11 Ottobre | the 11th of October

11 ottobre 2024

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for some seconds the light went on becoming brighter and brighter, and she saw everything more and more clearly and the clock ticked louder and louder until there was a terrific explosion right in her ear. Orlando leapt as if she had been violently struck on the head. Ten times she was struck. In fact it was ten o’clock in the morning. It was the eleventh of October. It was 1928. It was the present moment.
No one need wonder that Orlando started, pressed her hand to her heart, and turned pale. For what more terrifying revelation can there be than that it is the present moment? That we survive the shock at all is only possible because the past shelters us on one side and the future on another

Virginia Woolf, Orlando, 1928

Per qualche secondo la luce crebbe d’intensità, ella vide le cose sempre più chiare e nette, l’orologio ticchettò più forte, finché una tremenda esplosione giunse proprio all’orecchio di Orlando. Ella balzò, come se avesse ricevuto un violento colpo al capo. Per dieci volte fu colpita. Erano le dieci del mattino. Era l’11 ottobre. Era l’anno 1928. Era l’epoca presente. Nessuno si meraviglierà che Orlando trasalisse, che si premesse la mano sul cuore, che impallidisse. Quale rivelazione avrebbe potuto essere più terrificante di quella della nostra epoca? Se noi sopravviviamo all’urto, è solo perché il passato ci fa argine da una parte e il futuro dall’altra

Virginia Woolf, Orlando, 1928, tr. it G. Scalero, Mondadori, Milano, 1993, pp. 290-291

L’orologio, con la sua misurazione del tempo convenzionale, sembra essere in questo romanzo l’antagonista di Orlando, la cui esperienza interiore e biografica esula dal tempo reale. L’11 ottobre del 1928 è il giorno in cui fu pubblicato per la prima volta in Inghilterra questo romanzo della Woolf, che si conclude  proprio al “dodicesimo colpo di mezzanotte, giovedì undici ottobre millenovecentoventotto”. La coincidenza rivela una particolare attenzione della scrittrice per il tema del tempo, cui dedicò innovative riflessioni in tutta la sua opera. In questo romanzo la Woolf sfida e scardina la nozione convenzionale del tempo ed anche la nozione di genere e le convenzioni letterarie di romanzo e biografia, in un dialogo diretto e sottilmente ironico con il lettore. La storia ha inizio verso la fine del XVI secolo e Orlando, che quando incontriamo nelle prime pagine è un giovane di sedici anni, alla fine del romanzo è una donna di trentasei anni, con alle spalle una serie di avventure che l’hanno portato/a nell’arco di quasi quattro secoli dalla corte della regina Elisabetta all’ambasciata a Costantinopoli, in un campo nomadi in Turchia e infine di nuovo a Londra, proprio nell’anno in cui le donne inglesi – la cui causa stava così a cuore alla scrittrice – per la prima volta possono votare. In un quadro così ricco e talvolta surreale non sfugge al lettore la valenza simbolica della aristocratica dimora di Orlando, una casa tanto grande da imprigionare il vento, che vi soffia in tutte le stagioni, e con ben 365 stanze da letto e 52 scaloni, tanti quanti i giorni e le settimane di un anno. (Commento di Sandra Muzzolini)

Dicono del libro

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21 Agosto

21 agosto 2024

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Presa in consegna dal “braccio secolare”, Antonia fu trasferita, il 21 agosto, nella Torre dei Paratici che era l’antica torre del Broletto, cioè del palazzo del Comune di Novara prima che questo si riducesse ad essere com’è ora: soffocato dagli edifici che gli sono cresciuti addosso nel corso dei secoli, e senza torre. All’epoca della nostra storia, invece, il Broletto era un palazzo indipendente, attorno a cui correvano le strade; e la Torre dei Paratici, che s’alzava a sud, nella sua parte superiore era una prigione… aerea, di due stanze sovrapposte e raggiungibili per mezzo di una scala esterna, piuttosto ardimentosa. Speciali immagini devote, in quelle due stanze, avevano il compito di redimere i detenuti. Al piano superiore, destinato alle donne, era dipinto un Cristo morto in braccio alla Madonna, mentre al piano di sotto, dov’erano tenuti prigionieri gli uomini, c’era il patrono dei carcerati, San Leonardo: entrambi gli affreschi, però, erano ricoperti di nomi, date, graffiti osceni, ed entrambi si vedevano poco, perché non c’erano finestre in quelle due stanze, soltanto feritoie che d’inverno venivano chiuse con la paglia, e allora buonanotte! Si restava al buio. D’estate poi le feritoie si riaprivano, e ci si tornava a vedere: ma chi entrava ai Paratici, qualunque fosse la stagione in cui ci arrivava, doveva attendere un po’ di tempo prima che i suoi occhi s’adattassero alla penombra; e così anche successe a Antonia

