16 Dicembre |16th day of December

16 dicembre 2024

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That for six thousand years—and no one knows how many millions of ages before—the great whales should have been spouting all over the sea, and sprinkling and mistifying the gardens of the deep, as with so many sprinkling or mistifying pots; and that for some centuries back, thousands of hunters should have been close by the fountain of the whale, watching these sprinklings and spoutings—that all this should be, and yet, that down to this blessed minute (fifteen and a quarter minutes past one o’clock P.M. of this sixteenth day of December, A.D. 1851), it should still remain a problem, whether these spoutings are, after all, really water, or nothing but vapour—this is surely a noteworthy thing.

Herman Melville, Moby-Dick; or, The Whale, 1851

Che per seimila anni, e nessuno sa per quanti milioni di secoli prima, le grandi balene abbiano continuato a sfiatare su tutto il mare e a spruzzare e vaporare i giardini dell’abisso come tanti annaffiatoi e vaporizzatori, e che per qualche secolo passato migliaia di cacciatori siano stati vicinissimi alla fontana della balena a osservarne gli spruzzi e le sfiatate:  che tutto questo sia avvenuto e, intanto, fino a questo benedetto minuto (l’una e quindici primi e un quarto di secondi pomeridiani del 16 dicembre, A. D. 1851) permanga ancora un mistero se queste sfiatate sono, dopo tutto, davvero acqua o nulla più che vapore, è certo una cosa notevole

Herman Melville, Moby Dick o la Balena, 1851, tr. it. C. Pavese, ed. cons. Adelphi, 1994, p. 395

La lotta ingaggiata dal capitano Achab con la balena bianca, che gli ha strappato una gamba, è una resa dei conti fra titani: da una parte il baleniere mutilato, dall’altra un enorme cetaceo, Moby Dick, dalla forza formidabile. Tutto quello che riguarda le balene è epico, nel racconto che di questa lotta fa il marinaio Ismaele, imbarcato sulla baleniera di Achab, il Pequod. Le lance, gli attrezzi, gli uomini, i rituali della caccia, le leggende. Capitolo dopo capitolo, Ismaele illustra le abitudini e il carattere dei branchi e descrive il grande corpo dell’animale in tutti i dettagli. La fontana,  cioè  lo spruzzo che i cetacei emettono dallo “sfiatatoio” in cima alla testa, è l’oggetto di questa pagina. Siamo introdotti nell’apparato respiratorio della balena, nelle credenze dei marinai che temono il contatto con la “sfiatata”, nell’immagine dell’animale che “naviga solenne in un calmo mare tropicale, col capo enorme e dolce sovrastato da un baldacchino di vapori, originati dalle sue contemplazioni inesprimibili”. È un 16 dicembre, mentre Ismaele riflette sulla sfiatata delle balene ed era dicembre anche all’inizio della narrazione, quando lo stesso Ismaele aveva trovato alloggio allo “Spouter-Inn”, la Locanda dello Sfiatatoio.

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25 Agosto | 25 de agosto

25 agosto 2024

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― Qué raro – decía – somos dos y somos el mismo. Pero nada es raro en los sueños.
Pregunté asustado:
― Entonces, todo esto es un sueño? ― Es, estoy seguro, mi último sueño. Con la mano mostró el frasco vacío sobre el mármol de la mesa de luz.
― Vos tendrás mucho que sonar, sin embargo, antes de llegar a esta noche. En qué fecha estás?
― No sé muy bien – le dije aturdido –. Pero ayer cumplí sesenta y un años.
― Cuando tu vigilia llegue a esta noche, habrás cumplido, ayer, ochenta y quatro. Hoy estamos a 25 de agosto de 1983.
― Tantos años habrá que esperar – murmuré.

