April 1212 Aprile

12 aprile 2013

« »

Data memorabile per me il 12 aprile del 1891.
Avevo compiuto da circa un mese trentaquattro anni. Da un pezzo mi notavo nel volto, e precisamente alla coda degli occhi e su la fronte, certi lievi solchi che mi pareva non si potessero ancora chiamar propriamente rughe. Credevo almeno che il numero degli anni miei potesse tuttavia permettermi di non chiamarli tali. Momentanei increspamenti de la pelle, che – sotto l’azione del pensiero, del riso, dell’abituale atteggiarsi della fisionomia – erano divenuti stabili. Ma rughe, no

Luigi Pirandello, Prudenza, 1901, in Novelle per un anno. Appendice, Giunti, 1994, tomo III, p. 2601

La “mattina di quel memorabile 12 aprile” (una data che torna anche in altre novelle di Pirandello) segna per il protagonista il passaggio da una fase all’altra della sua esistenza. Da una parte la giovinezza, la poesia, i capelli lunghi, dall’altra la maturità, un impiego, forse un matrimonio. Il passaggio è sancito dal doloroso taglio della barba e dei capelli, dopo il quale non solo la sua amante ma neanche egli stesso si riconosce (“Hai ragione: non son più io! Ti saluto per sempre, cara!”)

Dicono del libro
“sono raccolte sotto il generico titolo di Appendice, le novelle che Pirandello non incluse nel corpus delle Novelle per un anno, e che scrisse dal 1883, quando esordì giovanissimo, fino al 1919″
(G. Prandolini, Prefazione ad Appendice ed. Giunti, op. cit.)

April 1111 Aprile

11 aprile 2013

«»

Il cielo era coperto solo a metà. I cavalli trottavano agili sulla strada dissestata. Era la Strada della Croce. Oltre il finestrino Besian osservava un paesaggio divenuto ormai familiare. Ma questa volta, qua e là, ora nella zona più vicina ora in quella più lontana, si stendeva una coltre azzurrognola. La neve aveva cominciato a sciogliersi, si consumava al di sotto, a contatto del suolo, mentre una sorta di crosta formatasi in superficie si scioglieva a fatica.
“Che giorno è?” chiese Diana.
Un po’ meravigliato, la osservò un istante prima di risponderle.
“L’undici.”

Ismail Kadaré, Aprile spezzato, 1982, tr. it. F. Celotto, Ugo Guanda Editore, 1993, p. 137

 

Nell’interno dell’Albania, in un anno “imprecisato, prima dell’avvento del comunismo”, si svolge la storia di Gjorg Berisha, che ha dovuto vendicare un fratello e, da quel momento, ha un mese di tregua, prima che la famiglia dell’ucciso possa a sua volta vendicarsi su di lui. È in quel breve periodo, fra i giorni restanti di marzo e la prima metà di aprile (un aprile spezzato), che avviene l’incontro con la coppia che sta parlando (Diana e Besian). Partiti da Tirana per uno strano viaggio di nozze, si sono imbattuti in Gjorg e l’incontro stravolgerà le loro reciproche vite, segnando con forza tutti i giorni di quell’aprile albanese, ancora freddo e innevato. 

 

Dicono del libro
“Gjorg Berisha ha dovuto uccidere Zef Kryeqyqe, l’assassino di suo fratello (…) Dopo l’omicidio, perpetrato fra mille dubbi e tormenti, Gjorg potrà usufruire della tregua di un mese. Poi, per lui, la morte sarà in agguato dietro a ogni pietra, dietro a ogni gomitolo di strada… Ma la sua storia, grazie a un’abilissima regia narrativa, si intreccia con quella di Besian e di Diana (un brillante scrittore e la sua giovane, bellissima moglie). I due, nonostante le perplessità di lei, sono partiti per un singolare viaggio di nozze sulle  montagne”

(dal risvolto di copertina dell’ed. Guanda, op. cit.)

April 1010 Aprile

10 aprile 2013

We had a fair easterly wind sprung up the third day after we came to the Downs, and we sailed from thence the 10th of April. 

« »

Il 10 aprile 1934, in piena “occultazione” di Venere ad opera della luna (il fenomeno doveva verificarsi soltanto una volta all’anno), pranzavo in un piccolo ristorante situato spiacevolmente vicino all’ingresso di un cimitero. Per andarci, bisogna passare senza entusiasmo davanti a diversi chioschi di fiori. Quel giorno, per di più, un orologio murale privato del suo quadrante costituiva ai miei occhi uno spettacolo non proprio di buona lega. Ma osservavo, non avendo di meglio da fare, la vita suggestiva di quel luogo (…) La cameriera è graziosa; poetica, direi. Il mattino del 10 aprile portava, su di un colletto bianco a palline rosse, diradate, molto intonate al suo vestito nero, una sottilissima catenella cui erano fissate tre gocce chiare come di pietra lunare, gocce rotonde sulle quali si staccava alla base una mezzaluna della stessa sostanza, similmente incastonata. Apprezzai una volta di più, infinitamente, la coincidenza tra il gioiello e quella eclissi

André Breton, L’amour fou, 1937, tr. it. F. Albertazzi, Einaudi, 1974, p. 17, p. 20

In questo testo di Breton – che è un po’ diario, un po’ racconto, un po’ trattato sull’amore, l’arte, la bellezza –  le date segnate dall’autore risaltano come dei personaggi. Il ristorante, il cimitero, l’orologio, la cameriera, il gioiello, la posizione della luna nel cielo, le parole ascoltate per caso il 10 aprile del 1934: tutto è messo in relazione secondo codici personali, magici e poetici, che fanno di quel giorno un tutt’uno con la vita che vi è accaduta e ne lasciano un ritratto a più dimensioni. 

Dicono del libro
L’amour fou (1937) è un momento di affermazione piena nelle prospettive del desiderio. Breton, che qui si espone a una elucidazione minuziosa di episodi e luoghi (dal paesaggio solare delle Canarie, a un’esoterica topografia parigina), scompone la propria identità per lasciar spazio alle interrogazioni rivelatrici che vengono dal di fuori: oggetti, scenari, circostanze, secondo una sintassi che ha le stesse leggi che regolano il sogno”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

9 Aprile

9 aprile 2013

« »

9 aprile. (..) Questo ho imparato: che dalla vita non esiste alcuna reale via di scampo. Si può solo rimandare la conclusione, con abilità e un po’ d’astuzia. Ma non esistono vie d’uscita. È un sistema completamente chiuso, e all’altro capo c’è soltanto la morte. E la morte non è affatto un’uscita.
Io sono un corpo. Soltanto un corpo. Tutto quello che si deve fare, che si può fare, dev’essere fatto dentro questo corpo.
(Taccuino giallo IV:2)

Lars Gustafsson, Morte di un apicultore, 1978, tr. it. C. Giorgetti Cima, Iperborea 1989, p. 121

L’ex maestro elementare Lars Lennart Westin si dedica all’allevamento delle api, conducendo una vita solitaria. Annota i suoi pensieri su diversi taccuini, in cui raccoglie anche articoli di giornale e brevi racconti. Il taccuino giallo, da cui è tratta quest’osservazione datata 9 aprile, alterna appunti sulle api, registrazioni del decorso della malattia che l’ha colpito, pensieri sull’esistenza e sul tempo, familiare-straniero che modifica continuamente i corpi e la natura.

