12 Aprile

12 aprile 2024

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Data memorabile per me il 12 aprile del 1891.
Avevo compiuto da circa un mese trentaquattro anni. Da un pezzo mi notavo nel volto, e precisamente alla coda degli occhi e su la fronte, certi lievi solchi che mi pareva non si potessero ancora chiamar propriamente rughe. Credevo almeno che il numero degli anni miei potesse tuttavia permettermi di non chiamarli tali. Momentanei increspamenti de la pelle, che – sotto l’azione del pensiero, del riso, dell’abituale atteggiarsi della fisionomia – erano divenuti stabili. Ma rughe, no

Luigi Pirandello, Prudenza, 1901, in Novelle per un anno. Appendice, Giunti, 1994, tomo III, p. 2601

La “mattina di quel memorabile 12 aprile” (una data che torna anche in altre novelle di Pirandello) segna per il protagonista il passaggio da una fase all’altra della sua esistenza. Da una parte la giovinezza, la poesia, i capelli lunghi, dall’altra la maturità, un impiego, forse un matrimonio. Il passaggio è sancito dal doloroso taglio della barba e dei capelli, dopo il quale non solo la sua amante ma neanche egli stesso si riconosce (“Hai ragione: non son più io! Ti saluto per sempre, cara!”)

 

Dicono del libro

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8 Aprile

8 aprile 2024

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Poi, un giorno che sembrava qualunque, prese distrattamente dal tavolo una carta assorbente usata e ci vergò sopra, con l’inchiostro nero, due cose: lo schizzo di una facciata e un nome: Crystal Palace. Posò la penna. E sentì quel che sente una ragnatela quando incontra la stupìta traiettoria di una mosca attesa per ore.
Lavorò al progetto, giorno e notte, per tutto il tempo che gli restava. Non aveva mai immaginato qualcosa di più grande e di sconcertante. La fatica gli rosicchiava la mente, una sotterranea e febbrile emozione scavava cunicoli nei suoi disegni e nei suoi calcoli. Intorno, la vita qualunque macinava i suoi rumori. Lui li percepiva appena. Solo, giaceva in una bolla di acre silenzio, in compagnia della sua fantasia e della sua stanchezza. 
Consegnò il suo progetto l’ultimo giorno utile, il mattino dell’8 aprile

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, 1991, Bompiani 1991, pp.131-32

Reso pubblico il 13 marzo 1849, il concorso per la costruzione del palazzo dell’Esposizione Universale di Londra si chiude l’8 aprile. L’architetto Hector Horeau, reduce da una tragedia familiare (la moglie Monique si è suicidata), incerto nella salute e con una visionaria fissazione per il vetro, partecipa al concorso, consegnando il suo progetto l’ultimo giorno utile, alla data spartiacque dell’8 aprile. Le vicende di quello che sarà il Crystal Palace si intrecceranno da allora con quelle degli altri personaggi di questo libro, fra dati veri e plausibili, luoghi inventati e tempi non lineari.

 

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4 Aprile | April 4th

4 aprile 2024

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The thing that he was about to do was to open a diary. This was not illegal (nothing was illegal, since there were no longer any laws), but if detected it was reasonably certain that it would be punished by death, or at least a forced-labor camp. Winston fitted a nib into the pen holder and sucked it to get the grease off. The pen was an archaic instrument, seldom used even for signatures, and he had procured one, furtively and with some difficulty, simply because of a feeling that the beautiful creamy paper deserved to be written on with a real nib instead of being scratched with an ink pencil. Actually he was not used to writing by hand. Apart from very short notes, it was usual to dictate everything into the speakwrite, which was of course impossible for his present purpose. He dipped the pen into the ink and then faltered for just a second. A tremor had gone through his bowels. To mark the paper was the decisive act. In small clumsy letters he wrote:  April 4th, 1984

 

George Orwell, 1984, 1949

La cosa che si disponeva a fare consisteva nell’incominciare un diario. Ciò non era illegale (nulla era illegale, poiché non c’erano più leggi); ma se comunque fosse stato scoperto, non c’era dubbio che sarebbe stato condannato a morte, o a venticinque anni almeno di lavori forzati. Winston infilò un pennino nella cannuccia e lo succhiò, come s’usa, per facilitare la presa dell’inchiostro. La penna era uno strumento antiquato, che si adoperava assai di rado, perfino per le firme importanti, e lui se n’era procurata una di nascosto e non senza difficoltà, solo perché sentiva che quei bei fogli color crema meritavano che ci si scrivesse sopra con un vero pennino, anziché d’essere grattati con una delle tante matite a inchiostro. Veramente non aveva l’abitudine di scrivere a mano. Con l’eccezione di qualche breve appunto, di solito dettava ogni cosa al dittografo, un apparecchio che registrava e trascriveva tutto ciò che si diceva in un microfono, e che era assurdo pensar di adoperare nella presente circostanza. Intinse la penna nel calamaio e quindi esitò un istante. Ebbe un tremito fin nelle budella. Segnare la carta sarebbe stato l’atto decisivo. Con certe piccole goffe cifre, scrisse: “4 aprile 1984”

George Orwell, 1984, 1949, tr. it. G. Baldini, Mondadori 1989, pp.10-11

 È una fresca e limpida giornata di aprile quando Winston Smith comincia a scrivere il suo diario, su un quaderno ingiallito comprato da un robivecchi. È il 4 aprile 1984, anche se dell’anno non è sicuro, perché, nel mondo dominato dal Grande Fratello, non “era possibile buttar giù una qualsiasi data se non con l’approssimazione d’un anno o due”. Ha deciso di scrivere il diario grazie al fatto che il suo appartamento ha una rientranza nel muro, dalla quale è possibile rimanere fuori dal campo visivo del teleschermo che controlla l’interno della casa. Addetto alla correzione delle notizie  a stampa per renderle conformi al regime, Winston non si adatta del tutto alle regole del Grande Fratello e il diario è la prima forma di autonomia che egli manifesta.  

