrociano, da costanti e variabili, da punti fermi e confini labili.
Roman Opalka (1931-2011), con la sua imperturbabile e costante precisione maniacale, compare poco dopo, lasciandoci, invece, un’idea di tempo che scorre e che ci appare come una progressione continua di numeri scritti a mano a partire dal 1965 fino al momento della sua morte. Ogni piccola tela di questo intero sistema numerico prende il nome di Détail e nella mostra virtuale della White Cube è stato esposto il DÉTAIL 2345774 – 2347926, del primo anno, il 1965. È un inchiostro su carta, non acrilico su tela: questo ci suggerisce che Opalka ha composto questo frammento durante un viaggio, quando ha la consuetudine di continuare il suo ossessivo lavoro non sulle tele, ma sulle più pratiche e maneggevoli Cartes de voyages. Quella di Roman Opalka è una narrazione lineare del tempo, che corrisponde a quell’idea di ripetizione e di riproposizione che contraddistingue anche il messaggio artistico di On Kawara (1933-2014), che incontriamo poco dopo e di cui viene presentata una tela dalle Today Series con la data MAY 26, 1994. Questo progetto quotidiano inizia nel 1966 e si interrompe solo con la morte dell’artista: quello contenuto nella serie dei giorni è un tempo personale e quotidiano, lento nella realizzazione di ogni singola tela, ma anche stringato e ripetitivo proprio per il carattere stesso del progetto: una testimonianza evidente, rigorosa e schematica del tempo che passa. Spesso l’artista ha l’abitudine di aggiungere una scatola con alcuni oggetti legati a quella specifica data scritta sulla tela nera. In questo caso, compare il titolo del “New York Times” che recita «Space Telescope Confirms Theory of Black Holes».
Luci e numeri, display di orologi digitali e piccoli codici fanno parte della poetica dell’artista giapponese Tatsuo Miyajima (1957) che, attraverso i suoi led che variano in continuazione le loro cifre dall’uno al nove, esprime il carattere circolare e fluido del tempo, che sempre cambia. Ciò
stabilisce una costante connessione, derivata dalla sua fede buddhista, tra la nascita, la vita e la rinascita, mentre lo zero, che rappresenta la fine e la morte, non compare mai tra i suoi numeri. Chiudono la serie dedicata alla misurazione e ai numeri Hanne Darboven (1941-2009), con una delle sue griglie di date, calcoli e poetici segni personali, la Dostojewki, Monat, Januar 1990 e Agnes Martin (1912-2004). Dell’artista canadese, la White Cube ci propone tre opere minimaliste, tra cui un Untitled del 1959, in cui ogni elemento viene portato ai minimi termini: un cerchio nero su sfondo bianco di lino, diviso in piccoli spicchi imprecisi, ricorda semplicemente la forma e l’aspetto di un orologio; un modo per appresentare «non ciò che si vede, ma ciò che si conosce per sempre nella mente».
Esperienza, flusso e durata: la seconda sezione della mostra si concentra sugli aspetti più fluidi ed esperienziali del tempo. La sua contingenza, il vissuto quotidiano, il concetto di durata e di flusso che sono stati decodificati dalla filosofia bergsoniana della durée. Il tempo soggettivo dell’esperienza procede come un getto ininterrotto ed indivisibile, intuibile attraverso la coscienza, capace, in questo modo, di ricongiungersi alla sua unità interna.
Christian Marclay (1955), autore del capolavoro The Clock, del 2010, è il primo artista che incontriamo. Con una serie di tre video ci trasmette la sua idea di durata: Look, Cotton buds e Lids and Straws (One minute), tutti realizzati tra il 2016 e il 2019, inquadrano minuscole porzioni delle strade londinesi, fotografate in diversi momenti della giornata e montate per creare un video loop, hanno la stessa funzione della serie delle Cattedrali di Monet. Le piccole variazioni di luce e di atmosfera prodotte sulla strada, così come i minimi dettagli della pavimentazione, forniscono un pattern irregolare e casuale al passare del tempo.
Questa incessante atmosfera di divenire e di cambiamento che viene fornita dal video in loop si riscontra ancora nel lavoro fotografico di Olafur Eliasson (1967) del 2006, The morning small cloud.

Attraverso una sequenza di nove fotografie, prese da una serie più ampia, ci mostra il passare del tempo attraverso l’apparizione mattutina di una piccola nuvola attorno ad una altura dell’Islanda. Ancora una volta, l’artista è capace di consegnarci una specifica idea di tempo atmosferico attraverso un legame indissolubile con il discorso cronologico, che si nota dalla lenta trasformazione ambientale delle foto.

Di questa seconda sezione colpiscono in particolare le opere dell’artista di Boston Josiah McElheny (1966). Le sue installazioni sono quasi sempre incentrate sulla lavorazione del vetro attraverso cui costruisce porzioni fragilissime di piccoli universi. Nel 2005, in collaborazione con il cosmologo David Weinberg, ha ideato il film Island Universe in cui inserisce l’idea dell’eterna inflazione dell’Universo. Questa costruzione fluida, frattale ed in continuo divenire del cosmo, data dalla creazione perpetua di nuova materia, ha portato al concetto di “multiverso”.

 

McElheny, da questo modello, ha tratto alcune sculture in alluminio, vetro e luce elettrica che, oltre ad essere meravigliosi oggetti di design, suggeriscono l’idea di un’energia temporale che si irradia mutevolmente. Frozen Structure, il pezzo di universo inserito nel percorso virtuale, incarna un mondo che ha avuto inizio con un’energia oscura che ha congelato la crescita e il raggruppamento delle galassie in strutture ghiacciate e cristallizzate in una sospensione atemporale.
Verso la fine del percorso espositivo della pagina della White Cube, compaiono le opere al neon dell’artista gallese Cerith Wyn Evans (1958). Prima il neon drawing ispirato al simbolo dell’infinito che si dipana nello spazio attraverso il semplice e lineare disegno del neon appeso al soffitto, poi il testo specchiato dell’installazione del Leadenhall Market di Londra: “Time here becomes space/Space here becomes time” un gioco semantico e visivo: il testo specchiato, costruito con il neon, delimita uno spazio sospeso e incantato del mercato londinese, creando una sorta di doppia entrata in cui, attraverso questa sorta di formula magica, da una parte il tempo si trasforma in spazio e dall’altra lo spazio diventa tempo.
Chiudono poeticamente la mostra virtuale le parole Going going gone formulate da Haim Steinbach (1944), in un’installazione del 1999. Lo stesso verbo coniugato in due tempi diversi, trasferiti sul muro nero su bianco, in verticale, quasi a testimoniare la fuggevolezza del tempo e l’assurda vanitas del presente: un attimo prima siamo immersi nella temporalità vibrante e attiva del gerundio, nel pieno dell’andare, e un attimo dopo ci ritroviamo nella dimensione chiusa e passata del participio, dell’andato. In altre parole, un moderno memento mori, che vede al posto del teschio e della clessidra un semplice e conciso sciorinamento di tre tempi verbali.
Elena Lago, giugno 2020

About Time, fino al 16 luglio 2020 > qui un video tour della mostra