I Ottobre | I Oktober

1 ottobre 2024

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Der Oktober brach an, wie neue Monate anzubrechen pflegen, – es ist an und für sich ein vollkommen bescheidenes und geräuschloses Anbrechen, ohne Zeichen und Feuermale, ein stilles Sicheinschleisen also eigentlich, das der Aufmerksamkeit, wenn sie nicht strenge Ordnung hält, leicht entgeht. Die Zeit hat in Wirklichkeit keine Einschnitte, es gibt kein Gewitter oder Drommetengetön beim Beginn eines neuen Monats oder Jahres, und selbst bei dem eines neuen Säkulums sind es nur wir Menschen, die schiessen und läuten. In Hans Castorps Fall glich der erste Oktobertag auf ein Haar dem letzen Septembertage; er war ebenso kalt und unfreundlich wie dieser, und die nächstfolgenden waren es auch. 

Thomas Mann, Der Zauberberg, 1924

L’ottobre venne come sogliono venire i nuovi mesi; il suo è un arrivo modesto e silenzioso sotto tutti i rapporti, senza segni esteriori, un muto insinuarsi dunque, che sfugge facilmente all’attenzione se questa non mantiene un ordine severo. Il tempo in realtà non ha suddivisioni, non ci sono tempeste, non v’è rumoreggiare di tuoni all’inizio del nuovo mese o del nuovo anno, ed anche a quello del nuovo secolo; siamo soltanto noi uomini che spariamo e tuoniamo. Nel caso di Giovanni Castorp, il primo giorno di ottobre fu identico agli ultimi giorni di settembre, fu altrettanto immusonito e freddo come quelli e come gli altri che lo seguirono

Thomas Mann, La montagna incantata, 1924, tr. it. G. Giachetti-Sorteni, Dall’Oglio 1930 (1976), vol. I, p.249

Sulla montagna incantata (o magica, secondo una recente traduzione), il tempo è chiamato continuamente in causa. Sia il tempo meteorologico, poiché su quella montagna delle Alpi svizzere si trova il sanatorio per le malattie dei polmoni, i cui ospiti sono i protagonisti del romanzo, sia – soprattutto – il tempo del calendario. Il soggiorno del giovane ingegnere Giovanni Castorp – in visita a un cugino – doveva durare meno di un mese, e invece – scopertosi malato – si prolunga per anni, trasformando abitudini e aspettative. Mentre le stagioni cambiano, i giorni avanzano come le lancette di un enorme orologio, e il tempo è sentito come una beffa, un mistero, un trucco senza spiegazione.

Dicono del libro

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Dodici in agosto

“A giudicare dai primi 12 giorni di agosto si vede come saranno i 12 mesi dell’anno; per Vìtacia Milut scorrevano i 12 mesi in base ai quali si poteva indovinare come sarebbe stata la sua vita”.
È una delle tante osservazioni sui legami fra il tempo, i calendari, la vita degli individui e delle famiglie, che si leggono nel libro Paesaggio dipinto con il tè del grande scrittore serbo Milorad Pavić (1929-2009), autore, fra l’altro, del romanzo-lessico Dizionario dei Chazari (1984). 
Scritto nel 1988, tradotto in italiano da Branka Ničija per Garzanti nel 1991, Paesaggio dipinto con il tè  racchiude dimensioni linguistiche e dispositivi narrativi avvincenti e impegnativi per chi legge, a partire dal richiamo alle parole crociate: “Questo romanzo veramente può essere letto allo stesso modo in cui si risolve un cruciverba. Un po’ orizzontalmente, un po’ verticalmente” (p. 185). Due schemi di cruciverba in effetti sono stampati all’inizio del “libro secondo”, mentre a metà del volume l’autore offre degli indizi per la lettura incrociata e alla fine si trova una specie di “soluzione”, leggibile rovesciando il volume sottosopra. 
Le azioni di rovesciare, di andare avanti e tornare indietro per incrociare i paragrafi alludono a un modo di leggere contro la corrente del tempo che trascina capitolo dopo capitolo, giorno dopo giorno, dall’inizio alla fine del racconto e di chi lo legge. 
Il libro, come consigliò Alan Connor (Crossword book club: Landscape painted with Tea, “The Guardian”, 2022), andrebbe letto con qualche nozione della cultura enigmistica serba e con lentezza, perché i temi centrali e diagonali (la ricerca del padre da parte del protagonista, le metamorfosi del personaggi, i cambi di nome, i tratti fantastici ed esoterici) trovino il proprio posto nel puzzle.
Per diconodioggi, il libro si può attraversare facendo tesoro delle riflessioni sul tempo.
Eccone due fra le più consistenti:
La prima (p. 136) offre una simbiosi fra stagioni e lingue: 
“Ormai erano cento anni che nella sua famiglia in autunno si parlava il tedesco, d’inverno il polacco o il russo, in primavera il greco, e soltanto d’estate il serbo, come si conviene a una famiglia di commercianti di grano. Tutte le stagioni dell’anno passate e future si fondevano così nella sua coscienza in un’eterna stagione, somigliante a se stessa come la fame alla fame” .
La seconda (p. 248) sulla “lingua del tempo”:
“Partiamo dalla domanda che cos’è il tempo. Il tempo è una specie di linguaggio che si impara insieme alla lingua madre, quindi impercettibilmente. Tuttavia, sembra che impariamo la lingua madre a spese di quest’altra lingua o almeno che utilizziamo la lingua madre più spesso, mentre quell’altra lingua, la lingua del tempo, viene dimenticata”.

(a.s.)