Sebastiano Vassalli, La chimera, 1990, Einaudi 1990, p.282

In un agosto senza pioggia, col sole che “riaffiorava all’alba da un mare di vapore” , trascorrono gli ultimi giorni di vita di Antonia, una ragazza di vent’anni vissuta al principio del Seicento in un piccolo centro agricolo della “bassa”, di cui non resta traccia. Trovatella lasciata alla Casa di Carità di San Michele fuori le Mura a Novara, adottata da una coppia di contadini del paese di Zardino, Antonia si è rivelata troppo bella e intelligente per non suscitare invidie, maldicenze e infine l’accusa di stregoneria, in quell’estate di siccità e paura. Processata, torturata e dichiarata colpevole, il 21 agosto è condotta in prigione dove, in attesa dell’esecuzione, perde il conto dei giorni e delle notti e si rifugia nei sogni, dove nessuno la chiama strega e dove il tempo non si è ancora richiuso.

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23 Luglio

23 luglio 2024

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La mattina del 23 luglio 1989, una domenica, mi trovavo all’Hotel Terminus di Lione nei pressi della stazione ferroviaria Perrache, in una camera che si affacciava direttamente sui binari. Oltre la ferrovia, in una breccia tra i fili dei treni e i caseggiati, il verde degli alberi, limpidissimo, lasciava intuire che non molto lontano scorreva un fiume, la Saona, poco prima della sua confluenza nel Rodano; sopra le rotaie le rondini volavano davanti alla luna calante, bianca, che sembrava perforata dal blu del cielo e che pian piano andava ritirandosi, sforacchiata come una nuvola

Peter Handke, Epopea del baleno, 1990, tr. it. L. Salerno, Guanda, 1993, p. 41

Come un medium che ha la capacità di mettere in contatto il passato con il presente, il narratore registra un’impressione avuta durante un soggiorno all’Hotel Terminus, nella città di Lione, la mattina del 23 luglio 1989. In stazione passano dei ferrovieri, arriva un treno merci; in cielo volano rondini; è una mattina calma e luminosa di piena estate. Eppure qualcosa lo inquieta, come se da quel luogo arrivasse un segnale. In un istante in cui la scena sembra ferma, si rende conto che l’albergo dove si trova è stato la sede del comando nazista durante la guerra. C’è stato un altro giorno come quello odierno – pensa l’osservatore del 23 luglio – in cui però la stazione, il cielo, le rondini sono state la scena di una tragedia, che si riesce ancora a captare attraverso gli strati del tempo.

 

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6 Febbraio

6 febbraio 2024

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La battaglia disuguale, e ormai disperata, durò ancora qualche poco; poi le imposte della porta del forte si chiusero;… il rumore andò cessando e dieci minuti dopo vi regnava un silenzio di morte.
Da quel punto non si seppe piú nulla di quegli sventurati. Ciò che seguí nella scellerata corte è ancora un mistero di sangue; ma se la storia non fosse pronta ad attestarlo, nessuno crederebbe che venti o trenta giovani quasi inermi abbiano tentato quel colpo.
Cosí morirono quattro dei sette: Emilio, Niso, Gustavo e Teodoro. La compagnia brusca si sciolse, giacché gli altri tre, quantunque non avessero preso parte al moto, dovettero mettersi in salvo esulando.
In tal modo quelli stessi che prima del pericolo avevano avversato a tutto potere l’insano progetto; quelli stessi che a mente fredda avevano rigettato energicamente ogni complicità in una rivolta a pugnali, senza probabilità di riuscita: …al primo grido di libertà, al primo squillo d’allarme erano discesi nella strada, e s’erano gettati nella mischia colla disperazione del suicida.
Diverse cause avevano prodotto in ciascuno di quei quattro sventurati lo stesso effetto. Insofferenza del giogo — smania di lotta e di sangue austriaco — miseria — speranze perdute — disperazione della vita.
Nel momento supremo, ciascuno, credendo forse di essere solo, s’era determinato a far ciò da cui poco prima aveva cercato di dissuadere gli altri; tutti e quattro, senza volerlo, senza saperlo, si erano ingannati a vicenda.
Erano vissuti da scapigliati; erano morti da eroi.

