Sara Morawetz: Marte a Roma (il I giugno 2017)

Sara Morawetz si presenta come un’artista interdisciplinare che esplora le profonde connessioni fra ricerca scientifica e artistica. Di lei e dei suoi esperimenti sul tempo ha scritto su questo blog Roberta Aureli nell’articolo Un giorno su Marte. Il testo faceva riferimento in particolare a un’opera dell’artista di origine australiana, un’opera dal titolo How the Stars Stand, consistente in una performance dominata da un vincolo: dalle 9 del mattino del 15 luglio 2015 fino alle  18 del 21 agosto, l’artista ha organizzato le sue giornate e le sue notti sull’ora di Marte, sperimentando slittamenti e derive del tempo.
“I have been in another time – another place – somewhere in between Earth and Mars // awake and asleep… transitioning through thoughts – ideas – feelings in a real time that is entirely of my own creation…”, scrive l’artista a proposito di questo soggiorno straniante in un diverso trascorrere del ritmo sonno/veglia, luce/buio. 

Il I giugno 2017, in dialogo con Antonella Sbrilli e Roberta Aureli, Sara Morawetz racconta quella esperienza – ed altre azioni su e intorno al tempo – in un incontro pubblico presso il Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza (piazzale Aldo Moro, 5 – Facoltà di Lettere e Filosofia, aula 2 – ore 11).

(Immagine: two times//two watches Credit: Sara Morawetz/Instagram)

 

In Time, il tempo è denaro, di Roberta Aureli

“Il tempo è denaro”, recita il vecchio adagio, che ci ricorda quanto esso sia prezioso e quanto sia sciocco sprecarlo in occupazioni inutili. Ma se il suo senso non si esaurisse tutto qui? Se davvero, cioè, il tempo fosse la valuta di scambio in un mondo ipotetico? Alcuni artisti hanno provato ad andare oltre il semplice modo di dire, traducendolo visivamente: come Iván Argote, che ha sviluppato un’applicazione web per mostrare l’ora in tempo reale attraverso le cifre sulle banconote del dollaro (Time Is Money, 2009 http://thetimeismoney.com/). E mentre al Macro di Roma prosegue la mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea e al Centro Trevi di Bolzano (fino alla primavera del 2017) è possibile interagire con la mostra multimediale Tempo & denaro. Nel cerchio dell’arte, nemmeno la finzione cinematografica si è lasciata sfuggire la possibilità di immaginare le conseguenze estreme della correlazione tra i due termini.
In Time Niccol Aureli

In Time, film distopico del 2011 scritto e diretto da Andrew Niccol (già sceneggiatore di The Truman Show), racconta di un futuro prossimo nel quale i soldi sono aboliti e le necessità o i lussi si pagano col proprio tempo. Le persone sono geneticamente progettate per smettere di invecchiare a venticinque anni: da quel momento hanno un anno bonus a disposizione, terminato il quale diventerà essenziale guadagnarsi da vivere. Letteralmente. Sul braccio di ciascuno si attiverà, infatti, un conto alla rovescia per registrare i secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni – i secoli per i super ricchi – che gli restano. Un vero orologio biologico come conto bancario, inquietante nel suo somigliare al timer degli esplosivi e azzerato il quale l’individuo cesserà di vivere.

La storia inizia il giorno del compleanno della madre del protagonista Will. Lei, nell’aspetto sua bellissima coetanea, compie in realtà cinquant’anni, o venticinque anni per la venticinquesima volta. Il suo orologio dice che le restano a malapena tre giorni di risparmi: “La metà serve per l’affitto, 8 ore per l’elettricità e c’è la rata del prestito”, ricorda al figlio, al quale tuttavia non rinuncia a dare la paghetta, “30 minuti, così avrai un pranzo decente”. Tutto in questo mondo si paga con il tempo: 4 minuti per una tazza di caffè, 1 ora per un cartone di birra, 59 anni per la macchina di lusso che Will potrà acquistare nel corso della vicenda. Al casinò si puntano secoli, mentre fuori i poveri fanno la fila davanti alla Caritas del tempo per qualche spicciolo di ora in più. E poi, all’interno di città divise in “zone orarie”, veri e propri quartieri-ghetto ordinati per fasce di reddito, si muovono i Custodi del tempo (Timekeepers nella versione originale), corpo speciale della polizia incaricato di monitorarne gli spostamenti, e la gang malavitosa dei Minute Men, che vive rubandolo agli altri.