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“1984. Londra. Il mondo è diviso in due iperstati simili e in guerra fra loro. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Tranne pensare, se non secondo il Socing. Tranne amare, se non per riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi TV di propaganda. Dal loro rifugio, in uno scenario desolante da medioevo postnucleare, l’ultimo uomo in Europa (questo il titolo che avrebbe preferito l’autore) e la sua compagna lottano disperatamente per conservare un granello di umanità”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

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29 Marzo | Veintinueve marzo

29 marzo 2024

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Se fijó el día veintinueve de marzo, a las nueve a.m. (…)
Antes del día prefijado por Julius Rothe, murió centenares de muertes, en patios cuyas formas y cuyos ángulos fatigaban la geometría, ametrallado por soldados variables, en número cambiante, que a veces lo ultimaban desde lejos; otras, desde muy cerca. Afrontaba con verdadero temor (quizá con verdadero coraje) esas ejecuciones imaginarias; cada simulacro duraba unos pocos segundos; cerrado el círculo, Jaromir interminablemente volvía a las trémulas vísperas de su muerte. Luego reflexionó que la realidad no suele coincidir con las previsiones; con lógica perversa infirió que prever un detalle circunstancial es impedir que éste suceda. Fiel a esa débil magia, inventaba, para que no sucedieran, rasgos atroces; naturalmente, acabó por temer que esos rasgos fueran proféticos. Miserable en la noche, procuraba afirmarse de algún modo en la sustancia fugitiva del tiempo. Sabía que éste se precipitaba hacia el alba del día veintinueve

Jorge Luis Borges, El milagro secreto, 1943

L’esecuzione fu fissata  per il 29 marzo, alle nove di mattina. (…) Prima del giorno fissato da Julius Rothe, morì centinaia di morti, in cortili le cui forme e i cui angoli esaurivano la geometria, mitragliato da soldati variabili, in numero cangiante, che a volte lo finivano da lontano, altre da molto vicino. Affrontava con vero timore (forse con vero coraggio) queste esecuzioni immaginarie; ogni finzione durava pochi secondi; chiuso il cerchio, Jaromir interminabilmente tornava alle tremanti vigilie della sua morte. Poi rifletté che la realtà non suole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusse che prevedere un dettaglio circostanziale è impedire che esso accada. Fedele a questa debole magia, inventava, perché non accadessero, particolari atroci; naturalmente finì per temere che questi particolari fossero profetici. Miserabile la notte, procurava di affermarsi in qualche modo nella sostanza fuggitiva del tempo. Sapeva che questo andava precipitando verso l’alba del giorno 29

Jorge Luis Borges, Il miracolo segreto, 1943, (Artifici), in Finzioni, tr. it. F. Lucentini, in Tutte le opere, I Meridiani, Mondadori, 1985, vol. I, p. 740

A Praga, nel marzo del 1939,  lo scrittore ebreo Jaromir Hladík è arrestato dalla Gestapo e condannato a morte. Mentre attende il giorno della fucilazione, ripensa ai libri che ha scritto e soprattutto all’ultimo, che non ha terminato. Gli servirebbe un anno per concluderlo. E per il miracolo segreto che dà il titolo al racconto, nel giorno dell’esecuzione il tempo si ferma, solo per lui , per un anno intero. Dandogli il tempo di finire la sua opera, a memoria, dentro la sua testa, entro le 9 e 2 minuti del 29 marzo. 

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“Uscito in Argentina nel 1944 e tradotto da Franco Lucentini nel 1955, Finzioni è il libro che ha rivelato Borges in Italia, e che da allora ha acquistato anche da noi la statura di un classico contemporaneo. Diviso in due parti – Il giardino dei sentieri che si biforcano e Artifici – il volume è composto di racconti che di volta i volta sono fantastici, simbolisti, polizieschi, esoterici, tutti volti a creare una sorta di «enciclopedia illusoria» di cui Borges è il magistrale compilatore”
(dalla scheda del libro nell’ed. Einaudi)

 

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22 Marzo

22 marzo 2024

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Tutto sembra irreale. Come se fossi un altro che mi osserva. Mettere per iscritto per essere sicuro che è vero.
Oggi è il 22 marzo.
Dove sono la tonaca e la parrucca?
Cosa ho fatto ieri sera? Ho come una nebbia nella testa.
Non ricordavo neppure dove portasse la porta in fondo alla stanza. 
Ho scoperto un corridoio (mai visto?) pieno di abiti, parrucche, paste e ceroni come usano gli attori

Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Bompiani, 2010, p. 33

“Lungo il XIX secolo, tra Torino, Palermo e Parigi, troviamo una satanista isterica, un abate che muore due volte, alcuni cadaveri in una fogna parigina, un garibaldino che si chiamava Ippolito Nievo, il falso bordereau di Dreyfus per l’ambasciata tedesca, la crescita di quella falsificazione nota come “I protocolli dei Savi Anziani di Sion”, che ispirerà a Hitler i campi di sterminio, gesuiti che tramano contro i massoni, massoni, carbonari e mazziniani che strangolano i preti con le loro stesse budella, un Garibaldi artritico dalle gambe storte, i piani dei servizi segreti piemontesi, francesi, prussiani e russi, le stragi nella Parigi della Comune, orrendi ritrovi per criminali che tra i fumi dell’assenzio pianificano esplosioni e rivolte di piazza, falsi notai, testamenti mendaci, confraternite diaboliche e messe nere. Ottimo materiale per un romanzo d’appendice di stile ottocentesco, tra l’altro illustrato come i feuilletons di quel tempo. Un particolare: eccetto il protagonista, tutti i personaggi di questo romanzo sono realmente esistiti e hanno fatto quello che hanno fatto. E anche il protagonista fa cose che sono state veramente fatte, tranne che ne fa molte, che probabilmente hanno avuto autori diversi. Accade però che, tra servizi segreti, agenti doppi, ufficiali felloni ed ecclesiastici peccatori, l’unico personaggio inventato di questa storia sia il più vero di tutti” (dalla scheda del libro sul sito ibs).

 

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17 Marzo | 17 Mars

17 marzo 2024

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Dëgjonte ende hapat që po largoheshin che dy – tri herë pyeti veten: të kujt janë vallë? Iu dukën si hapa të njohur. Ah, po ata ishin krejt të njohur, ashtu si edhe duart që e kthyen mbarë… Janë të miat, tha me vete. Në shtatëmbëdhjetë mars, udha pranë Brezftohtit… Një grimë e humbi ndërgjegjen, pastaj prapë dëgjoi kumbimin e hapave dhe përsëri iu duk se ata ishin krejt hapat e tij dhe ishte ai vetë e askush tjetër, që po ngarendte kështu, duke lënë pas, të shtrirë midis rrugës, trupin e vet, që porsa e kishte vrarë.