Dicono del libro
“La confusa sensazione di non aver mai vissuto, di essere spettatori di una vita che qualcun altro vive al nostro posto, è una delle costanti della letteratura del nostro tempo. Come per Kundera ‘la vita è altrove’, allo stesso modo i personaggi di Gustafsson i sentono ‘al di fuori’ di tutto, estranei abitanti di ‘un universo in cui nessuno è di casa’. In Morte di un apicultore, culmine e conclusione di un ciclo di cinque romanzi dal titolo emblematico di Crepe nel muro, Lars Lennart Westin, quarantenne, maestro in pensione, divorziato, ha trovato nella cura delle api l’attività che gli consente di vivere nella semplicità e nella solitudine che si è elette a sistema, ultimo stadio di una costante ‘fuga dalla vita’.
(dalla quarta di copertina dell’ed. Iperborea, op. cit.)

8 Aprile

8 aprile 2013

« »

Poi, un giorno che sembrava qualunque, prese distrattamente dal tavolo una carta assorbente usata e ci vergò sopra, con l’inchiostro nero, due cose: lo schizzo di una facciata e un nome: Crystal Palace. Posò la penna. E sentì quel che sente una ragnatela quando incontra la stupìta traiettoria di una mosca attesa per ore.
Lavorò al progetto, giorno e notte, per tutto il tempo che gli restava. Non aveva mai immaginato qualcosa di più grande e di sconcertante. La fatica gli rosicchiava la mente, una sotterranea e febbrile emozione scavava cunicoli nei suoi disegni e nei suoi calcoli. Intorno, la vita qualunque macinava i suoi rumori. Lui li percepiva appena. Solo, giaceva in una bolla di acre silenzio, in compagnia della sua fantasia e della sua stanchezza. 
Consegnò il suo progetto l’ultimo giorno utile, il mattino dell’8 aprile

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, 1991, Bompiani 1991, pp.131-32

Reso pubblico il 13 marzo 1849, il concorso per la costruzione del palazzo dell’Esposizione Universale di Londra si chiude l’8 aprile. L’architetto Hector Horeau, reduce da una tragedia familiare (la moglie Monique si è suicidata), incerto nella salute e con una visionaria fissazione per il vetro, partecipa al concorso, consegnando il suo progetto l’ultimo giorno utile, alla data spartiacque dell’8 aprile. Le vicende di quello che sarà il Crystal Palace si intrecceranno da allora con quelle degli altri personaggi di questo libro, fra dati veri e plausibili, luoghi inventati e tempi non lineari.

Dicono del libro
“In un angolo d’Europa dell’Ottocento, in una cittadina immaginaria ma verosimile, un pullulare di Storia e storie: i sogni del signor Rail e le labbra della signora Rail; la favola dei primi treni; un uomo che sente l’infinito; un bambino che si porta addosso il suo destino; la magia del Crystal Palace; la singolare vita dell’architetto Hector Horeau”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Bompiani, op. cit.)

April 77 Aprile

7 aprile 2013

« »

Adesso, mentre guarda dalla finestra, lo vede echeggiare sul muro di fronte; e più in là sul minareto di una moschea; e nei grandi caratteri neri di un giornale sotto il braccio di uno strillone. Volantino giornale e moschea stanno gridando: Hartal! Che significa, letteralmente, giorno di lutto, d’immobilità, di silenzio. Ma questa è l’India all’apogeo del Mahatma, e anche la lingua obbedisce alle istruzioni di Gandhi e, sotto la sua influenza, la parola ha acquistato nuove risonanze. Hartal – 7 aprile, concordano moschea muro giornale e volantino, perché Gandhi ha stabilito che quel giorno si fermerà tutta l’India. Per piangere, in silenzio, la persistente presenza degli Inglesi.
“Non capisco questo hartal quando non è morto nessuno”, sta piangendo sommessamente Naseem. “Perché il treno non parte?”

Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, 1980, tr. it. E. Capriolo, Garzanti, 1987, p. 38

All’inizio del romanzo, il narratore – nato il 15 agosto del 1947, giorno dell’indipendenza dell’India – ripercorre la storia di quella che considera la sua famiglia, storia che segue di pari passo le vicende della nazione. Per farlo, comincia dal nonno Aadam Aziz, che torna nel Kashmir dalla Germania laureato in medicina. Nell’aprile del 1919 Aziz si è appena sposato con Naseem e il 7 aprile si trova con la moglie nella città santa di Amritsar: è  il 7 aprile del 1919, la data in cui il Mahatma Gandhi ha invitato gli indiani a una giornata di silenzio e immobilità, che ferma anche il treno su cui si trova il nonno, rendendolo partecipe degli avvenimenti storici che stavano accadendo.

Dicono del libro
“Saleem Sinai, l’eroe di questo straordinario romanzo picaresco tradotto in più di quindici lingue, è nato a Bombay il 15 agosto 1947 allo scoccare della mezzanotte, nel momento in cui l’India proclamava l’indipendenza Come lui, tutti i ‘mille e uno’ bambini della mezzanotte possiedono doti straordinarie: forza erculea, capacità di rendersi invisibili e di viaggiare attraverso il tempo, bellezza soprannaturale. Ma lui soltanto può penetrare nel cuore e nel cervello di altri esseri umani. Rimettendo in causa l’ordine tradizionale del racconto, Salman Rushdie (…) ha creato la saga di una famiglia la cui storia si mescola con quella dell’India di oggi”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Garzanti, op. cit.)

April 66 Aprile

6 aprile 2013

APRIL 6. Certainly she remembers the past. Lynch says all women do. Then she remembers the time of her childhood—and mine, if I was ever a child. The past is consumed in the present and the present is living only because it brings forth the future. Statues of women, if Lynch be right, should always be fully draped, one hand of the woman feeling regretfully her own hinder parts.