Questo meccanismo ha effetti sulle persone e sulla loro percezione del tempo, inevitabilmente diversa tra i ricchi e i poveri. Rispetto ai primi, che possono permettersi di non badare mai al proprio orologio e aspirano a vivere per oltre un secolo, i poveri di In Time hanno un tratto distintivo che li rende ovunque riconoscibili: sono abituati ad andare sempre di fretta, per risparmiare minuti preziosi negli spostamenti tra la casa il lavoro. Anche l’espressione “vivere alla giornata” assume un significato nuovo. Normalmente intesa come propensione a cogliere l’attimo accettando ciò che arriva senza fare programmi, nel film è la cruda realtà di molti indigenti che hanno davanti ventiquattr’ore appena, rinnovabili – se si ha fortuna – con qualche espediente.

Pur concentrandosi molto sugli elementi spettacolari dell’azione senza entrare nel vivo delle implicazioni sociali ed etiche, il film di Niccol fornisce qua e là spunti per riflettere sulla crescita demografica, sull’esaurimento delle risorse, sulle disuguaglianze sociali. Quello descritto è un sistema di “capitalismo darwiniano”, come spiega il banchiere Weis, uno dei personaggi con i quali Will finirà per scontrarsi. Non il più forte sopravvive in questa società, bensì il più ricco di tempo. Weis ha perfino scelto come combinazione della sua cassaforte la cifra 1221809, che altro non è se non la data di nascita di Charles Darwin, il 12 febbraio 1809.
Roberta Aureli
playchesswithmarcel