Ismail Kadare, Prilli i thyer, 1982, Onufri, Tiranë

 

Udì nuovamente i passi che si allontanavano e, per due o tre volte, si chiese: “Di chi sono questi passi?”. Ebbe l’impressione che fossero passi familiari. Sì, li conosceva bene, così come le mani che lo avevano girato… “Ma sono i miei! Il diciassette marzo, la strada, vicino a Brezftoht…” Perse per un attimo coscienza, poi udì nuovamente risuonare i passi e gli sembrò ancora che fossero i suoi, che fosse lui e nessun altro che correva così, lasciandosi dietro, disteso sulla strada, il proprio corpo, quello che lui stesso aveva appena abbattuto

Ismail Kadaré, Aprile spezzato, 1982, tr. it. F. Celotto, Guanda, 1993, p. 173

Il 17 marzo è la data fatale che apre e chiude la storia di Gjorg, il giovane protagonista di una faida decennale, che oppone la sua ad un’altra famiglia albanese. Per vendicare un fratello ammazzato tempo prima, Gjorg è costretto a uccidere un uomo, e lo fa in quel giorno di marzo, “sorridente e gelido allo stesso tempo”. Da quel momento egli ha trenta giorni di tregua, prima che la famiglia dell’ucciso possa a sua volta vendicarsi su di lui. In quel mese deve pagare il “riscatto del sangue” alle autorità del territorio e vivere le ultime giornate da uomo libero. È una data spartiacque, che gli tornerà in mente con forza anche alla fine della vicenda. Non sa che, se non avesse commesso l’omicidio, quel 17 marzo sarebbe stato il primo giorno “bianco”, senza violenza, “da un secolo, forse da due, tre, cinque secoli, forse addirittura dall’origine stessa del riscatto del sangue”.

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“C’è una terra, scabra e selvaggia, in cui il tempo sembra essersi fermato, e in cui la vita e la morte degli uomini sono scanditi da un unico inflessibile giudice: la faida. È lì, sugli altipiani all’interno dell’Albania (in quel paesaggio geografico e morale di cui è l’irripetibile cantore), che Ismail Kadaré ha intessuto la trama di questo avvincente romanzo. Il 17 marzo di un anno imprecisato (prima, comunque, dell’avvento del comunismo in Albania) il giovane Gjorg Berisha ha dovuto uccidere Zef Kryeqyqe, l’assassino di suo fratello”
(dal risvolto di copertina dell’ed. Guanda, op. cit.)

 

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14 Marzo | March 14

14 marzo 2024

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The first witness was the Hatter. He came in with a teacup in one hand and a piece of bread-and-butter in the other. ‘I beg pardon, your Majesty,’ he began, ‘for bringing these in: but I hadn’t quite finished my tea when I was sent for.’
‘You ought to have finished,’ said the King. ‘When did you begin?’
The Hatter looked at the March Hare, who had followed him into the court, arm-in-arm with the Dormouse.
‘Fourteenth of March, I think it was,’ he said.
‘Fifteenth,’ said the March Hare.
‘Sixteenth,’ added the Dormouse.
‘Write that down,’ the King said to the jury, and the jury eagerly wrote down all three dates on their slates, and then added them up, and reduced the answer to shillings and pence

Lewis Carroll, Alice in Wonderland, 1865

Il primo testimone era il Cappellaio. Si presentò con una tazza di tè in mano e un pezzo di pane imburrato nell’altra. – Chiedo perdono, vostra Maestà, – cominciò, – se sono qui con queste cose; ma non avevo ancora finito il mio tè quando sono stato convocato.
– Dovresti aver finito, – disse il Re. – Quando iniziasti?
Il Cappellaio guardò la Lepre Marzola, che l’aveva seguito in tribunale a braccetto del Ghiro. – Il quattordici marzo, mi pare, – disse.
– Il quindici, – disse la Lepre Marzola.
– Il sedici, – disse il Ghiro.
– Prendetene nota, – disse il Re alla giuria; e la giuria diligentemente annotò sulle lavagnette tutte e tre le date, poi fece la somma e convertì il totale in scellini e penny

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, 1865, tr. it. A. Ceni, Einaudi, 2003, p. 107

La porta principale attraverso cui si entra nel Paese delle Meraviglie è quella del Tempo, avverte Stefano Bartezzaghi nell’introduzione all’edizione Einaudi delle Avventure di Alice. Il tempo – già di per sé una meraviglia, un indovinello senza soluzione – è il protagonista di situazioni e dialoghi paradossali. Le avventure di Alice si svolgono in maggio: lo dice la bambina, dopo aver incontrato la Lepre Marzola (“forse, poiché siamo di maggio, non matta da legare”). Più avanti, nel capitolo Un tè da matti, viene fuori la data del 4, insieme con un mirabile orologio che, invece dell’ora, segna il giorno del mese. Poiché il Paese delle Meraviglie è un luogo di discussioni, anche la data è oggetto di negoziazione, come in questo capitolo XI (Chi rubò le crostate?), in cui il testimone è contraddetto dalla Lepre Marzola e dal Ghiro e le cifre delle date sono commutate in denaro. Poiché il Paese delle Meraviglie è un luogo di non-certezze, anche la data pare il 14 marzo, ma anche il 15 o il 16. Dipende dall’unità di misura o di cambio del Tempo.