James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man

« »

Tess era così immersa in questo sogno fantastico che sembrava non accorgersi che la stagione progrediva, che i giorni s’erano allungati, che mancava poco al sei di aprile, a cui avrebbe fatto seguito l’antica festa dell’Annunciazione, termine del suo contratto di lavoro in quel luogo.
Ma poco prima della scadenza trimestrale accadde qualcosa che costrinse Tess a pensare a ben altre faccende

Thomas Hardy, Tess dei d’Urberville, 1891, tr. it. G. Aldi Pompili, Rizzoli 1993, pp. 402

Prima che anche in Inghilterra – nel Settecento – entrasse in vigore il calendario gregoriano, il giorno dell’Annunciazione (25 marzo) era celebrato il 6 aprile. Era una data importante, che segnava le scadenze dei contratti di lavoro nelle campagne. E anche dopo il cambio di calendario, la data dell’antica festa dell’Annunciazione rimase quella dei traslochi degli agricoltori da una fattoria all’altra. La vicenda della giovane Tess è a una nuova svolta: il padre è appena morto e la sua famiglia deve lasciare la casa; sta per incontrare ancora Alec d’Urberville, il falso parente che l’ha messa incinta di un bambino (poi morto), incrinando la sua reputazione e rovinando il suo matrimonio con Angel Clare, che l’aveva sposata senza conoscere quell’episodio. Il 6 aprile, giornata di vento pungente, Tess parte con il carro in cerca di un alloggio e incontro alle nuove svolte del suo destino. 

Dicono del libro
“Quando leggiamo ‘Tess dei d’Urberville’, ci sembra che i tesori di immaginazione visionaria, che da secoli si erano annidati in ogni angolo della campagna inglese, si ridestino clamorosamente. La solenne fantasia architettonica, che aveva creato i pilastri e gli altari di Stonehenge: la fantasia superstiziosa, che serpeggiava nelle foreste druidiche; l’ebbrezza alcoolica, che scintillava sulle scene elisabettiane e nelle birrerie del Wessex; le avventure del romanzo settecentesco, da Defoe a richardson, le più fosche invenzioni romantiche – tutto quanto era esistito di meravigliosamente e assurdamente anglosassone si dà convegno in queste brughiere, in questi campi funestati dall’inverno o intiepiditi dalla dolcezza dell’autunno”

(Pietro Citati, dall’introduzione all’ed. Rizzoli, op. cit.)

 

 

April 55 Aprile

5 aprile 2013

APRIL 5. Wild spring. Scudding clouds. O life! Dark stream of swirling bogwater on which apple-trees have cast down their delicate flowers. Eyes of girls among the leaves. Girls demure and romping. All fair or auburn: no dark ones. They blush better. Houpla!

James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man

« »

5 aprile. Primavera selvaggia. Nubi in fuga. O vita. Torrente scuro di acque torbide sul quale i meli han lasciato cadere i loro fiori delicati. Occhi di ragazze tra le foglie. Ragazze  modeste e scavezzacollo. Tutte bionde o castane: nessuna scura. Arrossiscono meglio. Oplà

James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, 1916, tr. it. C. Pavese, Mondadori 1970, p. 306

“Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero” è la frase d’inizio del Ritratto dell’artista da giovane, che segue gli anni di formazione del ragazzo Stephen Dedalus. La famiglia, la patria, il collegio cattolico, lo studio, gli incontri, i pensieri sulla religione, sull’amore e sull’arte sfociano – nelle ultime pagine – in un diario, in cui la maturazione dell’adolescente si incontra con l’arrivo della primavera irlandese. 

Dicono del libro
Lo scrittore, educato alla scuola dei gesuiti, era venuto in breve scoprendo orizzonti di cultura a lui più congeniali, e aveva lasciato l’Irlanda per vivere in Francia e in Italia. Come l’autore, il protagonista del romanzo, Stephen Dedalus, il giovinetto allievo nel collegio dei gesuiti, ci si presenta combattuto e in rivolta contro le istituzioni; come lui insorge contro l’ambiente che lo opprime e, a difesa della propria autonomia, sceglie ‘il silenzio, l’esilio e l’astuzia’”.
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

April 44 Aprile

4 aprile 2013

 

« »

La cosa che si disponeva a fare consisteva nell’incominciare un diario. Ciò non era illegale (nulla era illegale, poiché non c’erano più leggi); ma se comunque fosse stato scoperto, non c’era dubbio che sarebbe stato condannato a morte, o a venticinque anni almeno di lavori forzati. Winston infilò un pennino nella cannuccia e lo succhiò, come s’usa, per facilitare la presa dell’inchiostro. La penna era uno strumento antiquato, che si adoperava assai di rado, perfino per le firme importanti, e lui se n’era procurata una di nascosto e non senza difficoltà, solo perché sentiva che quei bei fogli color crema meritavano che ci si scrivesse sopra con un vero pennino, anziché d’essere grattati con una delle tante matite a inchiostro. Veramente non aveva l’abitudine di scrivere a mano. Con l’eccezione di qualche breve appunto, di solito dettava ogni cosa al dittografo, un apparecchio che registrava e trascriveva tutto ciò che si diceva in un microfono, e che era assurdo pensar di adoperare nella presente circostanza. Intinse la penna nel calamaio e quindi esitò un istante. Ebbe un tremito fin nelle budella. Segnare la carta sarebbe stato l’atto decisivo. Con certe piccole goffe cifre, scrisse: “4 aprile 1984”

George Orwell, 1984, 1949, tr. it. G. Baldini, Mondadori 1989, pp.10-11

 È una fresca e limpida giornata di aprile quando Winston Smith comincia a scrivere il suo diario, su un quaderno ingiallito comprato da un robivecchi. È il 4 aprile 1984, anche se dell’anno non è sicuro, perché, nel mondo dominato dal Grande Fratello, non “era possibile buttar giù una qualsiasi data se non con l’approssimazione d’un anno o due”. Ha deciso di scrivere il diario grazie al fatto che il suo appartamento ha una rientranza nel muro, dalla quale è possibile rimanere fuori dal campo visivo del teleschermo che controlla l’interno della casa. Addetto alla correzione delle notizie  a stampa per renderle conformi al regime, Winston non si adatta del tutto alle regole del Grande Fratello e il diario è la prima forma di autonomia che egli manifesta.  