L’artista del Lunedì: Camille Henrot

Se dovessimo attribuire un colore a ogni giorno della settimana, quello del lunedì sarebbe probabilmente il blu. Lo cantavano i New Order nel loro singolo Blue Monday (1983) e lo ribadiva qualche anno dopo Robert Smith, voce dei The Cure: “I don’t care if Monday’s blue…” (da Friday I’m in Love, 1992). Certo, lui al venerdì si innamorava, perciò come poteva importargli di iniziare la settimana con il piede sbagliato? Qualora questi brani non bastassero a convincerci, conferma potremmo trovarla nel nome dato alla celebrazione del giorno più triste dell’anno: Blue Monday, appunto, fissata al terzo lunedì di gennaio sulla base di una finta equazione matematica che sfrutta la coincidenza di determinati fattori (il meteo, il salario, la distanza dal prossimo Natale, i propositi per il nuovo anno già abbandonati ecc.). Del resto, specialmente nel mondo anglosassone, il blu è il colore per eccellenza della tristezza, della malinconia, della sofferenza: blues erano i canti degli schiavi afroamericani…
Camille Henrot Aureli
Sebbene declinato in sfumature molto tenui, non è forse un caso che lo stesso colore sia predominante sulle pareti della Fondazione Memmo di Roma, affrescate dall’artista Camille Henrot (Parigi, 1978) in occasione di Monday, la sua personale d’esordio in Italia. L’esposizione, curata da Cloé Perrone e visitabile fino al 6 novembre 2016, riflette sul tempo come costruzione culturale che ci intrappola nella griglia del calendario settimanale: il lunedì, giorno della ripresa lavorativa, porta con sé un bagaglio di speranze, facili entusiasmi ma anche ansie e scadenze incombenti. Alternando affreschi in polvere di marmo e stucco a grandi sculture di bronzo, Henrot affronta il tema dando vita a una varietà di personaggi ibridi che incarnano quello stato di inconsolabile spleen che ci prende non appena realizziamo che una nuova settimana è alle porte. Viene quasi voglia di metterci a piangere come la figurina di A Long Face che si scioglie in lacrime e poi le raccoglie in due bicchieri già mezzi pieni.
“Monday, you can hold your head”, cantava ancora Smith: è lunedì, tutto ciò che puoi fare è startene con la testa tra le mani e aspettare che passi. Henrot sembra fargli eco con A Lie before Breakfast, l’immagine di una donna in poltrona infelice e pensierosa. Che sia una moderna Melencolia di Dürer impreparata ad affrontare gli appuntamenti segnati sull’agenda?
Nel 2013 Henrot presentava alla Biennale di Venezia Grosse Fatigue, opera premiata con il Leone d’argento. La fatica del titolo alludeva allo sforzo, vertiginoso e in fondo vano, di condensare in un video di tredici minuti l’intera storia dell’universo attraverso stratificazioni e salti tra teorie scientifiche e miti della creazione. Se quella sequenza di immagini trattava del tempo millenario dell’evoluzione e inevitabilmente si perdeva – mi si passi il gioco di parole – nella notte dei tempi, Monday mette in luce una percezione più umana del suo trascorrere: umana non solo perché è circoscritta al singolo giorno della settimana, ma anche perché è legata all’influenza che esso può avere sullo stato d’animo e quindi sulle nostre azioni più semplici. In mostra, su una piccola porzione di muro spicca una figura maschile a capo chino, intenta a sostenere con fatica sulle spalle un’enorme sfera blu. Benché non manchino le allusioni al mito di Atlante o a quello di Sisifo, in realtà il titolo A Dog’s Life rimette in gioco la nostra quotidianità riecheggiando alcuni comuni modi di dire: “che vita da cane”, oppure “lavorare come un cane”. La “grande fatica” stavolta è la nostra, a testa bassa davanti alla prospettiva di una settimana dura e piena di impegni.
Monday fa parte di un progetto espositivo più ampio che arriverà a comprendere i restanti giorni della settimana e sarà ultimato per la personale di Camille Henrot al Palais de Tokyo di Parigi in programma nel 2017. Circa l’evolversi delle prossime sei opere, tuttavia, l’artista ha scelto di restare ironicamente evasiva, dichiarando in una recente intervista: “non so dire molto altro. In fondo la settimana è lunga, e siamo appena a lunedì”.
Roberta Aureli

Un giorno su Marte, di Roberta Aureli

Ispirata da un passo delle Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, l’artista australiana Sara Morawetz ha vissuto per trentasette giorni consecutivi adattando il suo orologio, la sua routine quotidiana e i suoi ritmi biologici al Tempo di Marte. Una sorta di Life on Mars, per citare il titolo di una canzone di David Bowie, l’artista da poco scomparso che ha anche lui attinto all’immaginario marziano.
I ventotto racconti fantascientifici di Bradbury sono ambientati in uno scenario futuro compreso tra il gennaio 1999 e l’ottobre 2026; Morawetz ha tratto spunto in particolare dall’episodio dell’agosto 2002 intitolato “Night Meeting”, dove si legge la frase “Where is the clock to show us how the stars stand?”.
E How the stars stand è appunto il nome della performance che ha eseguito nell’estate 2015 vivendo per l’intera durata presso la Open Source Gallery di Brooklyn: lungi dal restare reclusa nello spazio espositivo a lei destinato, Morawetz si è impegnata a uscire, a fare la spesa, a vedere i suoi amici, a compiere insomma le normali occupazioni quotidiane ma con un occhio sempre puntato sulle lancette dell’orologio di Marte.