Cletto Arrighi (Carlo Righetti), La Scapigliatura e il 6 Febbrajo: un dramma di famiglia,  1862

 

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6 Febbraio

6 febbraio 2023

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Tra il momento in cui ho smesso di scrivere, nel maggio scorso, e ora, 6 febbraio ’91, il previsto conflitto tra l’Irak e la coalizione occidentale è scoppiato. Una guerra “pulita” secondo la propaganda, benché siano già cadute sull’Irak “più bombe che sulla Germania durante tutta la durata della seconda guerra mondiale” (Le Monde di stasera) e testimoni dicano di aver veduto a Bagdad dei bambini, resi sordi dalle deflagrazioni, camminare per le vie come ubriachi. Non si fa altro che aspettare avvenimenti annunciati che non arrivano, l’offensiva terrestre degli “alleati”, un attacco chimico da parte di Saddam Hussein, un attentato alle Galeries Lafayette. E’ la stessa angoscia del tempo della passione, lo stesso desiderio – e impossibilità – di sapere la verità. L’affinità si ferma qui. Non v’è sogno né immaginazione

Annie Ernaux, Passione semplice,  1991, tr. it. I. Landolfi, Rizzoli 1992, p.68

La storia di una passione fra uno straniero sposato e una donna, che scrive queste annotazioni, si rivela una riflessione sul tempo e sulla sua percezione. Poiché la relazione è fatta di attese, di incontri a termine e di lontananze, la donna si interroga continuamente sulla natura del presente, sulla fuga degli istanti. Alcune date emergono nella narrazione, date private e date pubbliche come questo 6 febbraio del 1991. E ogni data è motivo per riandare a date analoghe nel tempo trascorso, con il desiderio di ritornare indietro, di “forzare il presente a ridiventare passato”.
[…] mi domandavo perché non è possibile passare in quel giorno, in quel momento, allo stesso modo in cui si passa da una stanza all’altra”. 

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Pablo Rubio, “un presente continuo”

Solo a leggere i titoli delle opere e dei progetti di Pablo Rubio (Córdoba, 1974), il tempo e la memoria emergono come i punti cardinali della sua ricerca: Llanuras para cinco vértices, Diarios de navegación, La mañana de un blanco lunes e così via. Ai titoli corrisponde spesso un racconto, sprigionato da un’esperienza, da un palinsesto di letture e di incontri, da una riflessione sulla perdita e sulla trasformazione continua di persone e di ambienti. 
Chi ha avuto l’occasione di conoscere l’artista spagnolo al lavoro, ha avuto un’idea del suo metodo: un contenuto, a volte doloroso, trova la sua forma percepibile attraverso la scelta di carte, tracce scritte, fotografie, oggetti, materie allestite con sapienza (e bellezza) nello spazio che le ospita, anche per breve tempo. 
La pietas di Pablo Rubio nei confronti delle memorie diventa tangibile e provoca in chi guarda, o percorre le sue opere, una gamma di reazioni, che vanno dal piano della sensibilità a quello dell’intuizione scientifica, là dove si sente che l’artista sta cercando di rappresentare l’impossibile,  il tempo. 
Il progetto più recente di Rubio si intitola Autobiografía para un presente continuo ed è visibile fino a dicembre 2021 a Córdoba, presso il Vestibulo dell’Hospital Universitario Reina Sofía.
Il progetto si lega allo stato di paura, solitudine e dolore che la pandemia ha instillato, e – coerentemente con la ricerca dell’artista – vuole dare vita a “un tempo che è passato troppo in fretta”, che “si disintegra all’istante”, con il rischio che tutto diventi “un ricordo remoto”.
Come si legge con chiarezza nella presentazione, si tratta di un progetto espositivo “per ringraziare i professionisti dell’Ospedale Universitario Reina Sofía per la loro dedizione e il loro impegno durante la pandemia di COVID-19, sia per la loro grande capacità di adattarsi a una situazione sconosciuta sia per la loro dedizione e il loro sforzo, che li ha resi un esempio di progresso e umanizzazione”.
In bilico fra solitudine e fragilità individuale e forza collettiva, l’Autobiografía para un presente continuo prende come fulcro un luogo, l’ospedale, inteso “come un gigantesco nido dove risiedono resistenze, sforzi e vittorie, e naturalmente la gratitudine nel senso più ampio della parola”.