Dicono del libro
“1984. Londra. Il mondo è diviso in due iperstati simili e in guerra fra loro. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Tranne pensare, se non secondo il Socing. Tranne amare, se non per riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi TV di propaganda. Dal loro rifugio, in uno scenario desolante da medioevo postnucleare, l’ultimo uomo in Europa (questo il titolo che avrebbe preferito l’autore) e la sua compagna lottano disperatamente per conservare un granello di umanità”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

April 33 Aprile

3 aprile 2013

« »

Il 3 aprile verso le cinque. In macchina da piazza della Scala vuol prendere via Verdi ma il semaforo è rosso; stipate intorno le auto, i pedoni che passano, il sole ancora alto, una giornata bellissima, in quel mentre immaginò la Laide sul bordo della pista di Modena dove diceva di andare a posare per le fotografie di moda, è là felice di essere stata ammessa in quel mondo eccezionale di cui i giornali parlano tanto in termini quasi di favola, è là che scherza con due giovani 

Dino Buzzati, Un amore, 1963, Mondadori 1979, pp. 79-80

L’architetto milanese Antonio Dorigo, in febbraio, in una casa d’appuntamenti, ha conosciuto Adelaide, una ragazza col fisico da ballerina, da cui rimane irretito. Durante i mesi invernali Dorigo si è legato sempre più alla ragazza, che non ricambia il suo sentimento e ha una vita sua, in locali notturni e con altri uomini. Nel pomeriggio del 3 aprile, in mezzo al traffico di Milano, “all’altezza del palazzo di Brera lo prese lo sgomento perché in questo preciso istante ha capito di essere completamente infelice senza nessuna possibilità di rimedio” e perché  il pensiero di lei “lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata”. 

Dicono del libro
“Nella cornice di una Milano grigia, caliginosa e triste, fra salotti di case d’appuntamento e strade impregnate degli odori dei «camini, sfiatatoi delle caldaie a nafta, ciminiere delle raffinerie Coloradi, camion ruggenti e fogne», si sviluppa la vicenda dell’architetto Antonio Dorigo, 49 anni, che nell’inverno del 1960 incontra una giovanissima squillo, sedicente ballerina del teatro alla Scala di Milano”

(dalla recensione del libro in Italialibri.net)

April 22 Aprile

2 aprile 2013

« »

« »

Il 2 di aprile cadeva il secondo anniversario. “Bisogna questa volta celebrarlo fuori di Roma” disse Ippolita. “Bisogna che noi passiamo una gran settimana d’amore, soli, dovunque, ma fuori di qui […] Stabilirono di partire il 2 di aprile, col treno del tocco. Si trovarono alla stazione, per  l’ora stabilita, tra la folla, provando entrambi in fondo al cuore una gioia ansiosa

Gabriele D’Annunzio, Trionfo della morte, 1894, Mondadori 1977, p.71, 75

I due amanti Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, quasi stupiti di essere arrivati al secondo anniversario della loro storia d’amore,  all’inizio clandestina, cercano sulla guida un luogo dove festeggiare e decidono per la località di Albano. Vi si recano in treno, rievocando continuamente – non senza malinconia –  il giorno del loro primo incontro, avvenuto a un concerto.  Il 2 aprile è la vera data in cui D’Annunzio conobbe Barbara Leoni, a cui la figura di Ippolita è ispirata.

Dicono del libro
“Terzo e ultimo dei ‘Romanzi della Rosa’, Trionfo della morte ci presenta varie situazioni legate alla biografia di D’Annunzio. Nella passione ‘difficile’ fra Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio è adombrata quella – famosissima – che vissero lungamente lo scrittore e Barbara Leoni. Molti dei capitoli ambientati in Abruzzo si richiamano al dramma assai complesso, in quegli anni, della famiglia D’Annunzio, sconvolta dalle dissipazioni e da parecchie altre colpe del padre di Gabriele. Infine i travagli del protagonista raggiungono la loro conclusione tragica anche in seguito a violente esperienze intellettuali – che si accentrarono sul tema ossessivo della Morte – riferite morbosamente all’arte di Wagner e al pensiero di Nietzsche”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)


April 11 Aprile

1 aprile 2013

 

 

 

 

 

 

 

tn-1
“… Una voce di donna, all’altoparlante, spiega l’origine del primo aprile…”
Annie Ernaux, Diario dalla periferia

« »

“Dicci che giorno è domani.” “Il primo di aprile, lunedì.” La Ponte si toccò la cravatta, turbato. “Il mio compleanno.”
Ma la ragazza non gli prestava più attenzione. Si era chinata sullo zainetto, cercando qualcosa al suo interno. Quando si risollevò, aveva in mano il volume dei Tre moschettieri.
“Trascuri le tue letture” disse a Corso porgendoglielo. “Capitolo primo, prima riga.”
Corso, che non se lo aspettava, prese  il libro e gli dette un’occhiata. “I tre doni del signor D’Artagnan padre”, si intitolava il capitolo. E appena lesse la prima riga, seppe dove dovevano cercare Milady.

Arturo Pérez-Reverte, Il club Dumas, 1993, tr. it. I. Carmignani, Marco Tropea Editore, 1997, p. 313

L’intricata vicenda del Club Dumas – legata a un capitolo manoscritto dei Tre moschettieri e al libro satanico Le Nove Porte – si sta avvicinando alle sue conclusioni. Il cacciatore di libri antichi Lucas Corso, il suo amico Flavio La Ponte, la ragazza- demone Irene Adler sono a Parigi e devono decidere dove cercare le tracce della borsa sottratta a Lucas Corso dalla vedova di un collezionista (trovato morto al principio del racconto) e dal suo aiutante. Questi ultimi sono assai simili a due personaggi dei Tre moschettieri: Milady e Rochefort. E proprio questa somiglianza offre un indizio sulla mossa da fare, insieme alla coincidenza temporale. Le parole “primo”, “lunedì”, “aprile” sono infatti l’incipit dei Tre moschettieri “Il primo lunedì del mese di aprile del 1625, il borgo di Meung…”. E i tre amici ritroveranno la borsa e il libro a  Meung, il primo lunedì di aprile che cade – nel Club Dumas come quest’anno 2013– il primo di aprile (mentre nell’anno 1625 corrispondeva al giorno 7  del mese). 