aureli morawetz
La genesi dell’opera è legata a una riflessione sulla durata del giorno marziano: chiamato sol, dura 24 ore, 39 minuti e 35,24 secondi, circa il 2,7% in più rispetto a quello terrestre. Una differenza apparentemente minima che non è più tale sul lungo periodo: se il primo giorno lo scarto è di soli quaranta minuti, già al terzo sarà di due ore e così via fino a confondere irrimediabilmente il giorno e la notte. Un anno su Marte dura 668,5991 sol, cioè 686,98 giorni terrestri.
Sul suo ‘diario di bordo’ online Morawetz ha documentato le difficoltà riscontrate nel portare a termine il lavoro, dai disturbi del sonno a quelli, di ordine pratico, nella sua routine. Qualora avesse avuto un appuntamento con i suoi amici ma le lancette marziane avessero segnato le otto del mattino, per esempio, avrebbe dovuto portarli a colazione e non a cena; assai suggestive ed esplicite in tal senso sono le fotografie del cielo azzurro accompagnate dal titolo “My Night Sky”. In questo modo l’opera arriva a mettere in discussione la nozione stessa di Tempo, le nostre convenzioni e le consuetudini nel rapportarci ad esso, pertanto l’artista ammette che “l’idea di vivere secondo un altro tipo di tempo mi sembrava un esperimento che valesse la pena di essere compiuto al fine di comprendere meglio non soltanto il tempo di Marte ma anche il nostro”.
Mentre è impegnata a completare la tesi di dottorato presso il Sydney College of the Arts, Morawetz ha scelto di spostare l’indagine sulle interrelazioni tra l’arte e la scienza dal piano teorico a quello pratico. Già il 30 giugno dello stesso anno, in seguito alla decisione dell’International Earth Rotation and Reference Systems Service di aggiungere un ‘secondo intercalare’ (leap second) per permettere agli orologi atomici di sincronizzarsi con l’effettiva rotazione della Terra sul suo asse, l’artista aveva preparato 61/60, una performance di un solo secondo da compiere alle 19:59:60 in Times Square a New York. How the Stars Stand ha dato a Morawetz la possibilità di avviare una più stretta collaborazione con il dottor Michael Allison del Goddard Institute of Space Studies della NASA.

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Il lavoro è iniziato il 15 luglio alle 9 del mattino per far coincidere l’ora della posizione occupata dall’artista sulla Terra (a Brooklyn) con l’ora di quella che avrebbe idealmente occupato su Marte (alle coordinate 189.400°E 40.670°N). Il tempo del pianeta rosso è stato misurato grazie all’applicazione Mars24 fornita dall’agenzia spaziale americana (http://www.giss.nasa.gov/tools/mars24/) mentre due orologi da polso e due da parete sono serviti a Morawetz per orientarsi giorno dopo giorno tra i differenti orari.
Quest’ultimo dettaglio ricorda l’installazione Timepieces (Solar System) della scozzese Katie Paterson, sviluppata nel 2014 con l’aiuto di Ian Robson del Royal Observatory di Edimburgo e di Stephen Fossey della University of London Observatory: una sequenza di nove orologi da parete permette di leggere l’ora dei pianeti del sistema solare e della Luna e di metterla in relazione con quella terrestre, oltre che di conoscere la diversa durata del giorno su ciascuno di essi (dalle 9 ore e 56 minuti di Giove alle 4223 di Mercurio).
How the Stars Stand è terminata alle 18 del 21 agosto, quando l’ora terrestre e l’ora marziana sono tornate a coincidere. In un appunto sul blog Morawetz ha lasciato una traccia suggestiva della propria esperienza: “I have been in another time – another place – somewhere in between Earth and Mars // awake and asleep… transitioning through thoughts – ideas – feelings in a real time that is entirely of my own creation…”.
Roberta Aureli (PlaychesswithMarcel)

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo

In questo post, Roberta Aureli coglie una ‘felice coincidenza’ tra la Serie di merli disposti a intervalli regolari lungo gli spalti di una muraglia di Alighiero Boetti (1971-1993, Roma, Collezione Matteo Boetti) e il racconto di Dino Buzzati I sette messaggeri (1939; poi 1942, Mondadori) e la racconta dalla prospettiva di un tempo concreto che lavora come una vera forza creatrice.