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“Le avventure straordinarie della piccola Alice in un bizzarro mondo alla rovescia sono molto piú di un classico per l’infanzia. Se da un lato vi si può leggere una parabola che svela le assurdità e le incoerenze della vita adulta, dall’altro vi si coglie, immediata, una raffinatissima abilità linguistica, dove il gusto per il paradosso e il calembour, il nonsenso e la parodia si esprimono con impareggiabile inventiva. Un classico, quindi, cui hanno guardato molti protagonisti della letteratura del Novecento da Queneau a Nabokov”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. ci.t)

 

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28 Febbraio | 28 Février

28 febbraio 2024

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Quel quantième du mois tenons-nous? demanda Dantès à Jacopo, qui était venu s’asseoir après de lui, en perdant de vue le château d’If.
—Le 28 février, répondit celui-ci.
—De quelle année? demanda encore Dantès.
—Comment, de quelle année! Vous demandez de quelle année?
—Oui, reprit le jeune homme, je vous demande de quelle année.
—Vous avez oublié l’année où nous sommes?
—Que voulez-vous! J’ai eu si grande peur cette nuit, dit en riant Dantès, que j’ai failli en perdre l’esprit; si bien que ma mémoire en est demeurée toute troublée: je vous demande donc le 28 de février de quelle année nous sommes?
—De l’année 1829», dit Jacopo.
Il y avait quatorze ans, jour pour jour, que Dantès avait été arrêté.
Il était entré à dix-neuf ans au château d’If, il en sortait à trente-trois ans.
Un douloureux sourire passa sur ses lèvres

Alexandre Dumas, Le Comte de Monte-Cristo, 1844-46

*

“Oggi quanti ne abbiamo del mese?” domandò Dantès a Jacopo che era venuto a sedere vicino a lui dopo aver perduto di vista il castello d’If.  
“Il 28 febbraio”, rispose questi. 
“Di che anno?” domandò ancora Dantès.
“Come di che anno?… Voi domandate di che anno?”
“Si,” rispose il giovane, “vi domando di che anno”
“Avete dimenticato in che anno siamo?”
“Che volete? E’ stata così grande la paura di questa notte,” disse ridendo Dantès, “in cui poco è mancato che non perdessi la vita, che la mia memoria ne è rimasta sconvolta; vi domando dunque di quale anno siamo noi ai 28 di febbraio?”
“Dell’anno 1829”, rispose Jacopo.
Erano 14 anni precisi, giorno per giorno, che Dantès era stato arrestato. Era entrato nel castello d’If  a 19 anni, e ne usciva a 33. Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra

Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo1844-46, tr. it. E. Franceschini, BUR, 2006, pp. 153-154

Fuggito dal castello d’If, dove è stato tenuto ingiustamente prigioniero molti anni, e salvato in mare da un bastimento di contrabbandieri a cui dice di essere un naufrago, Edmond Dantès ha perso la cognizione del tempo e la prima notizia che chiede riguarda proprio la data. Nel febbraio di quattordici anni prima – 1815 -aveva avuto inizio la narrazione, con l’arrivo di Dantès a Marsiglia, il suo fidanzamento, il complotto dei suoi nemici e l’arresto.

Dicono del libro
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26 Febbraio | 26 февраля

26 febbraio 2024

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26-го февраля 1807 года старый князь уехал по округу. Князь Андрей, как и большей частью во время отлучек отца, оставался в Лысых Горах. Маленький Николушка был нездоров уже четвертый день. Кучера, возившие старого князя, вернулись из города и привезли бумаги и письма князю Андрею.

Лев Толстой, ВОЙНА И МИР, 1867-69

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Il 26 febbraio del 1807, il vecchio principe era partito per la sua circoscrizione. Come accadeva quasi sempre durante le assenze di suo padre, il principe Andrej era rimasto a Lysye Gory. Già da tre giorni il piccolo Nikoluska era ammalato. I cocchieri che avevano accompagnato il vecchio principe, tornarono dalla città, portando delle lettere e altre carte per il principe Andrej. 

Lev Tolstoj, Guerra e pace, 1867-69, tr. it. P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1974 (1985), p. 554

Dicono del libro
Sette anni occorsero a Tolstoj (dal 1863 al 1869) per comporre uno dei capolavori della letteratura ottocentesca. L’ossatura del romanzo, sullo sfondo delle guerre napoleoniche – dal 1805 alla travolgente insurrezione di tutto il popolo russo nel 1812 – è data dalle vicende di due grandi famiglie dell’alta nobiltà, i Rostov e i Bolkonskij, depositari dei valori autentici e genuini, intrecciate a quelle dei corrotti e dissoluti Kuragin. Spiccano, nella moltitudine di personaggi, le figure di Natasa, fanciulla e poi donna di straordinaria purezza e d’indole forte e impetuosa; del principe Andrei, che porta il suo orgoglio nella guerra, nella prigionia e nell’infelice amore per Natasa; dell’enigmatico e complesso Pierre Bezuchov, capace di autentica adesione al dolore del mondo”.
Scheda del volume citato presente nel sito ibs.

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22 Febbraio | 22 February

22 febbraio 2024

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He poured himself a nightcap and went into the study to perform the nightly ritual of altering the date of the calendar on his desk. Saturday, 21 February. Great Heavens! It was Sunday morning! Sunday, 22 February. Exactly eight days since the infernal business at the Hanging Rock.
As soon as Albert had attended to the horses he flung himself fully clothed on his unmade truckle bed and fell asleep. He seemed to have hardly laid his head on the pillow before he was wide awake and staring at the little square of grey light at the window, with the events of yesterday, no longer confused by physical exhaustion as they had been last night, falling neatly into place like the pieces of a fretwork puzzle. Except that one of the key pieces was missing. Which was it, and where exactly fit it fit into the pattern?
Joan Lindsay, Picnic at Hanging Rock, 1967, Penguin Books, 1970, p. 90

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Si versò un bicchierino di liquore ed entrò nello studio per compiere il rito serale di cambiare la data sul calendario dello scrittorio. Sabato, 21 febbraio. Santo Cielo!  Era domenica mattina! Domenica, 22 febbraio. Esattamente otto giorni dal dannato affare alla Hanging Rock. Albert, appena terminato di accudire ai cavalli, si buttò tutto vestito sulla branda non rifatta e si addormentò. Gli pareva di avere posato la testa sul guanciale solo da un momento ed era già completamente sveglio e fissava il minuscolo quadrato di luce grigia alla finestra; intanto gli avvenimenti del giorno prima, non più confusi per la stanchezza fisica come lo erano la sera precedente, si collocavano ordinatamente al loro posto come i pezzi di un rompicapo. Ma mancava uno dei pezzi chiave. Qual era? E dove andava sistemato esattamente nel disegno? 

Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock, 1967, tr. it. M.V. Malvano, Sellerio 1993, p.101

L’uomo che cambia la data sul calendario dello scrittoio è il colonnello Fitzhubert, lo zio di Mike, il giovane aristocratico che, con l’amico stalliere Albert, ha visto per l’ultima volta le ragazze scomparse ad Hanging Rock la settimana prima. Durante un picnic organizzato dal collegio Appleyard nel giorno di San Valentino, Miranda, Marion, Irma, Edith e un’insegnante di matematica si sono allontanate in direzione della grande roccia vulcanica, mentre gli orologi sono tutti fermi a mezzogiorno. Solo Edith è tornata indietro, sconvolta da qualcosa che non è in grado di spiegare. Il giovane Mike non si dà pace e continua la ricerca solitaria delle ragazze, mentre lo zio lo aspetta a casa e si accorge che è passato un altro giorno dallo strano accadimento.“Non esiste un solo attimo su questo globo rotante che non sia, per milioni di individui, non misurabile con i comuni sistemi di computo del tempo: un frammento di eternità per sempre privo di rapporto con il tempo e l’orologio”.

Dicono del libro
Dicono del libro
“Hanging Rock, la roccia vulcanica che sorge isolata e improvvisa nella macchia australiana a nord di Melbourne, fu davvero teatro, nel 1900, dell’evento narrato in questo libro: la scomparsa mai spiegata di due fanciulle e una matura insegnante di college, seguita dalla immediata rovina di tante esistenze a quelle vite collegate (…) ‘Se Picnic a Hanging Rock sia realtà o fantasia, i lettori dovranno deciderlo per proprio conto’ “(dalla bandella dell’ed. Sellerio, op. cit.)

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3 Febbraio

3 febbraio 2024

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Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre  […] Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate sui libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente

Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923, Dall’Oglio, Milano 1938 (ed. cons. 1976), pp. 32, 33

La data del 3 febbraio del 1905 alle sei è una delle tantissime sequenze giorno-mese-anno-ora a cui Zeno affida la possibilità di smettere di fumare e, nel farlo, di affermare la propria forza di volontà. La sua stanza da studente è stata talmente ricoperta di date di ultime sigarette, che ha dovuto farla tappezzare a sue spese, ma lungi dall’aiutarlo, il segnare la data accresce il gusto dell’Ultima Sigaretta e, insieme, la ricerca di sempre nuove concordanze numeriche, mentre il XIX secolo diventa Novecento. 

Dicono del libro

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22 Gennaio

22 gennaio 2024

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Non seppe resistere alla tentazione di prendere un trenino per Soria, di attraversare i campi di Castiglia, di recarsi in pellegrinaggio in un luogo sobrio e essenziale dove lo chiamava una poesia. La camera della pensione Cuevas era rimasta intatta: un tavolo, una sedia, un letto, un attaccapanni. Vagò commosso, per le stradette di quella cittadina modesta, circondata dal deserto lunare della Castiglia; poi in una libreria antiquaria, dopo ripetute insistenze, trovò un ritratto di Machado con una dedica autografa in un angolo: 22 gennaio 1939. Il poeta stava fuggendo verso la frontiera, verso la morte, stretto dal cerchio franchista

Antonio Tabucchi, Il rancore e le nuvole, 1985, in Piccoli equivoci senza importanza, ed. cons. Feltrinelli, 1988, p. 90

Nella faticosa carriera accademica – e nell’altrettanto disagevole vita familiare – del protagonista, il viaggio in Spagna segna una svolta, che lo porterà a cogliere occasioni di rivincita e di successo. Nume tutelare della sua nuova condizione è il grande poeta spagnolo Machado, che insegnò nella città di Soria, dove – nel racconto – viene ritrovata la fotografia con la dedica del 22 gennaio 1939, un mese prima che il poeta morisse, fuggendo dalla Spagna verso la Francia. 

Dicono del libro

Dicono del libro
“Malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili: le cose fuori luogo esercitano su di me un’attrazione irresistibile (…) Il rancore e le nuvole è un racconto realistico”
(Antonio Tabucchi)

 

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18 Gennaio | Januar 18

18 gennaio 2024

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Am achtzehnten Januar siebenunddreißig, auf knirschendem hartgetretenem Schnee, in einer Nacht, die nach mehr Schnee roch, nach soviel Schnee roch, wie sich jemand nur wünschen kann, der alles dem Schnee überlassen möchte, sah ich Jan Bronski rechts oberhalb meines Standortes die Straße überqueren, am Juwelierladen, ohne aufzublicken, vorbeigehen, dann zaudern oder eher wie auf Anruf still stehn; er drehte sich, oder drehte es ihn — und da stand Jan vor dem Schaufenster zwischen weißbeladenen, leisen Ahornbäumen.
Günter Grass, Die Blechtrommel, 1959

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Era il diciotto gennaio del trentasette. A tarda sera, su una neve scrocchiante indurita dai passi, mentre il cielo sembrava promettere ancora neve, tanta neve quanta ne può desiderare solo chi sa come essa gli sia propizia, vidi Jan Bronski attraversare la strada e, a monte del mio appostamento, passare senza levare lo sguardo davanti alla gioielleria, poi, dopo un attimo di esitazione, fermarsi come obbedendo a un richiamo; si voltò – o meglio fu voltato – ed ecco Jan fermo davanti alla vetrina, sotto i silenti aceri dai rami carichi di neve

Günter Grass, Il tamburo di latta, 1959, tr. it. L. Secci, V. Ruberl, ed. cons. Feltrinelli 1974, p. 126

Decenni di storia europea sono ripercorsi in questo romanzo, dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, osservati dalla città di Danzica (la città dello scrittore Grass) e narrati dal personaggio di Oskar Matzerath. Nato, nella narrazione, i primi di settembre del 1924, forse frutto della relazione adulterina della madre con il cugino Jan Bronski, Oskar ha deciso di fermare la sua crescita all’età (e all’altezza) dei tre anni, coltivando un antagonismo nei confronti del mondo, che si esprime nell’ossessione verso un tamburo di latta, da cui non si separa mai, e nella capacità di spaccare i vetri con la voce. Nell’anno 1937, in pieno regime nazionalsocialista, Oskar si dedica a far cadere in tentazione concittadini e parenti, aprendo – con la sua voce potente – delle fessure nei vetri delle gioiellerie, attraverso cui le persone, inevitabilmente, sottraggono preziosi e si trasformano in ladri. La sera del 18 gennaio, in un paesaggio innevato, Oskar sta per tentare il suo presunto padre Jan, che ruberà una collana di rubini per la mamma.
La data del 18 gennaio richiama, nella storia germanica, la proclamazione di Gugliemo I imperatore, nel 1871. 