Qui il sito di Pablo Rubio 

(a.s.)

 

Here: le finestre sul tempo di Richard McGuire

Here: le finestre sul Tempo di Richard McGuire
di Elisa Sorrentino

Il dorso del libro è grigio, con una piccolo ramo di foglie disegnato sopra e con sotto scritto: QUI. Il titolo, semplice e incisivo, mi spinge ad andare oltre. Lo apro e appare l’immagine di una stanza qualsiasi con finestra, camino e pochi mobili accuratamente disposti, volto pagina e compare la stessa stanza, ma immersa in un paesaggio di tanto tempo fa, continuo a sfogliarlo e mi accorgo che l’ambientazione è sempre la stessa ma lo spazio prende vita, di volta in volta, grazie a persone diverse a seconda del tempo in cui lo vivono.
Richard McGuire, l’autore del libro, non solo è un artista – disegnatore di svariate copertine per il New Yorker e illustratore di libri per ragazzi – ma ha anche suonato nel gruppo postpunk dei Liquid liquid come bassista e ha diretto un film di animazione Peur(s) du noir, collaborando con illustratori del calibro di Lorenzo Mattotti, Charles Burns e Blutch. Nel 1989, per il primo numero della seconda serie di “Raw” la celebre rivista storica statunitense dedicata al fumetto curata da Art Spiegelman e Françoise Mouly –  McGuire realizza una breve storia di 36 vignette in bianco e nero intitolata Here.

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La storia propone il tema della rottura della linearità del tempo: la narrazione è incentrata sulla fissità dello spazio, mentre lo sconfinamento temporale è dato dalla sovrapposizione di più finestre. Ed è sulla base di questa storia che, ben venticinque anni dopo, McGuire decide di riprendere la stessa impostazione per crearne una nuova, con le stesse intenzioni ma ampliata nel contenuto e nella mole: un libro di trecento pagine a colori pubblicate nel 2014 da Pantheon Books e in Italia nel 2015 da Rizzoli Lizard.
La stanza che ci si presenta davanti ci riporta alla mente la solitudine severa dei dipinti di Edward Hopper. Salta all’occhio la qualità della fattura delle immagini che mescolano senza timore la tecnica dell’acquerello con quella digitale adoperando programmi come Adobe Photoshop e la grafica vettoriale. L’insistenza sullo spazio fisso e i toni tenui fanno venire in mente le palette scelte da Wes Anderson nei suoi film e, benché la scelta dell’inquadratura non sia simmetrica, far coincidere perfettamente l’asse prospettico della stanza con la piega esatta del libro è un dettaglio che colpisce.
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Il racconto ci trasporta nel salotto di infanzia di Richard McGuire, nato nel 1957 a Perth Amboy nel New Jersey: lo spazio diventa lo spunto per intrecciare le fila del tempo procedendo, avanti e indietro, senza un ordine narrativo-logico  e seguendo in modo “allucinogeno” la schizofrenia del tempo.