Dicono del libro
“Lucas Corso, mercenario bibliofilo al soldo dei più esigenti collezionisti d’Europa, è abituato a indagare sui libri antichi come un detective sulle tracce di un crimine. Questa volta, però, la sua fama viene messa a dura prova da due incarichi delicati quanto insoliti: verificare l’autenticità di un capitolo manoscritto dei Tre moschettieri e decifrare l’enigma nascosto in un testo rarissimo, il Libro delle Nove Porte del Regno delle Ombre, una sorta di manuale per invocare il diavolo, che il Santo Uffizio mise al rogo insieme al suo autore nel 1667. Le nove incisioni contenute nel volume sono l’unico indizio di un lungo viaggio che conduce Corso dai vicoli di Toledo al Quartiere latino di Parigi, fra archivi, polverose librerie antiquarie e raffinate biblioteche private. Il mistero si tinge di sangue mentre la ricerca si addentra nei sentieri impervi dell’occulto, accompagnata da sospette streghe e apparizioni angeliche, seduzioni pericolose, incontri inaspettati e bizzarre incarnazioni dei personaggi letterari di Dumas”
(dalla scheda del libro sul sito dell’editore Marco Tropea)

31 Marzo

31 marzo 2013

« »

“Comunque, in definitiva, è la storia di come non mi sono sposato!” 
“Sposato!… Moglie!… Polzunkov voleva sposarsi!!”
“Vi confesso che muoio dalla voglia di vedere Madame Polzunkov!”
“Permettete che mi interessi sapere il nome di colei che stava per diventare Madame Polzunkov” pigolò un giovanotto, fattosi largo tra la folla.
“Ed ora il primo capitolo, signori: erano esattamente sei anni fa, in primavera, il 31 di marzo – notate la data, signori – , la vigilia…
“Del primo aprile!” urlò il giovanotto con la prefettizia.
“Che intuito eccezionale. Era sera. Sul capoluogo distrettuale di N. si addensavano le prime ombre del tramonto, la luna tentava di fare capolino e… tutto il resto! Ed ecco che al tardo tramonto anch’io, pian pianino, faccio capolino da un piccolo
appartamento dopo essermi congedato dalla mia riservata, defunta nonna

Fëdor Dostoevskij, Polzunkov, 1847, tr. it.A. Pasteris, in Racconti, Mondadori, 1991, p. 165

Una storia di equivoci e di inganni ha inizio la sera del 31 marzo, quando Polzunkov, dopo aver cercato di ricattare il suo superiore Fedosej Nikolaic, viene irretito da questi e dalla sua famiglia. Promesso in matrimonio alla figlia, coinvolto nel risanamento dei conti, vedrà sfumare tutti i piani, fra il 31 marzo e il primo di aprile, giorno degli scherzi e anche dei pentimenti.

Dicono del libro
“Quando Dostoevskij si entusiasmò per le idee del socialismo contemporaneo (1847-1848), scrisse un ciclo di quattro racconti collegati tra loro: essi hanno in comune il tema del matrimonio e, in parte, i due protagonisti principali. La prima rappresentazione del matrimonio, che corrisponde pienamente alla visione critica di Fourier, ossia dell’impossibilità dell’amore in una coppia che desidera solo la realizzazione dei propri egoismi, la troviamo nella descrizione del matrimonio di Fedosej Nikolaic in Polzunkov. Fedosej, la moglie Mar’ja Fominišna e anche la figlia Mar’ja sono uniti da un unico anelito: la conquista dei beni materiali. Attraverso menzogna, lusinga, ricatto arrivano allo scopo. L’amore di Polzunkov crolla infine davanti alla scaltrezza dei futuri suoceri e della fidanzata”

(dall’introduzione di G. Spendel all’ed. Mondadori, op. cit.)

 

March 3030 Marzo

30 marzo 2013

« »

I Baraglioul rientrarono a Parigi, alla mezzanotte del 30 marzo,  nel loro  appartamento in via Verneuil.
Mentre Marguerite si preparava per la notte, Julius, con una piccola lampada in mano e in pantofole, entrò nel suo studio, dove si ritirava sempre con piacere. La stanza era arredata sobriamente: erano appesi alle pareti alcuni quadri di Lépine e un Boudin; in un angolo, sopra un piedistallo girevole, il busto in marmo della moglie, opera di Chapu, metteva una macchia un po’ cruda; al centro, un grande tavolo Rinascimento su cui, da quando era partito, si erano andati ammucchiando libri, opuscoli e stampati pubblicitari; su un vassoio di smalto a scomparti, alcuni biglietti da visita con l’angolo piegato e, in disparte, appoggiata bene in vista a un bronzo di Barye, una lettera sulla cui busta Julius riconobbe la calligrafia del padre

André Gide, I sotterranei del Vaticano, 1914, tr. it. R. Ortolani, Garzanti, 1965, 45

Dicono del libro
“Il sottotitolo di questo singolarissimo libro reca l’insegna di ‘sotie’, farsa, André Gide aveva, infatti, concepito I sotterranei del Vaticano come un bizzarro e sentenzioso gioco di marionette per esercitare liberamente e capricciosamente l’arguto e, a volte, acre estro della sua ironia sui costumi e sulle idee, sulle ipocrisie e sulle manie, insomma sull’imbellicità degli uomini”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Garzanti, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

tn-1

“… Van era riuscito a sapere che suo padre non sarebbe tornato a Manhattan prima del 30 marzo…”
Vladimir Nabokov, Ada o Ardore« »

I Baraglioul rientrarono a Parigi, alla mezzanotte del 30 marzo,  nel loro  appartamento in via Verneuil.
Mentre Marguerite si preparava per la notte, Julius, con una piccola lampada in mano e in pantofole, entrò nel suo studio, dove si ritirava sempre con piacere. La stanza era arredata sobriamente: erano appesi alle pareti alcuni quadri di Lépine e un Boudin; in un angolo, sopra un piedistallo girevole, il busto in marmo della moglie, opera di Chapu, metteva una macchia un po’ cruda; al centro, un grande tavolo Rinascimento su cui, da quando era partito, si erano andati ammucchiando libri, opuscoli e stampati pubblicitari; su un vassoio di smalto a scomparti, alcuni biglietti da visita con l’angolo piegato e, in disparte, appoggiata bene in vista a un bronzo di Barye, una lettera sulla cui busta Julius riconobbe la calligrafia del padre

André Gide, I sotterranei del Vaticano, 1914, tr. it. R. Ortolani, Garzanti, 1965, 45

La data del 30 marzo segna l’ingresso, nella nobile e cattolica famiglia Baraglioul, di un componente inaspettato, annunciato dalla lettera del padre che il protagonista di questa pagina, lo scrittore Julius,  sta per leggere. Si tratta del giovane Lafcadio, figlio naturale del conte Baraglioul (come si scoprirà di lì a poco) e dunque fratellastro di Julius. Da quel giorno, la trama regolare della vita della famiglia verrà sconvolta da una catena di avvenimenti – un omicidio senza movente, una falsa crociata per la liberazione del Papa – tutti in qualche modo collegati a quel ragazzo, nato a Bucarest  da una relazione clandestina e  ricomparso a Parigi, per lettera, il 30 marzo. 