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16 Gennaio

16 gennaio 2024

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Il 16 gennaio, alle sei e trenta, il Marchica uccise, in ogni particolare seguendo il piano preparato dal Pizzuco, Salvatore Colasberna. Ma ci fu un intoppo nell’incontro, a metà della via Cavour, mentre il Marchica fuggiva, col suo concittadino Paolo Nicolosi, il quale nettamente lo riconobbe, e anzi lo chiamò per nome. Ne ebbe inquietudine: e questa sua inquietudine comunicò al Pizzuco quando, subito dopo, venne a raggiungerlo nella casa di campagna. Il Pizzuco si agitò, bestemmiò; poi, calmatosi, disse: “Non ti preoccupare, ci pensiamo noi”. A bordo di un camioncino di sua proprietà, il Pizzuco lo accompagnò fino alla contrada Granci, a poco meno di un chilometro da B.: ma prima gli consegnò, a saldo, altre centocinquantamila lire, che con quelle dell’anticipo facevano le trecentomila pattuite

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961, ed. cons. Einaudi 1972, p. 73

Il giorno della civetta inizia, in un paese indicato solo con l’iniziale S., con l’omicidio di un uomo alla fermata dell’autobus per Palermo, alle sei e trenta, “nel grigio dell’alba”. Alla stessa ora un altro uomo, che si è imbattuto per caso nel sicario in fuga, scompare e verrà ritrovato morto anch’egli.  Solo verso la metà della narrazione, viene indicata la data del delitto, il 16 gennaio. Nei giorni successivi, si svolgono le indagini, guidate dal capitano Bellodi, originario di Parma. Malgrado reticenze e depistaggi, l’inchiesta arriva a individuare assassini e mandanti degli omicidi, ma protezioni politiche, che dalla Sicilia giungono a Roma, ne “sfasciano”, con falsi alibi, i risultati. 

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8 Agosto

8 agosto 2023

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E veniamo ora al meccanismo dei delitti di Nigger Island. Acquistare l’isola, usando come intermediario Morris per coprire le mie tracce, fu facile. L’uomo era un esperto in queste cose. Esaminando tutte le informazioni che avevo raccolto sulle vittime designate, mi riuscì di offrire a ciascuna l’esca più adatta. Neppure uno dei miei piani fallì. Tutti gli ospiti arrivarono a Nigger Island l’8 agosto. La piccola compagnia comprendeva me stesso

Agatha Christie, Dieci piccoli indiani, 1939, tr. it. B. Della Frattina, Mondadori 1994, p.204

L’otto di agosto (8-8) è la data di arrivo degli ospiti del signor Owen nella sua residenza di Nigger Island, isolotto che diventa irraggiungibile dalla costa del Devon in caso di tempesta. Gli invitati non si conoscono fra di loro, ma quella sera stessa – nella casa dove dieci statuine di porcellana poggiano sul tavolo e alla parete delle stanze è incorniciata la filastrocca “e poi non ne rimase nessuno” – avranno modo di apprendere da una registrazione di essere stati chiamati lì per qualche ambiguo crimine commesso in passato. Mentre il mare tempestoso di agosto interrompe i collegamenti con la terraferma, si mette in moto il sadico meccanismo dei delitti punitivi, che verrà spiegato per intero solo da un manoscritto in bottiglia, rinvenuto in mare da un peschereccio.

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31 Marzo

31 marzo 2023

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“Comunque, in definitiva, è la storia di come non mi sono sposato!” 
“Sposato!… Moglie!… Polzunkov voleva sposarsi!!”
“Vi confesso che muoio dalla voglia di vedere Madame Polzunkov!”
“Permettete che mi interessi sapere il nome di colei che stava per diventare Madame Polzunkov” pigolò un giovanotto, fattosi largo tra la folla.
“Ed ora il primo capitolo, signori: erano esattamente sei anni fa, in primavera, il 31 di marzo – notate la data, signori – , la vigilia…
“Del primo aprile!” urlò il giovanotto con la prefettizia.
“Che intuito eccezionale. Era sera. Sul capoluogo distrettuale di N. si addensavano le prime ombre del tramonto, la luna tentava di fare capolino e… tutto il resto! Ed ecco che al tardo tramonto anch’io, pian pianino, faccio capolino da un piccolo
appartamento dopo essermi congedato dalla mia riservata, defunta nonna

Fëdor Dostoevskij, Polzunkov, 1847, tr. it.A. Pasteris, in Racconti, Mondadori, 1991, p. 165

Una storia di equivoci e di inganni ha inizio la sera del 31 marzo, quando Polzunkov, dopo aver cercato di ricattare il suo superiore Fedosej Nikolaic, viene irretito da questi e dalla sua famiglia. Promesso in matrimonio alla figlia, coinvolto nel risanamento dei conti, vedrà sfumare tutti i piani, fra il 31 marzo e il primo di aprile, giorno degli scherzi e anche dei pentimenti.

 

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17 Febbraio

17 febbraio 2023

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Esteban Werfell prese la penna – che era di legno, e che usava esclusivamente per redigere il suo diario – e la intinse nel calamaio.
17 febbraio 1958, scrisse. La sua calligrafia era accurata, elegante. Al di là della finestra il cielo era diventato completamente grigio, e una pioggia sottile, invisibile, scuriva l’edera che rivestiva la casetta dei cigni. Quella visuale lo fece sospirare. Avrebbe preferito un tempo diverso. Non gli piaceva che il parco fosse deserto. Sospirò di nuovo. Poi intinse la penna e si chinò sul quaderno

Bernardo Atxaga, Esteban Werfell, in Obabakoak, 1989, tr. it. S. Piloto di Castri, Einaudi, 1991, p. 7

Il pomeriggio del 17 febbraio, sotto un “cielo nuvoloso, bianco e grigio”, il protagonista del racconto si accinge a scrivere su un quaderno dalla copertina rigida. È il dodicesimo quaderno delle sue riflessioni e delle sue memorie, in cui ripercorre un episodio dell’adolescenza, avvenuto molti anni prima, e il cui significato ha compreso da poco. Ha a che fare con il padre, con una ragazza tedesca con la quale si è scritto per tanti anni (o almeno ha creduto di farlo),  con una lontana immaginazione e soprattutto con il corso del tempo, che – al pari della memoria –  nasconde, seleziona e rivela la rete delle cose accadute.