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo, di Roberta Aureli
La Serie di merli di Alighiero Boetti consta di una bacheca di plexiglas fissata alla parete in cui sono contenuti 13 telegrammi ordinati uno accanto all’altro cronologicamente. Il titolo, ironico e poetico allo stesso tempo, allude al fatto che la sequenza dei telegrammi ricorda la merlatura posta a coronamento delle mura o delle torri nell’architettura medievale. Il primo è stato spedito da Boetti al gallerista Gian Enzo Sperone il 4 maggio 1971 e reca il messaggio “due giorni fa era il 2 maggio 1971”; il secondo è del 6 maggio e vi si legge “quattro giorni fa era il 2 maggio 1971”. È un messaggio con un contenuto informativo ridotto e la scelta della data è del tutto arbitraria, “com’è sempre l’inizio del gioco”, ha scritto Anne-Marie Sauzeau, “il due maggio 1971, chiamato oggi“. Il gioco prosegue raddoppiando i giorni trascorsi da quella data di partenza: nel terzo telegramma sono 8, poi diventano 16, 32, 64 e così via fino a quando in occasione del tredicesimo telegramma, spedito il 5 ottobre 1993, si arriva a “ottomilacentonovantadue giorni fa”.

Serie di merli 2Boetti, consapevole che con i multipli di 2 il tempo trascorso tra un invio e l’altro sarebbe aumentato vertiginosamente (come nella storia della scacchiera e dei chicchi di riso), dirà che “si può benissimo arrivare a numeri colossali, questa serie del raddoppio è impraticabile; perché, sia come potenza di due o potenza di due miliardi, ha la stessa accelerazione, dopo un attimo dalla partenza, che è più lenta, l’accelerazione è fortissima”.
Uno sguardo più accorto alla bacheca ci fa rendere conto dello spazio rimasto vuoto nel margine destro, dove Boetti aveva pensato di inserire il quattordicesimo e ultimo telegramma programmato per il 2017: i giorni trascorsi dal 2 maggio 1971 sarebbero stati allora 16384 e l’artista torinese avrebbe avuto settantasette anni. Come è noto, invece, è scomparso il 24 aprile 1994 lasciando l’opera irrimediabilmente incompiuta.
boetti_BuzzatiEd è a questo punto che la Serie di merli presenta un curioso collegamento con un racconto di Buzzati. Nei Sette messaggeri si racconta in prima persona la storia di un principe partito per esplorare il regno di suo padre fino ai più remoti confini. Per mantenere i contatti durante il viaggio, decide di farsi accompagnare dai sette migliori cavalieri ai quali affida il compito di riferire alla corte i suoi messaggi. Impone loro dei nomi – Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio – e già il giorno seguente ordina al primo di tornare indietro, via via seguendo un ordine alfabeticamente progressivo. Non passa molto tempo, però, ed egli si accorge che più si allontana da casa, più si dilata l’intervallo tra l’arrivo di due messaggeri, dovendo questi coprire la distanza tra l’accampamento e la capitale e poi tornare indietro, fino a raggiungere di nuovo il principe che nel frattempo avrà proseguito il cammino. Quando sono passati più di otto anni, il principe ci riferisce che Domenico, benché appena tornato e ancora stravolto dalla fatica, ripartirà l’indomani con l’ultima lettera: ultima perché, secondo i calcoli, soltanto dopo trentaquattro anni egli raggiungerà nuovamente il principe, il quale allora ne avrà settantadue. Non ci sarà tempo per un altro messaggio e forse, confessa il narratore ormai debole e stanco, egli non riuscirà nemmeno a leggere la risposta che gli verrà trasmessa allora. Dopo aver rapidamente chiarito il suo ruolo e la sua missione, il principe racconta: “Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino”, racconta.

