6 Ottobre

6 ottobre 2024

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Ma il barone Paolo dichiarò lealmente che, sebbene queste triglie fossero ottime, egli continuava a rimpiangere le triglie che aveva mangiato in casa della nuora il 6 ottobre 1902. “Io non capisco più come devo friggerle”, disse la signora Marietta, “ho provato in tutti i modi, ma non riesco mai ad accontentare papà”. “Non è esatto quello che dici”, ribatté il barone, “sono contentissimo di come tu fai friggere le triglie. Queste di oggi, per esempio, sono eccellenti, ma le triglie che ho mangiato a casa tua il 6 ottobre 1902…”, il barone socchiuse gli occhi facendo del presente la luce che si vede al di là di un tunnel, mentre nell’ombra della memoria riappariva una tavola imbandita sotto la pergola, e circondata da gente in gran parte defunta, “avevano qualcosa… io non so bene… un sapore così delicato e insieme così stuzzicante… si sentiva il mare e si sentiva pure la buona frittura…”

Vitaliano Brancati, Paolo il caldo, 1955 (post.), Mondadori 1976, p.60

A Catania, nel palazzo della famiglia Castorini si consuma il pranzo dell’una, fra discussioni politiche e portate di carne e di pesce. A tavola siede il vecchio barone Paolo – il nonno di quel Paolo che, con la sua ossessione erotica, dà il titolo al libro; è un uomo in grado di bere cinque bicchieri di vino di seguito, a differenza del figlio Michele, che si è già ritirato dalla tavola per tornare nel suo studio. Intorno a un piatto di triglie fritte le lingue si sciolgono “come la campane del sabato santo” e una data precisa del passato – un 6 di ottobre di molti anni prima – è richiamata al presente nella conversazione: si tratta di un ricordo suscitato nel barone dai sapori e dagli odori, con un meccanismo tipico della memoria, che è in grado di associare le sensazioni ad alcune date.

Dicono del libro

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4 Ottobre

4 ottobre 2024

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Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1975, p. 7

Comincia così, in un’Italia divisa dall’armistizio dell’8 settembre 1943, il lungo racconto del viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambrìa a Cariddi, dopo aver attraversato a piedi le coste della Calabria, il «paese delle Femmine». A traghettarlo clandestinamente lungo le acque dello Stretto, in una notte senza luna popolata da visioni, sarà la figura ammaliante della «femminota» Ciccina Circè, espressione, già nel suo nome omerico, di una femminilità potente e trasgressiva come il suo linguaggio che ‘Ndrja fa fatica a comprendere («Io, parola mia, non vi riesco a penetrare tutta…»). Il mare dello «scill’e cariddi», quello attraversato e quello che fa da sfondo alle storie di uomini e donne che vivono lungo le sue rive, è il vero polo d’attrazione del romanzo: luogo fisico e mentale, è infatti lingua, letteratura, tempo e memoria. In questo mare-mondo, che contiene l’origine e la fine di tutto, che è genesi e apocalisse, il traghettamento del protagonista tra i contrari della vita ha un alto valore simbolico e figurale. All’arrivo in Sicilia, ‘Ndrja troverà una terra stravolta, devastata dalla guerra, quasi irriconoscibile ai suoi occhi, offesi dal dolore per tanto degrado e tanta miseria. Per di più, il suo nostos coinciderà con quello dell’Orca, il Leviatano simbolo di morte, con cui sembra condividere la parabola esistenziale: quattro giorni impiega ‘Ndrja per arrivare al paese delle femmine, che sarà l’inizio della sua fine, e per quattro giorni l’Orca si aggira nello «scill’e cariddi» prima di “riassommare” e di andare incontro alla morte.

Il tempo reale entro il quale prendono corpo le 1257 pagine del romanzo si dispiega biblicamente lungo l’arco temporale della creazione, sette giorni, nel corso dei quali le peripezie fisiche e mentali vissute da ‘Ndrja assumono il valore di un’esperienza conoscitiva, che avrà la sua acme nell’incontro con un vecchio «spiaggiatore», «linguto e occhiuto». A lui lo scrittore affida di esporre la sua teoria della conoscenza della vita, fondata su tre diversi gradi: l’ingannevole e infondato «sentitodire», il solido e concreto «vistocogliocchi» e l’immaginifico e fantastico «visto cogli occhi della mente»: «Voi, amico del sole, vi dovete immaginare di vedere…». Allora, se vedi con gli occhi della mente tutto diventa possibile, le distanze tra lingue e culture si annullano e quella lingua di mare dello «scill’e cariddi» è sì Calabria e Sicilia, ma è anche Grecia, Africa, mille e una notte. Tutto diventa possibile perché l’«andamento epico-magico» (M. Corti) della scrittura di D’Arrigo attiva un fervore espressivo che gioca sulla sovrapposizione dei registri stilistici e sulla contaminazione espressionistica di lingua e dialetto. È necessaria una nuova lingua per dire l’indicibile, per raccontare il tempo impastato della storia dell’uomo, anche a rischio che essa diventi un labirinto per il lettore, che deve cercare in vocabolari immaginari o nella memoria di lingue ignote il senso delle parole che il racconto fa fiorire per gemmazione. D’Arrigo è un narratore lirico. L’ultima conferma è nelle parole che chiudono il romanzo: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Parole che riecheggiano simbolicamente i versi epici di una sua più antica poesia, dove il destino del personaggio si conclude oniricamente nello stesso mare in cui ‘Ndrja avrebbe trovato la morte:

«Qui, dove m’assomiglio, in patria,
sui prati, ora in cenere, d’Omero,
io da una guerra reduce, e da quante
un gran figlio mi ricorda mia madre,
perduto con lo scudo o sullo scudo,
desidero tornare spalla a spalla
coi miei amici marinai che vanno
sempre più dentro nei versi, nel mare».
(Sui prati, ora in cenere, d’Omero)

Commento di Gianfranco Crupi

Dicono del libro
“Horcynus Orca è un mitico e epico poema della metamorfosi. La concezione del mondo come metamorfosi affonda le sue radici nella religiosità mediterranea… Per questo D’Arrigo ha potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell’Ulisse, un tema mitico: perché in un’età in cui il mito dominante è quello di dissolvere i miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile della loro perdita può essere il tema della tragedia. (Giuseppe Pontiggia)”
(Dalla scheda dell’ed. Rizzoli nel sito ibs)

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14 Agosto

14 agosto 2024

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Il generale tirò fuori la lettera, lisciò con cura il foglio di carta e sotto la luce forte, con gli occhiali sul naso, lesse ancora una volta quelle brevi righe ben allineate, vergate con una grafia appuntita. Intrecciò le mani dietro la schiena e proseguì la lettura. Sul muro c’era un calendario con cifre grandi come pugni. Quattordici agosto. Il generale rovesciò la testa all’indietro e si mise a contare. Quattordici agosto. Due luglio. Calcolava il tempo trascorso tra un giorno remoto e il giorno presente. Quarantun anni, disse infine a fior di labbra

Sándor Márai, Le braci, 1942, tr. it. M. d’Alessandro, Adelphi, 1998, p. 13

Dicono del libro

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23 Luglio

23 luglio 2024

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La mattina del 23 luglio 1989, una domenica, mi trovavo all’Hotel Terminus di Lione nei pressi della stazione ferroviaria Perrache, in una camera che si affacciava direttamente sui binari. Oltre la ferrovia, in una breccia tra i fili dei treni e i caseggiati, il verde degli alberi, limpidissimo, lasciava intuire che non molto lontano scorreva un fiume, la Saona, poco prima della sua confluenza nel Rodano; sopra le rotaie le rondini volavano davanti alla luna calante, bianca, che sembrava perforata dal blu del cielo e che pian piano andava ritirandosi, sforacchiata come una nuvola

Peter Handke, Epopea del baleno, 1990, tr. it. L. Salerno, Guanda, 1993, p. 41

Come un medium che ha la capacità di mettere in contatto il passato con il presente, il narratore registra un’impressione avuta durante un soggiorno all’Hotel Terminus, nella città di Lione, la mattina del 23 luglio 1989. In stazione passano dei ferrovieri, arriva un treno merci; in cielo volano rondini; è una mattina calma e luminosa di piena estate. Eppure qualcosa lo inquieta, come se da quel luogo arrivasse un segnale. In un istante in cui la scena sembra ferma, si rende conto che l’albergo dove si trova è stato la sede del comando nazista durante la guerra. C’è stato un altro giorno come quello odierno – pensa l’osservatore del 23 luglio – in cui però la stazione, il cielo, le rondini sono state la scena di una tragedia, che si riesce ancora a captare attraverso gli strati del tempo.