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31 Gennaio

31 gennaio 2023

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Che M. fosse costretto a simulare quell’ultima sera – fu mercoledì 31 gennaio 1973 – quando arrivò all’improvviso dopo una lunga assenza, in compagnia della sua amica, molto più giovane di lui, una sua ex allieva, per restituire un libro preso in prestito (Musil: L’uomo senza qualità), era nella natura delle cose. Sapeva che era l’ultima sera della sua vita. Nella giacca a vento che la ragazza appese in corridoio doveva trovarsi la lettera che spedirono quella sera stessa: dissero che non potevano trattenersi, dovevano ancora andare alla posta

Christa Wolf, Trama d’infanzia, 1976, tr. it. A. Raja, edizioni e/o, 1992, pp. 126-7

Raffronti di date e continui salti dall’oggi (gli anni Settanta in cui il libro viene scritto) all’oggi (gli anni Trenta, Quaranta e oltre) della materia raccontata: la scrittrice tesse una vera trama nel tempo, mentre narra di Nelly, bambina e adolescente durante il Nazismo e la guerra, della sua famiglia, della sua città, passata dalla Germania alla Polonia, dei mutamenti di regime, delle ondate di paura, delle speranze, dell’aderenza al presente che continuamente si aggiorna.
Il libro è costellato di riflessioni sul tempo: “Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come fosse estraneo” e soprattutto di date, come questa del 31 gennaio del 1973, un’incursione del ‘presente’ nell’allora (il 1935) che viene raccontato nella pagina.

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Datare ad arte: claudioadami

Claudio Adami (o meglio claudioadami, artista nato a Città di Castello nel 1951) possiede una collezione di datari, quei bolli da ufficio, in metallo o in gomma, che si usano per imprimere la data sui documenti, combinando la cifra del giorno, il nome del mese abbreviato e l’anno con i suoi quattro numeri.
Anche claudioadami usa questi oggetti combinatori per imprimere la data sulle sue opere e quando i numeri che indicano gli anni sono superati, l’artista rimpiazza i timbri scaduti con dei nuovi senza gettare via quelli vecchi.
Sono oggetti che lo accompagnano nel suo lavoro quotidiano, che consiste – per un rilevante nucleo di opere – nello scrivere a mano con inchiostro nero, su carta o su legno, parole e frasi tratte dal suo autore-guida, Samuel Beckett.
Svolgimento AdamiUna riga dopo l’altra, la scrittura si deposita sul supporto, lo impregna finché le lettere non sono più leggibili e resta visibile una superficie nera screziata di bianco, che evoca in chi guarda un andamento musicale o crittografico.
A scandire questa partitura di macchie e di segni, ci sono le date. Stampigliate nel formato del datario, sono un elemento essenziale sia delle singole opere, sia della loro sequenza: segnalano l’inizio e il termine del lavoro quotidiano di scrittura, si susseguono come diario del giorno, come calendario dei mesi e degli anni, come documento di un lavoro svolto nel tempo. Giocando con la parola data, la data in claudioadami è un dato che testimonia la durata di un lavoro (la “giornata” dell’operaio o del frescante o dell’impiegato) ed è anche un metadato: descrive il contesto temporale dell’opera ed è però anche interna ad essa, appartiene contemporaneamente alla cornice e al quadro, al testo e alla didascalia.
Coniugando la trascrizione manuale dei testi di Beckett (in particolare Com’è / Comment c’est del 1961, privo di punteggiatura e frutto di un lungo lavoro quotidiano) con l’attenzione alla giornata, claudioadami suggerisce due riferimenti, che guardano verso Oriente.
L’opera del giapponese On Kawara, che ha dedicato quasi ogni giorno un quadro alla data del giorno, scritta nella convenzione del paese in cui l’artista si trovava (spesso proprio con il formato del datario) e l’azione del cinese Qiu Zhijie dal titolo Compito n. 1. Copiare la Prefazione al Padiglione delle Orchidee per mille volte (1992-1995), in cui un testo classico della calligrafia è scritto e riscritto sullo stesso foglio, fino a diventare una macchia nera su nero.
Tabularium AdamiQuesto non accade con claudioadami, in cui il dialogo fra il bianco e il nero è sempre mantenuto, nelle emersioni stenografiche della carta oppure nell’alternanza vera e propria dei due colori, per esempio in un’opera dal titolo Tabularium (1997-98). Vediamo e tocchiamo una catasta di doghe di legno – ciascuna con la sua data – in cui la zona inchiostrata corrisponde alle ore di lavoro e il bianco alle ore di non-lavoro: tutte insieme alludono a un codice a barre, a un registro binario, a una visualizzazione dei dati essenziali dell’esistenza (sonno e veglia, attività e riposo, stasi e movimento, traccia e assenza).

Per tornare al datario: è una delle parole che il blog diconodioggi ha adottato, aderendo all’iniziativa della Società Dante Alighieri “Adotta una parola”, che invita a scegliere e a curare parole desuete o di cui si vuole tenere vivo l’uso (finora ne sono state selezionate 32.000).
Datario, nel senso di “bollo che serve a imprimere su lettere e documenti l’indicazione della data”, è proprio uno di questi vocaboli e corrisponde a un oggetto anch’esso, a suo modo, datato. La collezione personale di datari vintage di claudioadami è una sorta di adozione di questo strumento di scansione temporale: è curioso notare che, secondo diversi dizionari, il termine datario è attestato nella lingua italiana scritta a partire dal 1951, che è anche l’anno di nascita di Claudio Adami.

Un gruppo di opere di claudioadami – fra cui Tabularium, Svolgimento, Pagine di nero, Index (oltre alla proiezione dedicata a Qual è la parola di Beckett) – è in mostra a Roma, Museo Hendrick Christian Andersen, nella collettiva Sintattica: Luigi Battisti, claudioadami, Pasquale Polidori, a cura di Francesca Gallo (fino all’11 ottobre 2015).
Antonella Sbrilli @asbrilli

Metro di Tempo. “M” di Stefano Bartezzaghi

Come nel paese delle meraviglie di Carroll, l’ingresso attraverso il quale si entra nella metropolitana di Milano di Bartezzaghi è il Tempo.