Jorge Luis Borges, Veinticinco de agosto 1983, 1977

“Che strano” diceva, “siamo due e siamo la stessa persona. Ma nulla è strano nei sogni. “
Chiesi sgomento: “Allora, tutto questo è un sogno?”
Con la mano mostrò il flacone vuoto sul marmo del comodino.
“Tu avrai molto da sognare, però, prima di giungere a questa notte. In che data sei?”
“Non saprei con precisione” gli dissi confuso, “Ma ieri ho compiuto sessantun anni.”
“Quando la tua veglia arriverà a questa notte, ne avrai compiuti ieri ottantaquattro. Oggi è il 25 agosto 1983.”
“Tanti anni bisognerà aspettare” mormorai

Jorge Luis Borges, 25 agosto 1983, 1977, tr. it. G. Guadalupi, Franco Maria Ricci, 1980, ora anche in Tutte le opere, I Meridiani Mondadori, 1985, vol. II, p. 1122

Uno sdoppiamento del tempo (e del sogno) mette accanto due date: il 25 agosto del 1960 che è il presente del viaggiatore sessantunenne che entra nell’Hotel Las Delicias del paese di Adrogué e il 25 agosto del 1983, che è il presente del vecchio che il viaggiatore trova nella stanza 19. Hanno lo stesso nome e si somigliano, sono la stessa persona – lo scrittore Borges – presente contemporaneamente in due tempi diversi, che entrano in contatto. Nel dialogo fra i due personaggi, lo scrittore fa riferimento al suo giorno effettivo di nascita, il 24 agosto: “ieri”, rispetto alla data del 25, in cui il racconto si svolge.

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16 Agosto

16 agosto 2024

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– Vuoi dire di Elvis Presley in persona?
– Sì, ho lavorato con lui per una decina di giorni, durante le riprese di un film in Messico.
(…)
– Senti, ma quanti anni hai, allora, se hai lavorato niente meno che con il Re? È morto da moltissimi anni, no? Cinquanta? – Mi scappava ancora da ridere, fui in grado di trattenermi per fortuna.
Notai subito che stava recuperando un po’ della sua civetteria. Mi sgridò ancora, per prima cosa.
– Non esagerare. Il prossimo 16 agosto saranno trentaquattro, credo. Non credo di più –

Javier Marías, Gli innamoramenti, 2011, tr. it. G. Felici, Einaudi, 2012, pp. 292, 293

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11 Luglio

11 luglio 2024

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Ai primi di luglio si diffusero, a Mosca, voci sempre più allarmanti sull’andamento della guerra: si parlava del proclama dell’imperatore al popolo, dell’arrivo a Mosca dal fronte del sovrano in persona. Ma siccome fino all’11 luglio non erano giunti né il manifesto né il proclama, su di essi e sulla situazione della Russia correvano voci esagerate. Si diceva che l’imperatore partiva perché l’esercito era in pericolo; che Smolensk era stata abbandonata, che Napoleone aveva un milione di soldati e che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare la Russia.
L’11 luglio, un sabato, giunse il manifesto

Lev Tolstoj, Guerra e pace, 1867-69, tr. it. P. Zveteremich, ed. cons. Garzanti 1985, III, p. 995

Nel giugno del 1812, Napoleone con il suo esercito ha varcato i confini dell’impero russo, mentre lo zar Alessandro è a Vilnius. È l’inizio della guerra, le cui cause – argomenta Tolstoj – formano una catena lunghissima e intricata e i cui effetti saranno altrettanti complessi per la vita dei singoli e dei popoli, la cui storia è narrata nelle migliaia di pagine di Guerra e pace. Appena Napoleone varca la frontiera, ha inizio uno scambio di messaggi diplomatici, che non riesce a fermare la guerra. A Mosca si attendono notizie e intanto viene luglio, per il calendario gregoriano, in vigore in gran parte dei paesi europei dalla fine del ‘500, e per il calendario giuliano, ancora in uso nella Russia zarista, con uno scarto di una decina di giorni. L’11 luglio è un giorno dell’anno 1812, l’anno della cometa, la cui estate fu ”caratterizzata da continui nubifragi” e dallo spostamento di masse di uomini da occidente a oriente, dalla Francia a Mosca, che avrebbe sopportato un incendio e visto la ritirata delle truppe francesi.

