6 Ottobre

6 ottobre 2015

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Ma il barone Paolo dichiarò lealmente che, sebbene queste triglie fossero ottime, egli continuava a rimpiangere le triglie che aveva mangiato in casa della nuora il 6 ottobre 1902. “Io non capisco più come devo friggerle”, disse la signora Marietta, “ho provato in tutti i modi, ma non riesco mai ad accontentare papà”. “Non è esatto quello che dici”, ribatté il barone, “sono contentissimo di come tu fai friggere le triglie. Queste di oggi, per esempio, sono eccellenti, ma le triglie che ho mangiato a casa tua il 6 ottobre 1902…”, il barone socchiuse gli occhi facendo del presente la luce che si vede al di là di un tunnel, mentre nell’ombra della memoria riappariva una tavola imbandita sotto la pergola, e circondata da gente in gran parte defunta, “avevano qualcosa… io non so bene… un sapore così delicato e insieme così stuzzicante… si sentiva il mare e si sentiva pure la buona frittura…”

Vitaliano Brancati, Paolo il caldo, 1955 (post.), Mondadori 1976, p.60

A Catania, nel palazzo della famiglia Castorini si consuma il pranzo dell’una, fra discussioni politiche e portate di carne e di pesce. A tavola siede il vecchio barone Paolo – il nonno di quel Paolo che, con la sua ossessione erotica, dà il titolo al libro; è un uomo in grado di bere cinque bicchieri di vino di seguito, a differenza del figlio Michele, che si è già ritirato dalla tavola per tornare nel suo studio. Intorno a un piatto di triglie fritte le lingue si sciolgono “come la campane del sabato santo” e una data precisa del passato – un 6 di ottobre di molti anni prima – è richiamata al presente nella conversazione: si tratta di un ricordo suscitato nel barone dai sapori e dagli odori, con un meccanismo tipico della memoria, che è in grado di associare le sensazioni ad alcune date.

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5 Ottobre

5 ottobre 2015

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Interrompo questo diario, come lo interruppi allora, con stupore, il 5 ottobre, alle dodici di notte, accorgendomi che tutto ciò che Porfiria aveva scritto nel suo diario quasi un anno prima stava verificandosi. Roberto Cárdenas era venuto a mangiare quella sera per la prima volta. E lì avevo, davanti ai miei occhi, la data incredibile, 5 ottobre, scritta sulla pagina del diario, come una testimonianza magica, infernale. Il quaderno era stato in mio potere per tutto quel tempo

Silvina Ocampo, Il diario di Porfiria Bernal, 1961, tr. it. L. Bacchi Wilcock, in Porfiria, Einaudi, 1973, p. 275

Il 5 ottobre è la data in cui il racconto di Antonia Fielding – istitutrice inglese al servizio della famiglia Bernal a Buenos Aires – e il diario della sua piccola allieva Porfiria, si incontrano per un istante nel tempo “reale”, rivelando le doti premonitrici della bambina. Come se vedesse dentro le persone che passano per la sua casa, intuendone i segreti, la piccola Porfiria annota giorno dopo giorno gli accadimenti, le immaginazioni, le visioni, finché la sua voce copre quella del racconto di Antonia, che si è accorta con stupore del potere di quel diario.

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4 Ottobre

4 ottobre 2015

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Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1975, p. 7