Dicono del libro
“Il sottotitolo di questo singolarissimo libro reca l’insegna di ‘sotie’, farsa, André Gide aveva, infatti, concepito I sotterranei del Vaticano come un bizzarro e sentenzioso gioco di marionette per esercitare liberamente e capricciosamente l’arguto e, a volte, acre estro della sua ironia sui costumi e sulle idee, sulle ipocrisie e sulle manie, insomma sull’imbellicità degli uomini”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Garzanti, op. cit.)

 

March 2929 Marzo

29 marzo 2013

 

« »

L’esecuzione fu fissata  per il 29 marzo, alle nove di mattina. (…) Prima del giorno fissato da Julius Rothe, morì centinaia di morti, in cortili le cui forme e i cui angoli esaurivano la geometria, mitragliato da soldati variabili, in numero cangiante, che a volte lo finivano da lontano, altre da molto vicino. Affrontava con vero timore (forse con vero coraggio) queste esecuzioni immaginarie; ogni finzione durava pochi secondi; chiuso il cerchio, Jaromir interminabilmente tornava alle tremanti vigilie della sua morte. Poi rifletté che la realtà non suole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusse che prevedere un dettaglio circostanziale è impedire che esso accada. Fedele a questa debole magia, inventava, perché non accadessero, particolari atroci; naturalmente finì per temere che questi particolari fossero profetici. Miserabile la notte, procurava di affermarsi in qualche modo nella sostanza fuggitiva del tempo. Sapeva che questo andava precipitando verso l’alba del giorno 29

Jorge Luis Borges, Il miracolo segreto, 1943, (Artifici), in Finzioni, tr. it. F. Lucentini, in Tutte le opere, I Meridiani, Mondadori, 1985, vol. I, p. 740

A Praga, nel marzo del 1939,  lo scrittore ebreo Jaromir Hladík è arrestato dalla Gestapo e condannato a morte. Mentre attende il giorno della fucilazione, ripensa ai libri che ha scritto e soprattutto all’ultimo, che non ha terminato. Gli servirebbe un anno per concluderlo. E per il miracolo segreto che dà il titolo al racconto, nel giorno dell’esecuzione il tempo si ferma, solo per lui , per un anno intero. Dandogli il tempo di finire la sua opera, a memoria, dentro la sua testa, fra le 8 e 44 e le 9 e 2 minuti del 29 marzo. 

Dicono del libro
“Uscito in Argentina nel 1944 e tradotto da Franco Lucentini nel 1955, Finzioni è il libro che ha rivelato Borges in Italia, e che da allora ha acquistato anche da noi la statura di un classico contemporaneo. Diviso in due parti – Il giardino dei sentieri che si biforcano e Artifici – il volume è composto di racconti che di volta i volta sono fantastici, simbolisti, polizieschi, esoterici, tutti volti a creare una sorta di «enciclopedia illusoria» di cui Borges è il magistrale compilatore”

(dalla scheda del libro nell’ed. Einaudi)

 

March 2828 Marzo

28 marzo 2013

« »

Look at the date of the magazine issue. He pointed to the top heading, just to the left of the page number. It read March 28, 1932

Isaac Asimov, The End of Eternity, 1955 (Tor Books, 2011, p. 226)

« »

“Leggi la data in cima alla pagina”. Indicò la scritta che diceva: 28 marzo 1932. “Non c’è bisogno di traduzione, vero? I numeri sono quasi uguali a quelli dell’Intertemporale Standard. Non sai che a quell’epoca nessuno aveva mai visto un fungo atomico? Nessuno avrebbe potuto riprodurlo con tanta accuratezza, tranne…” “Aspetta un momento, è solo uno schizzo” disse il Calcolatore, cercando di ritrovare il suo equilibrio. “Può darsi che la somiglianza col fungo atomico sia casuale.” “Ah, sì? Guarda di nuovo le parole, allora.” Harlan indicò la scritta in maiuscolo, All the Talk Of  the Market. “Le iniziali formano la parola Atom, che in inglese vuol dire atomo. Me la chiami coincidenza? Direi proprio di no”

 Isaac Asimov, La fine dell’Eternità, 1955, tr.it. G. Lippi, Mondadori, 1987, p. 202

L’Eternità gode di un equilibrio estremamente delicato, nel mondo immaginato da Asimov in questo romanzo, dove si può viaggiare attraverso i secoli e la storia muta a ogni cambiamento della Realtà effettuato da tecnici del Tempo. Dove si rischia, tornando a un momento già attraversato, di incontrare se stessi. E dove diverse Realtà alternative possono esistere.
Ma c’è stata un’epoca in cui il passato era irreversibile, “la Realtà fluiva ciecamente lungo la linea della massima probabilità”, per esempio il Ventesimo secolo. Lì è finito uno dei personaggi di questo complicato racconto e da lì, dal 1932, sta mandando un messaggio in codice per essere rintracciato. Un messaggio affidato a un anacronismo: il disegno di un fungo atomico su una rivista del 28 marzo 1932.  

Dicono del libro
“In un futuro ancora molto lontano l’uomo ha imparato a viaggiare nel tempo, spostandosi con disinvoltura da un secolo all’altro e organizzando traffici commerciali tra ere diverse. Il viaggio nel tempo permette anche di tenere l’umanità sotto rigido controllo, modificando tutti quegli elementi che potrebbero provocare gravi turbamenti nella storia. A effettuare i cambiamenti sono delegati gli analisti e i tecnici della rigida casta degli Eterni, gli unici in grado di manipolare passato e futuro”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

 

27 Marzo

27 marzo 2013

« »

Alle cinque e tre quarti del mattino eravamo ancora lì, dentro la mia Seicento multipla con i vetri appannati. Era il giorno 27 di marzo amoroso e ventoso di quell’anno là e il sole sorgeva esattamente alle sei e otto minuti. Era il giorno di San Giovanni Damasceno e di Santa Augusta Vergine, secondo mattutino delle tenebre, come dice il Barbanera. Quando aprii gli occhi (io bacio sempre a occhi chiusi) intorno a noi non c’era più nessuno, erano scomparse tutte le macchine, c’erano soltanto due poliziotti a cavallo. Gli uccelli si erano svegliati e cinguettavano a testa alta sui rami degli alberi, altri volteggiavano nell’aria come impazziti per la luce del giorno che stava spuntando mentre si spegnevano i lampioni comunali. Baciare è un’arte.
Un passero era venuto a posarsi sul cofano della macchina, poi era ripartito per un breve volo intorno al monumento di Garibaldi, l’Eroe del nostro Risorgimento. A rigore si può dire che per tutta la notte io e Miriam ci eravamo dati un solo lunghissimo bacio

Luigi Malerba, Il serpente, 1966, Mondadori, 1989, p. 57

 Arrivato a Roma da Parma, il narratore di questa storia gestisce un negozio di francobolli in via Arenula; sostiene di essere sposato e, a un certo punto, si trova a frequentare una scuola di canto, dove conosce una ragazza, che presenta ai lettori come Miriam. Con Miriam ha inizio una relazione, che si carica a mano a mano di una gelosia per il presente e anche per il passato. L’ossessione porta l’uomo ad avvelenare la donna e a mangiarne il corpo, o almeno questo è ciò che egli racconta al commissario e ai lettori. Fra tanti depistaggi, menzogne, ritrattazioni che costellano questo romanzo, la data del primo lungo bacio fra l’uomo e Miriam – al Gianicolo – sembra essere un punto d’appoggio. È il 27 marzo “di quell’anno là”. Un giorno individuato dall’ora della levata del sole, dai santi e da un rito religioso che ha luogo durante la settimana di Pasqua. 