 

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27 Marzo

27 marzo 2024

 

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Alle cinque e tre quarti del mattino eravamo ancora lì, dentro la mia Seicento multipla con i vetri appannati. Era il giorno 27 di marzo amoroso e ventoso di quell’anno là e il sole sorgeva esattamente alle sei e otto minuti. Era il giorno di San Giovanni Damasceno e di Santa Augusta Vergine, secondo mattutino delle tenebre, come dice il Barbanera. Quando aprii gli occhi (io bacio sempre a occhi chiusi) intorno a noi non c’era più nessuno, erano scomparse tutte le macchine, c’erano soltanto due poliziotti a cavallo. Gli uccelli si erano svegliati e cinguettavano a testa alta sui rami degli alberi, altri volteggiavano nell’aria come impazziti per la luce del giorno che stava spuntando mentre si spegnevano i lampioni comunali. Baciare è un’arte.
Un passero era venuto a posarsi sul cofano della macchina, poi era ripartito per un breve volo intorno al monumento di Garibaldi, l’Eroe del nostro Risorgimento. A rigore si può dire che per tutta la notte io e Miriam ci eravamo dati un solo lunghissimo bacio

Luigi Malerba, Il serpente, 1966, Mondadori, 1989, p. 57

 Arrivato a Roma da Parma, il narratore di questa storia gestisce un negozio di francobolli in via Arenula; sostiene di essere sposato e, a un certo punto, si trova a frequentare una scuola di canto, dove conosce una ragazza, che presenta ai lettori come Miriam. Con Miriam ha inizio una relazione, che si carica a mano a mano di gelosia rivolta non solo al presente, ma anche al passato. L’ossessione porta l’uomo ad avvelenare la donna e a mangiarne il corpo, o almeno questo è ciò che egli racconta al commissario e ai lettori. Fra tanti depistaggi, menzogne, ritrattazioni che costellano questo romanzo, la data del primo lungo bacio fra l’uomo e Miriam – al Gianicolo – sembra essere un punto d’appoggio. È il 27 marzo “di quell’anno là”. Un giorno individuato dall’ora della levata del sole, dai santi e da un rito che ha luogo durante la settimana di Pasqua. Un giorno trovato nell’Almanacco Barbanera del 1964.

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“Un uomo maniacalmente geloso della sua amante la uccide, quindi ne divora il cadavere e si autodenuncia: a un livello superficiale, Il serpente di Malerba lo si potrebbe riassumere così. Ma ben altra è la natura profonda, l’assoluta originalità del romanzo. Non soltanto alla lunga confessione dell’uomo si alternano – inquietante controcanto – astratte, folgoranti divagazioni/esortazioni affatto estranee alla ‘trama’ (…) ma il lettore non tarda ad apprendere dallo stesso Io narrante che egli mente, così che l’intera narrazione annulla in qualche modo se stessa”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

 

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Il cielo futuro di Boetti

“È un cielo ideale, sognato e immaginario. Un giorno sarà possibile. Gli aerei non saranno più pilotati da uomini ma da robot e tutto sarà calcolato. Fra qualche anno, la mia opera sarà la vera rappresentazione del cielo!”
Così Alighiero Boetti parlava alla figlia Agata – che riporta la conversazione nel libro Il gioco dell’arte. Con mio padre Alighiero (Electa 2016) – a proposito dei disegni  del padre che raffigurano gli Aerei, realizzati con la penna a biro blu su carta e carta intelata alla fine degli anni ’70. Alle paure della figlia bambina che i velivoli potessero scontrarsi, l’artista opponeva la previsione di una rete di controllo perfetta, o quasi.
E i suoi cieli blu, dove trovano posto, come in un inventario, i modelli di aerei in dotazione in quegli anni.

“I miei sono veri aerei che esistono e volano ogni giorno! vanno dappertutto, in ogni direzione e viaggiano nel mondo intero”.

Attualmente, diversi sistemi di tracciamento aereo consentono di visualizzare i voli in tempo reale (nella foto una schermata tratta da Flightaware) e di conoscere – come sognava Boetti – le caratteristiche e la posizione di ogni singolo velivolo in tempo reale e contemporaneamente. 
(a.s.)