 

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20 Luglio | 20 juillet

20 luglio 2024

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Le 20 juillet 1936, vers trois heures de l’après-midi, l’autocar nous avait déposés tous deux à proximité d’une petite plage des environs de Lorient: le Fort-Bloqué. Nous n’avions pas choisi de nous rendre là plutôt qu’ailleurs: le premier départ de voiture avait été le notre. Le temps continuait à être “menaçant” comme depuis notre arrivée en Bretagne, aux jours de tempête et de pluie près. Moins d’une semaine plus tôt nous nous étions déjà laissé porter vers cet endroit de la côte où ne semblaient guère, dans de telles conditions, devoir s’aventurer que nous. (…)
C’était donc comme si, le 20 juillet, ce mur ce fût montré pour moi transparent. Le ruisseau était le même. Une plaque gravée se bornait à évoquer l’activité du fort. “ Fort du Loch 1746-1862”

André Breton, L’Amour fou, 1937 

 

Il 20 luglio 1936, verso le tre del pomeriggio, l’autocarro ci aveva lasciati tutti e due in prossimità di una piccola spiaggia intorno a Lorient: il Fort-Bloqué. Non avevamo scelto di andare là piuttosto che altrove: avevamo preso la prima corsa. Il tempo era ‘minaccioso’, come sempre dal nostro arrivo in Bretagna, a parte i giorni di pioggia e di tempesta. Meno di una settimana prima ci eravamo già lasciati portare verso quel punto della costa dove pareva che, in tali condizioni, fossimo i soli a volerci avventurare (…)
Era dunque come se, il 20 luglio, quel muro si fosse mostrato, per me, trasparente. Il ruscello giallo era lo stesso. Una targhetta incisa si limitava a evocare l’attività del forte: ‘Forte del Loch 1746-1862’

André Breton, L’amour fou, 1937, tr. it. F. Albertazzi, Einaudi, 1974, p. 120-21, 133

Un pomeriggio estivo su una spiaggia bretone dove, guardando bene, si può trovare un osso di seppia, un legnetto colorato, una scatola di caramelle alla violetta, un piccolo scheletro di granchio, mentre il sole – che non si vede per via del maltempo – è nel segno del Cancro. Il 20 luglio del 1936, l’autore del libro percorre, insieme con una donna, quel tratto di costa; i due sono arrivati lì per caso e senza meta e quello che li attende – via via che si avvicinano a un fortino abbandonato – è una strana avventura, come se fossero attratti in una atmosfera misteriosa e perturbante che diminuisce quando si allontanano dall’edificio. Tornati a casa, vengono a sapere che il luogo è stato teatro – tempo prima – di un fatto di cronaca nera. Questa e altre circostanze si collegano fra loro – come i relitti sulla spiaggia – dando la loro impronta alla data del 20 luglio, una giornata trovata, nel tempo.

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10 Aprile | 10 Avril

10 aprile 2024

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Le 10 avril 1934, en plein occultation de Venus par la lune (ce phénomène ne devait produire qu’une sule  pois dans l’annue , je déjeunais dans un petit restaurant situé assez désagréablement à côté d’un cimitière. Il faut, pour s’y rendre, passer sans enthousiasme devant plusieurs étalages de fleurs. (…) La servant est assez jolie; poétique plutôt. Le 10 avril 1934, elle portait, sur un col blanc à pois espacés rouge fort en harmonie avec sa robe noire une très fine chaîne retenant trois gouttes claires, gouttes rondes sur lesquelles se détachait à la base un croissant de même substance pareillement serti. J’apprécia une fois de plus, infiniment, la coïncidence de ce bijou et de cette éclipse.

 

André Breton, L’Amour fou, 1937


Il 10 aprile 1934, in piena “occultazione” di Venere ad opera della luna (il fenomeno doveva verificarsi soltanto una volta all’anno), pranzavo in un piccolo ristorante situato spiacevolmente vicino all’ingresso di un cimitero. Per andarci, bisogna passare senza entusiasmo davanti a diversi chioschi di fiori. Quel giorno, per di più, un orologio murale privato del suo quadrante costituiva ai miei occhi uno spettacolo non proprio di buona lega. Ma osservavo, non avendo di meglio da fare, la vita suggestiva di quel luogo (…) La cameriera è graziosa; poetica, direi. Il mattino del 10 aprile portava, su di un colletto bianco a palline rosse, diradate, molto intonate al suo vestito nero, una sottilissima catenella cui erano fissate tre gocce chiare come di pietra lunare, gocce rotonde sulle quali si staccava alla base una mezzaluna della stessa sostanza, similmente incastonata. Apprezzai una volta di più, infinitamente, la coincidenza tra il gioiello e quella eclissi

André Breton, L’amour fou, 1937, tr. it. F. Albertazzi, Einaudi, 1974, p. 17, p. 20

In questo testo di Breton – che è un po’ diario, un po’ racconto, un po’ trattato sull’amore, l’arte, la bellezza –  le date segnate dall’autore risaltano come dei personaggi. Il ristorante, il cimitero, l’orologio, la cameriera, il gioiello, la posizione della luna nel cielo, le parole ascoltate per caso il 10 aprile del 1934: tutto è messo in relazione secondo codici personali, magici e poetici, che fanno di quel giorno un tutt’uno con la vita che vi è accaduta e ne lasciano un ritratto a più dimensioni. 

 

Dicono del libro

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