Dicono del libro
“Un uomo maniacalmente geloso della sua amante la uccide, quindi ne divora il cadavere e si autodenuncia: a un livello superficiale, Il serpente di Malerba lo si potrebbe riassumere così. Ma ben altra è la natura profonda, l’assoluta originalità del romanzo. Non soltanto alla lunga confessione dell’uomo si alternano – inquietante controcanto – astratte, folgoranti divagazioni/esortazioni affatto estranee alla ‘trama’ (…) ma il lettore non tarda ad apprendere dallo stesso Io narrante che egli mente, così che l’intera narrazione annulla in qualche modo se stessa”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
Altre storie che accadono oggi

tn-1

“… la data in cui si sarebbe svolta la riunione. Ebbe luogo il 27 marzo 1925, e fu ‘un’esplosione di parole stellari…”
Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile

 

tn-1
“… 27 furono gli anni che Stephan Zenith compì in quel 27 marzo a Vienna…”
Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile« »

Alle cinque e tre quarti del mattino eravamo ancora lì, dentro la mia Seicento multipla con i vetri appannati. Era il giorno 27 di marzo amoroso e ventoso di quell’anno là e il sole sorgeva esattamente alle sei e otto minuti. Era il giorno di San Giovanni Damasceno e di Santa Augusta Vergine, secondo mattutino delle tenebre, come dice il Barbanera. Quando aprii gli occhi (io bacio sempre a occhi chiusi) intorno a noi non c’era più nessuno, erano scomparse tutte le macchine, c’erano soltanto due poliziotti a cavallo. Gli uccelli si erano svegliati e cinguettavano a testa alta sui rami degli alberi, altri volteggiavano nell’aria come impazziti per la luce del giorno che stava spuntando mentre si spegnevano i lampioni comunali. Baciare è un’arte.
Un passero era venuto a posarsi sul cofano della macchina, poi era ripartito per un breve volo intorno al monumento di Garibaldi, l’Eroe del nostro Risorgimento. A rigore si può dire che per tutta la notte io e Miriam ci eravamo dati un solo lunghissimo bacio

Luigi Malerba, Il serpente, 1966, Mondadori, 1989, p. 57

 Arrivato a Roma da Parma, il narratore di questa storia gestisce un negozio di francobolli in via Arenula; sostiene di essere sposato e, a un certo punto, si trova a frequentare una scuola di canto, dove conosce una ragazza, che presenta ai lettori come Miriam. Con Miriam ha inizio una relazione, che si carica a mano a mano di gelosia rivolta non solo al presente, ma anche al passato. L’ossessione porta l’uomo ad avvelenare la donna e a mangiarne il corpo, o almeno questo è ciò che egli racconta al commissario e ai lettori. Fra tanti depistaggi, menzogne, ritrattazioni che costellano questo romanzo, la data del primo lungo bacio fra l’uomo e Miriam – al Gianicolo – sembra essere un punto d’appoggio. È il 27 marzo “di quell’anno là”. Un giorno individuato dall’ora della levata del sole, dai santi e da un rito che ha luogo durante la settimana di Pasqua. Un giorno trovato nell’Almanacco Barbanera del 1964.

Dicono del libro
“Un uomo maniacalmente geloso della sua amante la uccide, quindi ne divora il cadavere e si autodenuncia: a un livello superficiale, Il serpente di Malerba lo si potrebbe riassumere così. Ma ben altra è la natura profonda, l’assoluta originalità del romanzo. Non soltanto alla lunga confessione dell’uomo si alternano – inquietante controcanto – astratte, folgoranti divagazioni/esortazioni affatto estranee alla ‘trama’ (…) ma il lettore non tarda ad apprendere dallo stesso Io narrante che egli mente, così che l’intera narrazione annulla in qualche modo se stessa”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

26 Marzo

26 marzo 2013

« »

26 marzo. Per la terza volta ho visto Kimura-san senza mio marito. Ieri sera c’era una nuova bottiglia di Courvoisier, ancora intatta, posata nell’alcova. “L’hai portata tu?” ho chiesto a Toshiko, ma lei ha risposto di no. “La bottiglia già c’era quando son rincasata, ieri” ha proseguito. “Ho pensato che l’avesse portata Kimura-san” “Non ne so nulla nemmeno io,” ha detto Kimura-san. “Dev’essere stato suo marito. Sono certo che è così. Ci sta giocando uno scherzo complicatissimo”

Junichiro Tanizaki, La chiave, 1956, tr. it. Satoko Toguchi, Bompiani, 2009, p. 67

Due coniugi giapponesi scrivono entrambi un diario, in cui raccontano – da due punti di vista –  i desideri, i sogni, le perversioni e gli accadimenti delle loro giornate. All’apparenza di nascosto, ma in realtà sapendo che ognuno leggerà quanto ha scritto l’altro, secondo il “tacito accordo di comportarci come se ignorassimo i reciproci segreti”. Questo gioco parallelo, che vede complice anche la figlia Toshiko e  Kimura, un amico di famiglia, è iniziato a gennaio e ora, in primavera, la donna ha scoperto che nel diario del marito sono attaccate le foto di lei nuda, scattate mentre dorme – o finge di dormire – ubriaca di cognac Courvoisier. La vicenda sta per giungere a un apice, con la morte dell’uomo, che cambia la prospettiva del gioco, ma non impedisce alla donna di continuare a scrivere il suo diario, in cui per 121 giorni si collegano il piacere, la memoria  e il tempo. 

Dicono del libro
“Il romanzo è costituito dai diari che marito e moglie scrivevano ognuno per proprio conto, fingendo di confessarvi i più inconfessabili segreti, e in verità non ignorando che l’uno leggerà subito ciò che l’altro ha scritto: – ma l’ha scritto per se stesso o per inviare un messaggio? e tale messaggio è sincero, è un appello, o una mossa tattica nel giuoco dell’inganno?”
(dall’introduzione di G. Pampaloni, ed. Bompiani, op. cit.)