 

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo

In questo post, Roberta Aureli coglie una ‘felice coincidenza’ tra la Serie di merli disposti a intervalli regolari lungo gli spalti di una muraglia di Alighiero Boetti (1971-1993, Roma, Collezione Matteo Boetti) e il racconto di Dino Buzzati I sette messaggeri (1939; poi 1942, Mondadori) e la racconta dalla prospettiva di un tempo concreto che lavora come una vera forza creatrice.

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo, di Roberta Aureli
La Serie di merli di Alighiero Boetti consta di una bacheca di plexiglas fissata alla parete in cui sono contenuti 13 telegrammi ordinati uno accanto all’altro cronologicamente. Il titolo, ironico e poetico allo stesso tempo, allude al fatto che la sequenza dei telegrammi ricorda la merlatura posta a coronamento delle mura o delle torri nell’architettura medievale. Il primo è stato spedito da Boetti al gallerista Gian Enzo Sperone il 4 maggio 1971 e reca il messaggio “due giorni fa era il 2 maggio 1971”; il secondo è del 6 maggio e vi si legge “quattro giorni fa era il 2 maggio 1971”. È un messaggio con un contenuto informativo ridotto e la scelta della data è del tutto arbitraria, “com’è sempre l’inizio del gioco”, ha scritto Anne-Marie Sauzeau, “il due maggio 1971, chiamato oggi“. Il gioco prosegue raddoppiando i giorni trascorsi da quella data di partenza: nel terzo telegramma sono 8, poi diventano 16, 32, 64 e così via fino a quando in occasione del tredicesimo telegramma, spedito il 5 ottobre 1993, si arriva a “ottomilacentonovantadue giorni fa”.

Serie di merli 2Boetti, consapevole che con i multipli di 2 il tempo trascorso tra un invio e l’altro sarebbe aumentato vertiginosamente (come nella storia della scacchiera e dei chicchi di riso), dirà che “si può benissimo arrivare a numeri colossali, questa serie del raddoppio è impraticabile; perché, sia come potenza di due o potenza di due miliardi, ha la stessa accelerazione, dopo un attimo dalla partenza, che è più lenta, l’accelerazione è fortissima”.
Uno sguardo più accorto alla bacheca ci fa rendere conto dello spazio rimasto vuoto nel margine destro, dove Boetti aveva pensato di inserire il quattordicesimo e ultimo telegramma programmato per il 2017: i giorni trascorsi dal 2 maggio 1971 sarebbero stati allora 16384 e l’artista torinese avrebbe avuto settantasette anni. Come è noto, invece, è scomparso il 24 aprile 1994 lasciando l’opera irrimediabilmente incompiuta.
boetti_BuzzatiEd è a questo punto che la Serie di merli presenta un curioso collegamento con un racconto di Buzzati. Nei Sette messaggeri si racconta in prima persona la storia di un principe partito per esplorare il regno di suo padre fino ai più remoti confini. Per mantenere i contatti durante il viaggio, decide di farsi accompagnare dai sette migliori cavalieri ai quali affida il compito di riferire alla corte i suoi messaggi. Impone loro dei nomi – Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio – e già il giorno seguente ordina al primo di tornare indietro, via via seguendo un ordine alfabeticamente progressivo. Non passa molto tempo, però, ed egli si accorge che più si allontana da casa, più si dilata l’intervallo tra l’arrivo di due messaggeri, dovendo questi coprire la distanza tra l’accampamento e la capitale e poi tornare indietro, fino a raggiungere di nuovo il principe che nel frattempo avrà proseguito il cammino. Quando sono passati più di otto anni, il principe ci riferisce che Domenico, benché appena tornato e ancora stravolto dalla fatica, ripartirà l’indomani con l’ultima lettera: ultima perché, secondo i calcoli, soltanto dopo trentaquattro anni egli raggiungerà nuovamente il principe, il quale allora ne avrà settantadue. Non ci sarà tempo per un altro messaggio e forse, confessa il narratore ormai debole e stanco, egli non riuscirà nemmeno a leggere la risposta che gli verrà trasmessa allora. Dopo aver rapidamente chiarito il suo ruolo e la sua missione, il principe racconta: “Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino”, racconta.