Comincia così, in un’Italia divisa dall’armistizio dell’8 settembre 1943, il lungo racconto del viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambrìa a Cariddi, dopo aver attraversato a piedi le coste della Calabria, il «paese delle Femmine». A traghettarlo clandestinamente lungo le acque dello Stretto, in una notte senza luna popolata da visioni, sarà la figura ammaliante della «femminota» Ciccina Circè, espressione, già nel suo nome omerico, di una femminilità potente e trasgressiva come il suo linguaggio che ‘Ndrja fa fatica a comprendere («Io, parola mia, non vi riesco a penetrare tutta…»). Il mare dello «scill’e cariddi», quello attraversato e quello che fa da sfondo alle storie di uomini e donne che vivono lungo le sue rive, è il vero polo d’attrazione del romanzo: luogo fisico e mentale, è infatti lingua, letteratura, tempo e memoria. In questo mare-mondo, che contiene l’origine e la fine di tutto, che è genesi e apocalisse, il traghettamento del protagonista tra i contrari della vita ha un alto valore simbolico e figurale. All’arrivo in Sicilia, ‘Ndrja troverà una terra stravolta, devastata dalla guerra, quasi irriconoscibile ai suoi occhi, offesi dal dolore per tanto degrado e tanta miseria. Per di più, il suo nostos coinciderà con quello dell’Orca, il Leviatano simbolo di morte, con cui sembra condividere la parabola esistenziale: quattro giorni impiega ‘Ndrja per arrivare al paese delle femmine, che sarà l’inizio della sua fine, e per quattro giorni l’Orca si aggira nello «scill’e cariddi» prima di “riassommare” e di andare incontro alla morte.

Il tempo reale entro il quale prendono corpo le 1257 pagine del romanzo si dispiega biblicamente lungo l’arco temporale della creazione, sette giorni, nel corso dei quali le peripezie fisiche e mentali vissute da ‘Ndrja assumono il valore di un’esperienza conoscitiva, che avrà la sua acme nell’incontro con un vecchio «spiaggiatore», «linguto e occhiuto». A lui lo scrittore affida di esporre la sua teoria della conoscenza della vita, fondata su tre diversi gradi: l’ingannevole e infondato «sentitodire», il solido e concreto «vistocogliocchi» e l’immaginifico e fantastico «visto cogli occhi della mente»: «Voi, amico del sole, vi dovete immaginare di vedere…». Allora, se vedi con gli occhi della mente tutto diventa possibile, le distanze tra lingue e culture si annullano e quella lingua di mare dello «scill’e cariddi» è sì Calabria e Sicilia, ma è anche Grecia, Africa, mille e una notte. Tutto diventa possibile perché l’«andamento epico-magico» (M. Corti) della scrittura di D’Arrigo attiva un fervore espressivo che gioca sulla sovrapposizione dei registri stilistici e sulla contaminazione espressionistica di lingua e dialetto. È necessaria una nuova lingua per dire l’indicibile, per raccontare il tempo impastato della storia dell’uomo, anche a rischio che essa diventi un labirinto per il lettore, che deve cercare in vocabolari immaginari o nella memoria di lingue ignote il senso delle parole che il racconto fa fiorire per gemmazione. D’Arrigo è un narratore lirico. L’ultima conferma è nelle parole che chiudono il romanzo: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Parole che riecheggiano simbolicamente i versi epici di una sua più antica poesia, dove il destino del personaggio si conclude oniricamente nello stesso mare in cui ‘Ndrja avrebbe trovato la morte:

«Qui, dove m’assomiglio, in patria,
sui prati, ora in cenere, d’Omero,
io da una guerra reduce, e da quante
un gran figlio mi ricorda mia madre,
perduto con lo scudo o sullo scudo,
desidero tornare spalla a spalla
coi miei amici marinai che vanno
sempre più dentro nei versi, nel mare».
(Sui prati, ora in cenere, d’Omero)

Commento di Gianfranco Crupi

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3 Ottobre

3 ottobre 2015

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Edgar fissa la data odierna. 3 ottobre 1951. Registra la data. Se la imprime nella mente. Sa che la cosa non è del tutto inaspettata. È la seconda esplosione atomica dei russi. Ma è una notizia dura da incassare, lo mette in agitazione, lo costringe a pensare alle spie che hanno trasmesso i segreti, alla possibilità di testate nucleari inviate alle forze comuniste in Corea. Se li sente alle spalle, sempre più vicini, che guadagnano terreno, sorpassano. La cosa lo turba, lo cambia fisicamente mentre se ne sta lì impalato, la pelle tesa sulla faccia, lo sguardo fisso.
Rafferty è più in basso sulla rampa rispetto a Hoover.
Sì, Edgar si imprime in testa la data. Pensa a Pearl Harbor, meno di dieci anni prima, anche quel giorno era a New York, e la notizia era stata un bagliore nell’aria, lo scatto di un flash su ogni cosa, oggetti comuni caldi e carichi di elettricità.
Il rumore della folla esplode sopra di loro