McGuire intesse un puzzle visivo in cui l’immagine di una donna in cerca di qualcosa trasporta nell’epoca glaciale dei mammut; un picnic all’aria aperta riconduce a due ragazzi che giocano a twist nel 2015; per poi passare all’immagine della Terra come doveva apparire nel 3.000.000.000 a.c, all’incontro di Benjamin Franklin con il figlio nel 1775, fino all’escursione guidata nel 2213 in cui tutto è cambiato, dal clima agli strumenti tecnologici, per poi ritornare di nuovo al 1957, anno di riferimento all’inizio del testo, quasi a ripiegare il tempo su se stesso e ricondurlo alla sua eterna circolarità.
L’autore utilizza il filo discontinuo del tempo per unire spunti visivi diversi e intreccia storie, immagini e ricordi, come ben visibile dal materiale d’archivio, e dalle fasi di elaborazione del libro.

Colpisce nel testo il modo indifferente e quasi crudele di concepire l’umanità nel suo normale e costante ricambio generazionale, trattandola alla stregua di tutte le altre forme viventi, destinate a nascere, crescere, produrre, consumare e morire. Solo l’interagire delle finestre temporali – dove gesti, frasi e situazioni del passato sembrano trovare una corrispondenza nel futuro e viceversa –  riesce ironicamente a infliggere un momentaneo scacco alla morte.

L’impostazione del testo non è molto distante dalle finestre sovrapposte che utilizziamo sul pc e attraverso cui navighiamo in rete, raggiungendo contestualmente posti distanti da un punto che rimane fisso.

Se ciò che ci consente la tecnologia è di varcare le distanze geografiche alla velocità di un click, Here permette di rimanere nel “qui” della nostra stanza viaggiando in un trip temporale che svela la difficoltà dell’oggi di rimanere concentrati sul tempo presente, continuamente distratti da mille stimoli: le notifiche dei messaggi, il rumore del traffico, la musica dei grandi magazzini, i discorsi sovrapposti delle persone in metro, tutti stimoli che allontanano al suono del silenzio.

Tuttavia il modo migliore per apprezzare Here è scaricare la versione e-book (al momento disponibile solo per i-Pad), realizzata in collaborazione con lo sviluppatore web Stephen Betts. Questa versione sfrutta al massimo le potenzialità multi-screen del testo originale, combinandola e sviluppandola ulteriormente con l’utilizzo degli strumenti digitali  al fine di renderla completamente interattiva e concedendo, inoltre, la possibilità di cambiare la sequenza delle diverse finestre temporali mescolandone l’ordine cronologico, in perfetta sintonia con lo spirito del libro:
Una presentazione è consultabile a questo indirizzo.
Infine Here ha ispirato un cortometraggio sperimentale in cui anche qui, come nel testo, le finestre temporali si attraversano senza un ordine predefinito e talvolta  interagiscono tra di loro.
In Here, il tempo del futuro si immerge nel passato e si rimescola al presente assumendo nuove forme e nuove interpretazioni, come in un gioco dei tarocchi infinito. Il perimetro definito di una stanza diventa il palcoscenico dell’indeterminatezza del tempo, che cambia marce ma ritorna sempre al punto di partenza. Ma dove va a finire il tempo?
Elisa Sorrentino

La storia in 36 vignette da cui ha preso spunto il testo; 
le fasi di elaborazione del libro;
Here come appare oggi.

 

Wittgenstein dice di oggi

Wittgenstein dice di oggi

di Simone Zacchini

In una delle sue prime lezioni dopo il ritorno a Cambridge (1930-32), Ludwig Wittgenstein afferma che “il tempo come sostantivo è una terribile fonte di confusioni“. Sono questi gli anni in cui, tornato all’attività filosofica, Wittgenstein inizia a delineare il percorso che lo porterà alle Ricerche filosofiche, in cui rimette in discussione le sue stesse teorie, che aveva espresso nel Tractatus logico-philosophicus.

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Già in quest’opera troviamo un’analisi del concetto di tempo. Wittgenstein istituisce, nella proposizione 6.4312 del Tractatus, un nesso tra quello che egli chiama l’“enigma della vita” e il riconoscimento che la vita umana si svolge “nello spazio e nel tempo”:

«L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguito. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale)».

Il problema della sopravvivenza eterna della nostra anima, della nostra infinita durata nel tempo, è uno di quei problemi che, da sempre, i filosofi hanno considerato più importanti, più universali, di altri.

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