È una ‘felice coincidenza’ il fatto che Boetti (nato il 16 dicembre 1940) avesse anch’egli poco più che trent’anni al tempo del primo telegramma. Ecco il calcolo che il principe fa: “Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi”. Ma “dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente”, fino a quando “trascorsi che furono sei mesi […] l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi”. Se leggiamo le date di invio dei telegrammi, ci rendiamo facilmente conto di questa dilatazione temporale: i primi sette sono stati inviati tutti nel 1971, quattro dei quali entro lo stesso mese di maggio, poi gli intervalli diventano a poco a poco più lunghi. Ovviamente nel lavoro di Boetti i silenzi non sono dovuti alla naturale lentezza dell’uomo in cammino e nemmeno ai ritardi del sistema postale, bensì sono il risultato di una precisa operazione matematica che li presupponeva sin dall’inizio.

Telegramma 3Come nella Serie di merli i segni del tempo si rendono manifesti grazie al progressivo degrado del materiale (i telegrammi sono ingialliti, la colla ha macchiato la carta, l’inchiostro dei timbri è quasi sbiadito), così dal racconto del principe sappiamo appunto che “le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava” e che “mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire”.

“I più recenti messaggi”, prosegue il principe, “mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare”. Se consideriamo l’arco temporale che separa il primo telegramma dall’ultimo, è facile constatare quante cose fossero davvero cambiate nel mondo in ventidue anni: era mutata la situazione in Afghanistan, l’amato Paese meta di tanti viaggi dove, in conseguenza dell’invasione sovietica del 1979, Boetti non sarebbe più potuto tornare. La caduta simbolica del Muro di Berlino aveva avuto come risultato la disgregazione dei due blocchi che per anni erano stati ideologicamente contrapposti e che le Mappe, con l’immediatezza del loro pattern cromatico, avevano saputo rendere evidenti. E, ancora, è nell’anno dell’ultimo telegramma che viene resa pubblica quella tecnologia alla base del World Wide Web che avrebbe cambiato per sempre la comunicazione tra due punti del mondo (lungo il bordo di una mappa del 1979 Boetti aveva fatto profeticamente ricamare: “annullando le distanze tra Roma e Kabul”).

“Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani”, continua il principe. Per illustrare come il popolo afghano avesse, all’epoca dei loro viaggi, una conoscenza della geografia circoscritta alla dimensione territoriale, Anne-Marie Sauzeau ha riferito questo aneddoto: “Per gli Afghani esiste persino un equivalente della carta geografica nel corpo umano, nella mano: per spiegarvi la strada […] un afghano, anche un ragazzino, chiuderà quattro dita sul palmo destro tenendo il pollice teso […] e lì, sull’interno della propria mano rivolta verso l’interlocutore, traccerà la pista con l’indice sinistro, suggerendo tappe e distanze, in ore, mai in chilometri”. Se è vero che Buzzati situa la sua narrazione in un area non geograficamente determinata – parla di praterie, boschi, deserti ma, eccezion fatta per la remota capitale senza nome, non di città -, è interessante il fatto che il suo principe misuri non quanta strada ha percorso ma quanto tempo è passato da quando si è messo in cammino.

Arriviamo così alla consapevolezza finale: “Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico. […] Da quasi sette anni non lo rivedevo. […] Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere”. Il principe buzzatiano teme dunque per la propria vita e sa con certezza che la sua impresa sarà destinata a fallire: “Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto”.

Roberta Aureli (leggi altri post sul Tempo di Roberta Aureli su Play Chess with Marcel)

Immagini tratte dal catalogo generale dell’opera di Alighiero Boetti, a cura di  J.C. Amman, vol. I, Electa, Milano 2009

 