Don DeLillo, Underworld, 1997, tr. it. D. Vezzoli, ed. cons. Einaudi, 1999, p. 19

Il 3 ottobre 1951 è la data d’avvio delle vicende – a volte intrecciate e conseguenti, a volte parallele e contigue – del romanzo Underworld. L’Edgar citato nel brano è il capo dell’FBI, il celebre Edgar Hoover: si trova allo stadio, a vedere la partita di baseball fra i Giants e i Dodgers, quando viene a sapere che l’Unione Sovietica ha compiuto un esperimento nucleare. Intanto, un memorabile evento sportivo sta per avere luogo mentre Edgar è preso dalle sue preoccupazioni di stato. La squadra dei Giants vince la partita e la palla della vittoria – con i suoi passaggi di proprietà – sarà d’ora in avanti uno dei fili conduttori della storia. Così come la data – 3 ottobre – le cui cifre sono legate al 13, numero fatale, soprattutto negli Stati Uniti: “I Giants hanno incominciato la corsa al campionato con tredici partite e mezzo meno dei Dodgers. Il mese e il giorno della partita di ieri. Tre del dieci. Somma le cifre e ottieni tredici”.

 

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2 ottobre

2 ottobre 2015

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Arrotolai il sacco a pelo, lo ficcai nello zaino, misi lo zaino sulle spalle, camminai fino alla stazione e lì chiesi all’impiegato come dovevo fare per tornare a Tokyo a quell’ora. Guardò l’orario dei treni e disse che se prendevo un treno notturno sarei arrivato a Osaka la mattina e da lì avrei potuto prendere lo Shinkansen per Tokyo. Ringraziai e con i cinquemila yen che mi aveva regalato il pescatore comprai un biglietto per Tokyo. Aspettando il treno comprai un giornale e guardai la data. Era il 2 ottobre 1970. Il mio viaggio era durato giusto un mese. Coraggio, torniamo alla realtà, mi dissi

Murakami Haruki, Norwegian Wood. Tokyo Blues, 1987, tr. it. G. Amitrano, ed. cons. Einaudi, 2006, p. 352

Su un aereo per Amburgo, ascoltando una versione orchestrale di Norwegian Wood dei Beatles, un uomo – un giapponese di trentasette anni – è preso dai ricordi del passato, dalle immagini di una ragazza, Naoko, frequentata una ventina di anni prima. Ha inizio così un percorso nella memoria e nel tempo, che si allunga “come le ombre al tramonto”. La prima immagine che rievoca è quella di un paesaggio autunnale, un prato attraversato dal vento di ottobre, una conversazione con Naoko. Gli anni sono quelli fra il 1968 e il 1970: la vita nel collegio per studenti a Tokyo, le manifestazioni all’università, le letture, i rapporti con i rari amici e le ragazze, i dubbi, le scomparse. Dopo la morte della ragazza, il narratore è partito per un viaggio senza una meta precisa, che si conclude –

con la decisione di tornare a Tokyo – il 2 di ottobre.

 

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1 Ottobre

1 ottobre 2015

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L’ottobre venne come sogliono venire i nuovi mesi; il suo è un arrivo modesto e silenzioso sotto tutti i rapporti, senza segni esteriori, un muto insinuarsi dunque, che sfugge facilmente all’attenzione se questa non mantiene un ordine severo. Il tempo in realtà non ha suddivisioni, non ci sono tempeste, non v’è rumoreggiare di tuoni all’inizio del nuovo mese o del nuovo anno, ed anche a quello del nuovo secolo; siamo soltanto noi uomini che spariamo e tuoniamo. Nel caso di Giovanni Castorp, il primo giorno di ottobre fu identico agli ultimi giorni di settembre, fu altrettanto immusonito e freddo come quelli e come gli altri che lo seguirono

Thomas Mann, La montagna incantata, 1924, tr. it. G. Giachetti-Sorteni, Dall’Oglio 1930 (1976), vol. I, p.249

Sulla montagna incantata (o magica, secondo una recente traduzione), il tempo è chiamato continuamente in causa. Sia il tempo meteorologico, poiché su quella montagna delle Alpi svizzere si trova il sanatorio per le malattie dei polmoni, i cui ospiti sono i protagonisti del romanzo, sia – soprattutto – il tempo del calendario. Il soggiorno del giovane ingegnere Giovanni Castorp – in visita a un cugino – doveva durare meno di un mese, e invece – scopertosi malato – si prolunga per anni, trasformando abitudini e aspettative. Mentre le stagioni cambiano, i giorni avanzano come le lancette di un enorme orologio, e il tempo è sentito come una beffa, un mistero, un trucco senza spiegazione.