È una ‘felice coincidenza’ il fatto che Boetti (nato il 16 dicembre 1940) avesse anch’egli poco più che trent’anni al tempo del primo telegramma. Ecco il calcolo che il principe fa: “Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi”. Ma “dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente”, fino a quando “trascorsi che furono sei mesi […] l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi”. Se leggiamo le date di invio dei telegrammi, ci rendiamo facilmente conto di questa dilatazione temporale: i primi sette sono stati inviati tutti nel 1971, quattro dei quali entro lo stesso mese di maggio, poi gli intervalli diventano a poco a poco più lunghi. Ovviamente nel lavoro di Boetti i silenzi non sono dovuti alla naturale lentezza dell’uomo in cammino e nemmeno ai ritardi del sistema postale, bensì sono il risultato di una precisa operazione matematica che li presupponeva sin dall’inizio.

Telegramma 3Come nella Serie di merli i segni del tempo si rendono manifesti grazie al progressivo degrado del materiale (i telegrammi sono ingialliti, la colla ha macchiato la carta, l’inchiostro dei timbri è quasi sbiadito), così dal racconto del principe sappiamo appunto che “le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava” e che “mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire”.

“I più recenti messaggi”, prosegue il principe, “mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare”. Se consideriamo l’arco temporale che separa il primo telegramma dall’ultimo, è facile constatare quante cose fossero davvero cambiate nel mondo in ventidue anni: era mutata la situazione in Afghanistan, l’amato Paese meta di tanti viaggi dove, in conseguenza dell’invasione sovietica del 1979, Boetti non sarebbe più potuto tornare. La caduta simbolica del Muro di Berlino aveva avuto come risultato la disgregazione dei due blocchi che per anni erano stati ideologicamente contrapposti e che le Mappe, con l’immediatezza del loro pattern cromatico, avevano saputo rendere evidenti. E, ancora, è nell’anno dell’ultimo telegramma che viene resa pubblica quella tecnologia alla base del World Wide Web che avrebbe cambiato per sempre la comunicazione tra due punti del mondo (lungo il bordo di una mappa del 1979 Boetti aveva fatto profeticamente ricamare: “annullando le distanze tra Roma e Kabul”).

“Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani”, continua il principe. Per illustrare come il popolo afghano avesse, all’epoca dei loro viaggi, una conoscenza della geografia circoscritta alla dimensione territoriale, Anne-Marie Sauzeau ha riferito questo aneddoto: “Per gli Afghani esiste persino un equivalente della carta geografica nel corpo umano, nella mano: per spiegarvi la strada […] un afghano, anche un ragazzino, chiuderà quattro dita sul palmo destro tenendo il pollice teso […] e lì, sull’interno della propria mano rivolta verso l’interlocutore, traccerà la pista con l’indice sinistro, suggerendo tappe e distanze, in ore, mai in chilometri”. Se è vero che Buzzati situa la sua narrazione in un area non geograficamente determinata – parla di praterie, boschi, deserti ma, eccezion fatta per la remota capitale senza nome, non di città -, è interessante il fatto che il suo principe misuri non quanta strada ha percorso ma quanto tempo è passato da quando si è messo in cammino.

Arriviamo così alla consapevolezza finale: “Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico. […] Da quasi sette anni non lo rivedevo. […] Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere”. Il principe buzzatiano teme dunque per la propria vita e sa con certezza che la sua impresa sarà destinata a fallire: “Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto”.

Roberta Aureli (leggi altri post sul Tempo di Roberta Aureli su Play Chess with Marcel)

Immagini tratte dal catalogo generale dell’opera di Alighiero Boetti, a cura di  J.C. Amman, vol. I, Electa, Milano 2009