27 Marzo

27 marzo 2015

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Alle cinque e tre quarti del mattino eravamo ancora lì, dentro la mia Seicento multipla con i vetri appannati. Era il giorno 27 di marzo amoroso e ventoso di quell’anno là e il sole sorgeva esattamente alle sei e otto minuti. Era il giorno di San Giovanni Damasceno e di Santa Augusta Vergine, secondo mattutino delle tenebre, come dice il Barbanera. Quando aprii gli occhi (io bacio sempre a occhi chiusi) intorno a noi non c’era più nessuno, erano scomparse tutte le macchine, c’erano soltanto due poliziotti a cavallo. Gli uccelli si erano svegliati e cinguettavano a testa alta sui rami degli alberi, altri volteggiavano nell’aria come impazziti per la luce del giorno che stava spuntando mentre si spegnevano i lampioni comunali. Baciare è un’arte.
Un passero era venuto a posarsi sul cofano della macchina, poi era ripartito per un breve volo intorno al monumento di Garibaldi, l’Eroe del nostro Risorgimento. A rigore si può dire che per tutta la notte io e Miriam ci eravamo dati un solo lunghissimo bacio

Luigi Malerba, Il serpente, 1966, Mondadori, 1989, p. 57

 Arrivato a Roma da Parma, il narratore di questa storia gestisce un negozio di francobolli in via Arenula; sostiene di essere sposato e, a un certo punto, si trova a frequentare una scuola di canto, dove conosce una ragazza, che presenta ai lettori come Miriam. Con Miriam ha inizio una relazione, che si carica a mano a mano di gelosia rivolta non solo al presente, ma anche al passato. L’ossessione porta l’uomo ad avvelenare la donna e a mangiarne il corpo, o almeno questo è ciò che egli racconta al commissario e ai lettori. Fra tanti depistaggi, menzogne, ritrattazioni che costellano questo romanzo, la data del primo lungo bacio fra l’uomo e Miriam – al Gianicolo – sembra essere un punto d’appoggio. È il 27 marzo “di quell’anno là”. Un giorno individuato dall’ora della levata del sole, dai santi e da un rito che ha luogo durante la settimana di Pasqua. Un giorno trovato nell’Almanacco Barbanera del 1964.

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19 Gennaio

19 gennaio 2015

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E così fu deciso. Lasciai la scuola a Natale e il 19 gennaio, giorno del mio compleanno, circa un anno dopo che Konradin era entrato nella mia vita, partii per l’America. Prima della partenza ricevetti due lettere. La prima, in versi, era il prodotto degli sforzi congiunti di Bollacher e di Schulz: 
Piccolo Yid – vogliamo dirti addio / che tu raggiunga all’inferno i senzadio / Piccolo Yid – ma dove te ne andrai? / Nel paese da cui non si torna giammai? / Piccolo Yid – non farti più vedere / se vuoi crepare con le ossa intere.
La seconda invece, diceva:

Mio caro Hans, questa è una lettera difficile. Prima di tutto voglio dirti quanto mi dispiaccia che tu stia per partire per l’America. Non dev’essere facile per te, che ami tanto la Germania, ricominciare una nuova vita in un paese con cui né io né te abbiamo niente in comune e mi immagino l’amarezza e l’infelicità che devi provare. Tuttavia, questa è la soluzione più saggia, date le circostanze

Fred Uhlman, L’amico ritrovato, 1971, tr. it. M. Castagnone, Feltrinelli 1986, p. 83

La data del 19 gennaio segna la fine di una fase felice della vita di Hans, giovane studente ebreo, mandato dalla famiglia negli Stati Uniti per salvarsi dalle persecuzioni naziste incombenti. È la data della partenza, che lo allontana dall’amico Konradin (l’amico che “ritroverà”, in un modo inaspettato e toccante alla fine del racconto); è la data del suo compleanno ed  è anche la data di nascita dello scrittore Fred Uhlman, nato a Stoccarda il 19 gennaio del 1901. 

