Dodici in agosto

“A giudicare dai primi 12 giorni di agosto si vede come saranno i 12 mesi dell’anno; per Vìtacia Milut scorrevano i 12 mesi in base ai quali si poteva indovinare come sarebbe stata la sua vita”.
È una delle tante osservazioni sui legami fra il tempo, i calendari, la vita degli individui e delle famiglie, che si leggono nel libro Paesaggio dipinto con il tè del grande scrittore serbo Milorad Pavić (1929-2009), autore, fra l’altro, del romanzo-lessico Dizionario dei Chazari (1984). 
Scritto nel 1988, tradotto in italiano da Branka Ničija per Garzanti nel 1991, Paesaggio dipinto con il tè  racchiude dimensioni linguistiche e dispositivi narrativi avvincenti e impegnativi per chi legge, a partire dal richiamo alle parole crociate: “Questo romanzo veramente può essere letto allo stesso modo in cui si risolve un cruciverba. Un po’ orizzontalmente, un po’ verticalmente” (p. 185). Due schemi di cruciverba in effetti sono stampati all’inizio del “libro secondo”, mentre a metà del volume l’autore offre degli indizi per la lettura incrociata e alla fine si trova una specie di “soluzione”, leggibile rovesciando il volume sottosopra. 
Le azioni di rovesciare, di andare avanti e tornare indietro per incrociare i paragrafi alludono a un modo di leggere contro la corrente del tempo che trascina capitolo dopo capitolo, giorno dopo giorno, dall’inizio alla fine del racconto e di chi lo legge. 
Il libro, come consigliò Alan Connor (Crossword book club: Landscape painted with Tea, “The Guardian”, 2022), andrebbe letto con qualche nozione della cultura enigmistica serba e con lentezza, perché i temi centrali e diagonali (la ricerca del padre da parte del protagonista, le metamorfosi del personaggi, i cambi di nome, i tratti fantastici ed esoterici) trovino il proprio posto nel puzzle.
Per diconodioggi, il libro si può attraversare facendo tesoro delle riflessioni sul tempo.
Eccone due fra le più consistenti:
La prima (p. 136) offre una simbiosi fra stagioni e lingue: 
“Ormai erano cento anni che nella sua famiglia in autunno si parlava il tedesco, d’inverno il polacco o il russo, in primavera il greco, e soltanto d’estate il serbo, come si conviene a una famiglia di commercianti di grano. Tutte le stagioni dell’anno passate e future si fondevano così nella sua coscienza in un’eterna stagione, somigliante a se stessa come la fame alla fame” .
La seconda (p. 248) sulla “lingua del tempo”:
“Partiamo dalla domanda che cos’è il tempo. Il tempo è una specie di linguaggio che si impara insieme alla lingua madre, quindi impercettibilmente. Tuttavia, sembra che impariamo la lingua madre a spese di quest’altra lingua o almeno che utilizziamo la lingua madre più spesso, mentre quell’altra lingua, la lingua del tempo, viene dimenticata”.

(a.s.)

 

 

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