Il metro non è un’unità di misura del tempo (anche se metri di legno sono usati a scuola per raffigurare la storia: gli anni in millimetri, i secoli in decimetri…), ma la metro, intesa come metropolitana, il tempo a suo modo lo misura, eccome.
“Prossimo treno fra due minuti” si legge nel display, e si fa il conto di che ore saranno fra due minuti; sei minuti fra una stazione e l’altra e si calcola l’ora di arrivo; mezz’ora, quaranta minuti per un intero percorso e si pianifica l’agenda della giornata. La metropolitana è a suo modo un orologio che si muove sotto la città e si muove, nel tempo di ognuno e di tutti, delle persone e della stessa città, nel modo zigzagante, diretto e avviluppato, in cui Stefano Bartezzaghi lo racconta nel libro M Una metronovela (Einaudi 2015).
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Il racconto che Bartezzaghi fa della metropolitana di Milano è intessuto nel tempo (e come potrebbe essere altrimenti?) ma, di più, mette in comunicazione la griglia macroscopica del tempo fisico con la percezione personale, fatta di attualità e memoria, di lampi e di limiti, di quel sapere e non-sapere di cui parla Sant’Agostino nelle Confessioni: “Che cos’è insomma il tempo? Lo so finché nessuno me lo chiede; non lo so più, se volessi spiegarlo a chi me lo chiede”.

San’Agostino è una fermata della linea 2 della metropolitana di Milano, una di quelle che Bartezzaghi conosce meglio e di cui racconta nel capitolo XVII (210); la fermata viene dopo Sant’Ambrogio, “come nella storia” e offre lo spunto all’autore per trattare dei nomi delle piazze, degli spiazzi, degli spazi cittadini con le loro forme. Fra queste forme – guarda un po’ proprio nel capitolo su Sant’Agostino – c’è anche l’orologio: un orologio da polso, col suo cinturino, è la figura evocata da Bartezzaghi per descrivere una piazza-non-piazza e un viale di Lambrate (212).
Come il tempo, la metro va sempre avanti; come il tempo, nella metro “non ci si può stare, è un luogo di passaggio” (220). Come il tempo, il tempo, nella metro di Bartezzaghi, è dappertutto.
C’è il tempo “tatuato” sui biglietti dalle vecchie obliteratrici e ancora più indietro nel tempo dai bigliettai, che li timbravano “a mano con giorno e ora” (26).
Ci sono i giorni della settimana: il lunedì e il giovedì della raccolta differenziata (14); i weekend (21) con i loro riti; la domenica del primo viaggio in metro da bambino (25) e la domenica nei parchi (115); il martedì e il sabato del mercato a Sant’Agostino (211).
Ci sono le stagioni: inverno (57); fine primavera, un pomeriggio torrido (65). I mesi: un luglio di fine secolo (237), quando un blackout interrompe l’erogazione della luce e il ritmo del tempo lavorativo.
Ci sono le parti del giorno, col loro carattere ciclico e l’individualità del lì e allora. Fra la pausa-pranzo (118), le sere prefestive (135), le notti, si contano tante mattine: la mattina presto e la tarda mattinata (42), una fredda mattina d’inverno (120), “un matin d’aprile, sensa l’amore” di una canzone di Jannacci (219); una mattina di giugno, a vent’anni, che diventa le tre del pomeriggio e sfocia in un temporale memorabile (221), unendo così la memoria di uno spazio di tempo con quella di un fenomeno del meteo. Del resto, il meteo è disseminato nel racconto della metro, che non è indipendente dalle condizioni atmosferiche (122) e un intero capitolo, Lo spirito del tempo (220), è dedicato a questo connubio, del tempo esterno e mutevole con il tempo del percorso sotterraneo.
Come in un Libro d’ore medievale, come in un breviario, nel racconto spazio-temporale di Bartezzaghi s’incontrano le ore (le 23, le 18, le 18.10 dell’orario dei treni), la mezzanotte, le tre del pomeriggio di agosto (208), l’ora dell’ultima metro (“Corri, ché questa è l’ultima metro”, 245) e i tempi della vita, infanzia, adolescenza, maturità e morte.
E poi i minuti, i secondi, i momenti, gli istanti (121), che portano al tema delle coincidenze (82, 87), degli incontri, degli incroci, del tempismo, delle occasioni.
Ci sono le date, un 2 novembre, il 18 aprile del 1996, quando il poeta Jacques Jouet tra le 5 e mezzo del mattino e le 9 di sera compie un intero percorso della metro parigina.
Ci sono le date nelle strade (un vecchio gioco di Bartezzaghi su La Stampa): XXIV Maggio, XII Marzo, XX Settembre, Cinque Giornate.
C’è il tempo della passeggiata, che ha un limite orario (10), il ritmo della camminata del pedone: “ha tempo? Non ha tempo?” (21).
Ci sono la puntualità e il ritardo (12), l’attesa e l’ansia, la fretta (81), il rallentamento (65), la pazienza, la durata delle passioni e degli stati d’animo, captati sulla linea dei viaggi (67), la sospensione (8), i soprusi sul tempo (38). Ci sono esperimenti sul tempo, legati all’ascolto e alla musica.
C’è poi il tempo interpolato della metronovela che fa da sottotitolo al libro, la met-com: una storia scandita in puntate di tre, quattro minuti, trasmessa dagli schermi nelle stazioni della metro, che si interrompe all’arrivo del treno, come un orologio narrativo, che riempie di fiction gli intervalli del tempo dei viaggiatori.
Dappertutto, nel racconto di Bartezzaghi, le M di metro, di Milano, di memoria si connettono, nel palinsesto di passaggi e sottopassaggi in cui impressioni, ricordi, imprinting si sono depositati per via di decenni di passi.
Come nel paese delle meraviglie di Carroll, l’ingresso attraverso il quale si entra nella metropolitana di Milano di Bartezzaghi è il Tempo.
(I numeri in parentesi si riferiscono alle pagine del libro di Stefano Bartezzaghi, M Una metronovela, Einaudi 2015)
Antonella Sbrilli @asbrilli