Dicono del libro
“Due ragazzi sedicenni frequentano la stessa scuola esclusiva. L’uno è figlio di un medico ebreo, l’altro è di ricca famiglia aristocratica. Tra loro nasce un’amicizia del cuore, un’intesa perfetta e magica. Un anno dopo, il loro legame è spezzato. Questo accade in Germani, nel 1933… Racconto di straordinaria finezza e suggestione, L’amico ritrovato è apparso nel 1971 negli Stati Uniti”
(dalla quarta di copertina delled. Feltrinelli, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

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“…Le cinque erano appena suonate, quel mattino del 19 gennaio, quando Bessie entrò con una candela…”
Charlotte Brontë, Jane Eyre

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“… Così fino al diciannove gennaio. Fu una di quelle giornate di Buenos Aires in cui l’uomo si sente non soltanto maltrattato e oltraggiato dall’estate…”
Jorge Luis Borges, There are more things. Il libro di sabbia

pittura
“Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969”
Alighiero Boetti

27 marzo 1970

Durante una performance di cui resta una foto di Paolo Mussat Sartor, l’artista Alighiero Boetti scrive simultaneamente con entrambe le mani una frase che risulta alla fine raddoppiata in modo speculare, dal centro verso destra e verso sinistra.

27 marzoLa frase  indica la data per esteso, con i numeri scritti in lettere: Oggi è venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta.  Il tema del tempo si coniuga in quest’opera con il tema del raddoppio; dello specchio;  della polarità destra-sinistra / scrivere-disegnare; dello scambio fra lettere e cifre.
Dalla foto sembra che la scritta potrebbe continuare con l’indicazione dell’ora, ma le braccia hanno raggiunto il limite della loro estensione. Come fa notare Claudio Zambianchi,  in questa azione c’è anche l’eco di un pensiero di Willem de Kooning “If I stretch my arms and wonder where my fingers are – that is all the space I need as a painter”.
Boetti ha trattato le date come protagoniste in tante opere, e in una intervista con Mirella Bandini ha espresso il suo pensiero sulla loro bellezza, visibile solo a lunga distanza:  “Le date? Sai perché sono molto importanti? Perché se tu scrivi ad esempio su un muro ‘1970’ sembra niente, ma tra trenta anni… Ogni giorno che passa questa data diventa più bella, è il tempo che lavora. Le date hanno proprio questa bellezza, più passa il tempo e più divengono belle” (intervista con M. Bandini, 1972, in catalogo Boetti 1965-1994, Mazzotta 1996, p. 200).
La scrittura simultanea di Oggi è venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta costringe Boetti ad allargare le braccia, in una figura che fa pensare all’uomo vitruviano e al crocifisso, alla misura dello spazio e al sacrificio. Il 27 marzo del 1970 era il Venerdì Santo.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Boetti: “le date … più passa il tempo e più divengono belle”

Boetti

“… un giorno disposto segretamente e invisibile tra tutti gli altri giorni dell’anno, che non segnalava la propria presenza quando di anno in anno passava sopra di lei, ma non per questo era meno reale”. Nel romanzo di Thomas Hardy, Tess dei d’Urberville (1891), Tess, la straordinaria protagonista che “annotava filosoficamente le date”, riflette sul “giorno destinato a essere la sua fine nel tempo attraverso i secoli”. Di questa fine non immagina però  l’anno, il mese e il giorno, come avrebbe fatto invece l’artista Alighiero Boetti, che – al principio degli anni ’70 –  colloca la propria nell’11 luglio del 2023.
Tess riflette su un giorno che tornerà annualmente nella ciclicità di un tempo stagionale. Per Boetti, il tempo è una potenza che lavora in tutte le direzioni e il pensiero di un giorno nel futuro ne mette in moto l’energia. “Le date? Sai perché sono molto importanti? Perché se tu scrivi ad esempio su un muro ‘1970’ sembra niente, ma tra trenta anni… Ogni giorno che passa questa data diventa più bella, è il tempo che lavora. Le date hanno proprio questa bellezza, più passa il tempo e più divengono belle” (intervista con Mirella Bandini, 1972, in catalogo Boetti 1965-1994, Mazzotta 1996, p. 200).
Alla data dell’11 luglio 2023, Boetti accosta un altro giorno, più lontano ancora nel futuro, il suo centesimo compleanno, il 16 dicembre 2040.  Le due date si leggono su due lastre di ottone quadrate, incise in nero in uno stile commemorativo, e su due stoffe anch’esse quadrate, fatte ricamare a Kabul, dove le parole e i numeri sono disposti e intessuti fra fiori e foglie (1971, Boetti. Catalogo generale, Electa,vol. I, nn. 356, 357).
Annemarie Sauzeau – in Shaman showman Alighiero e Boetti – spiega come “l’11, con le due aste che sembrano il raddoppio speculare dell’uno e perciò un altro aspetto del 2, è stato la cifra di tutte le scommesse esistenziali di Alighiero, del suo moltiplicarsi: data delle partenze o degli incontri”. E il 16, giorno della sua nascita, è la cifra dei suoi quadrati magici, in cui dispone in righe verticali frasi di sedici lettere, in uno schema grafico e visivo che è anche ritmo sonoro e cadenza numerica. Coincidenza: se si scrivono in cifre, le due date – sommando i singoli numeri di cui ciascuna è composta: 1172023; 16122040 – danno come somma ancora il 16.
Sempre Annemarie Sauzeau coglie la commovente coerenza concettuale di un artista che ha due date di morte, quella reale e precoce nel 1994, e quella lanciata in un futuro che non è ancora arrivato, “lui che oscillava tra ‘dare tempo al tempo’ e ‘ammazzare il tempo’”. (Antonella Sbrilli @asbrilli)