 

Altre storie che accadono oggi

tn-1

“… Pioveva e la terrazza era gremita di ombrelli. Anche le banche erano in sciopero. Il 26 marzo ebbe inizio lo sciopero generale…”
Yukio Mishima, Una stanza chiusa a chiave

tn-1
“… Il 26 marzo u.s. la consorte del tenente colonnello Rawdon Crawley delle Life Guards Green ha dato alla luce il suo primogenito…”
William Thackeray, La fiera della vanità

tn-1

“… 26 marzo. Siamo stati privi di quattrini per parecchi giorni…”
Saul Bellow, L’uomo in bilico« »

26 marzo. Per la terza volta ho visto Kimura-san senza mio marito. Ieri sera c’era una nuova bottiglia di Courvoisier, ancora intatta, posata nell’alcova. “L’hai portata tu?” ho chiesto a Toshiko, ma lei ha risposto di no. “La bottiglia già c’era quando son rincasata, ieri” ha proseguito. “Ho pensato che l’avesse portata Kimura-san” “Non ne so nulla nemmeno io,” ha detto Kimura-san. “Dev’essere stato suo marito. Sono certo che è così. Ci sta giocando uno scherzo complicatissimo”

Junichiro Tanizaki, La chiave, 1956, tr. it. Satoko Toguchi, Bompiani, 2009, p. 67

Due coniugi giapponesi scrivono entrambi un diario, in cui raccontano – da due punti di vista –  i desideri, i sogni, le perversioni e gli accadimenti delle loro giornate. All’apparenza di nascosto, ma in realtà sapendo che ognuno leggerà quanto ha scritto l’altro, secondo il “tacito accordo di comportarci come se ignorassimo i reciproci segreti”. Questo gioco parallelo, che vede complice anche la figlia Toshiko e  Kimura, un amico di famiglia, è iniziato a gennaio e ora, in primavera, la donna ha scoperto che nel diario del marito sono attaccate le foto di lei nuda, scattate mentre dorme – o finge di dormire – ubriaca di cognac Courvoisier. La vicenda sta per giungere a un apice, con la morte dell’uomo, che cambia la prospettiva del gioco, ma non impedisce alla donna di continuare a scrivere il suo diario, in cui per 121 giorni si collegano il piacere, la memoria  e il tempo. 

Dicono del libro
“Il romanzo è costituito dai diari che marito e moglie scrivevano ognuno per proprio conto, fingendo di confessarvi i più inconfessabili segreti, e in verità non ignorando che l’uno leggerà subito ciò che l’altro ha scritto: – ma l’ha scritto per se stesso o per inviare un messaggio? e tale messaggio è sincero, è un appello, o una mossa tattica nel giuoco dell’inganno?”

(dall’introduzione di G. Pampaloni, ed. Bompiani, op. cit.)

 

March 2525 Marzo

25 marzo 2013

« »

MARCH 25, MORNING. A troubled night of dreams. Want to get them off my chest.

A long curving gallery. From the floor ascend pillars of dark vapours. It is peopled by the images of fabulous kings, set in stone. Their hands are folded upon their knees in token of weariness and their eyes are darkened for the errors of men go up before them for ever as dark vapours.

James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man

« »

Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d’innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili di lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme

Gabriele D’Annunzio, Il Piacere, 1889, Mondadori, 1990, p. 13

Andrea Sperelli, mentre attende di rivedere Elena Muti, la sua amante di due anni prima – ora sposata con un gentiluomo inglese – torna col pensiero al giorno della loro separazione, il 25 marzo del 1885. In quella giornata di vento forte, hanno percorso la via Nomentana in carrozza e si sono fermati in un’osteria romanesca, sull’Aniene. Nella luce suggestiva del tramonto, lei gli ha comunicato la decisione di partire e si sono separati, non senza passione, sotto l’arco di Porta Pia. Ora che ha incontrato di nuovo la sua vecchia amante, Andrea “rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole” di quel giorno, che viene richiamato ancora nel corso del romanzo, così come sono molti gli accenni al clima di marzo (mese in cui D’Annunzio era nato nel 1863 e sarebbe morto nel 1938).

Dicono del libro
“Edito nel 1889, nello stesso anno e con maggior fortuna del Mastro-don Gesualdo di Verga, Il Piacere è il primo dei romanzi dannunziani. L’esperienza biografica nella Roma di fine secolo, mondana e bizantina, si fa letteratura: ‘Nel personaggio di Andrea Sperelli’ scrive D’Annunzio ‘c’è assai di me stesso colto sul vivo'”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

 

March 2424 Marzo

24 marzo 2013

« »

 24 March 1916. Since May of last year, I haven’t again touched this little book

Italo Svevo, Zeno’s Conscience

 « »

 24 marzo 1958

In determinate condizioni di atmosfera, di ora e di luce possiamo vedere anche a occhio nudo i tre piccoli satelliti artificiali che l’uomo lanciò dalla Terra verso gli spazi interplanetari dal 1955 al 1958; e ivi sono rimasti appesi, presumibilmente per sempre, girando girando intorno a noi. In certi crepuscoli d’inverno quando l’aria è come cristallo, tre minuscoli punti brillano, di un fisso e corrucciato splendore; due vicini che quasi si toccano, uno più in là, solitario

Dino Buzzati, 24 marzo 1958, in Sessanta racconti, 1958, Mondadori, p. 293

Il 24 marzo 1958 è la data della messa in orbita dell’ultimo di una serie di tre satelliti che – da allora al presente immaginato nel racconto, il 1975 – continuano a girare intorno alla Terra. È una data più importante della scoperta dell’America o della rivoluzione francese, dopo la quale l’umanità è cambiata. Gli ultimi messaggi trasmessi dall’equipaggio alludono infatti a una strana musica e all’arrivo in un luogo che forse è il paradiso. Gli astronauti non sono tornati dai viaggi e i tre satelliti continuano a girare, lasciando il dubbio che il regno dei cieli – con la sua musica sovrumana – sia pericolosamente vicino, proprio alle porte del pianeta Terra, di questa “pulce delle pulci disseminate nell’Universo”.

Dicono del libro
“Riuniti in raccolta dallo stesso Buzzati nel 1958, i Sessanta racconti vengono a ragione considerati una vera ‘summa’ del mondo poetico dello scrittore. Vi si trova rappresentata l’intera gamma dei suoi motivi ispiratori, dalla visione surreale della vita all’orrore per la città, dagli automatismi esistenziali introdotti dall’uomo tecnologico alla suggestione metafisica”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)