Cosa segnano certi orologi

What day of the month is it_1907Nel settimo capitolo del libro di Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle Meraviglie, Alice si accorge del buffo orologio del Cappellaio: “Segna il giorno del mese e non segna le ore!”, in inglese “It tells the day of the month, and doesn’t tell what o’clock it is!”.
Allo stupore della bambina, il Cappellaio replica con un paradosso: Perché un orologio dovrebbe segnare le ore?  Forse che l’orologio di Alice segna (dice) che anno è?  L’anno – risponde a sua volta Alice – dura un sacco di tempo di seguito. Ma non è lo stesso tempo misurato dall’orologio del Cappellaio, ammesso che la parola misurare abbia un senso.
La porta principale da cui si entra nel Paese delle Meraviglie è proprio quella del Tempo, avverte Stefano Bartezzaghi nell’edizione Einaudi 2003, e nell’edizione di Alice annotata dal matematico Martin Gardner (tradotta in italiano da Longanesi nel 1971), i nonsense, le inversioni, gli orologi “strampalati”, le allusioni alle misure del tempo sono messe opportunamente in luce.
Un secolo dopo i paradossi di Lewis Carroll, l’artista Alighiero Boetti – che al tempo e all’impossibilità di misurare ciò che sembra scorrere ha dedicato opere straordinarie – ebbe l’idea di una serie di orologi annuali. Il quadrante riporta – al posto delle cifre delle ore 12, 3, 6, 9 – quelle dell’anno in corso. Il primo di questi orologi fu realizzato da una ditta milanese per il 1977 (Catalogo generale, II, n. 844): i quattro numeri 1, 9, 7, 7 sono posizionati in senso orario, così che la lettura convenzionale dell’orologio da polso è sospesa e sorpresa da questo scambio di misure.
Qualche anno prima, Boetti aveva cominciato a interessarsi allo scambio fra anno e giorni.
“Alla vigilia del 1974, poi sistematicamente all’avvicinarsi di ogni capodanno dal 1978 al 1994”, come racconta Annemarie Sauzeau in Shaman showman,  Boetti realizza dei calendari che riportano la cifra dell’anno che sta per arrivare, ottenuta usando i foglietti dei giorni di un calendario a blocchetto, quelli con il numero scritto in rosso su fondo bianco. Dei 365/366 giorni disponibili, ne sono scelti alcuni, con numeri (unità o decine) utili a comporre, a collage, la cifra dell’anno.
Sostituire, condensare, ricombinare: misure temporali di ordine diverso si scambiano di posto, innestandosi una nell’altra,  in un Wonderland dove il tempo che – come dice ancora Lewis Carroll – non sopporta di essere battuto, può essere almeno giocato. “A patto di non mettersi contro di lui -cosa che avviene piuttosto spesso – il tempo può far fare agli orologi tutto ciò che gli si chiede” (Catalogo Boetti. Quasi tutto, 2004, alla voce: Tempo)  (a.s.)