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30 Settembre

30 settembre 2015

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Così i giorni, gli ultimi giorni, turbinano nella mia memoria, indistinti, autunnali, tutti eguali come foglie: fino a un giorno diverso da tutti quelli che ho vissuto.
Accadde in autunno, il 30 settembre, il giorno del mio compleanno, particolare che non ebbe alcun peso sugli avvenimenti, a parte il fatto che, sperando in un ricordino finanziario della mia famiglia, aspettavo con impazienza la visita mattutina del portalettere. Anzi, scesi dabbasso per vederlo prima. Se non fossi stato nell’atrio in attesa, Holly non mi avrebbe invitato ad andare a cavallo e, di conseguenza, non avrebbe avuto modo di salvarmi la vita

Truman Capote, Colazione da Tiffany, 1958, tr. it. B. Tasso, ed. cons. Garzanti, 1973, pp. 99-100

Mentre in Europa si combatte una guerra a cui partecipano anche molti soldati americani – fra cui Fred, il fratello della protagonista di questa storia – la giovane e bizzarra Holiday (Holly) Golightly fa di ogni giorno una festa, come dice il suo nome, o almeno ci prova. Fra l’autunno del 1943 e quello del 1944, a New York, trascorrono le sue vicende, raccontate dal vicino di casa, aspirante scrittore (e riprese nel celebre film, interpretato da Audrey Hepburn). Sposata giovanissima con un veterinario, “stellina cinematografica”, corriere di messaggi in codice per conto di un contrabbandiere in carcere, incinta di un politico brasiliano, Holly è eccentrica e imprendibile, continuamente di passaggio, “in transito”, come è scritto sulla sua porta. Il 30 settembre è una data cruciale nella storia: compleanno del narratore, è il giorno in cui questi cade da cavallo durante un giro in Central Park e in cui Holly viene arrestata per i suoi contatti con la malavita. Il 30 settembre era anche il compleanno dell’autore di Colazione da Tiffany: Truman Capote, nato il 30 settembre del 1924.

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29 Settembre

29 settembre 2015

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Fattoria Grange
Old Heanor, 29 settembre

[…] Questo è il mio quarantesimo inverno. E non c’è nulla che possa fare per tutti gli inverni che sono passati. Ma quest’inverno resterò fedele alla mia fiammella di Pentecoste, e avrò un po’ di pace. Non permetterò che il fiato della gente la spenga. Credo in un mistero superiore che non fa morire nemmeno il croco. E anche se tu sei in Scozia e io sono nei Midlands e non posso stringerti tra le braccia e mettere le mie gambe intorno a te, di te ho ugualmente qualcosa. La mia anima batte dolcemente le ali con te nella fiammella della Pentecoste, ed è come la pace che si raggiunge scopando. Scopando, abbiamo messo al mondo una fiammella. E, scopando, il sole e la terra mettono al mondo i fiori. Ma è una cosa delicata, ci vuole pazienza, ci vuole una lunga pausa

David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, 1928, tr. it. S. Melani, Garzanti 1987, p.358-61

La lunga lettera del guardacaccia Oliver Mellors a lady Constance, la moglie di Clifford Chatterley, conclude il romanzo di David Herbert Lawrence. È spedita dalla fattoria dove l’uomo sta lavorando in attesa che Constance – che aspetta un figlio da lui – lo raggiunga, per cominciare la nuova vita insieme, lontano dai rispettivi coniugi, una nuova vita in armonia con la natura e con i sensi. In attesa dell’estate, del bambino e della riunione con Constance, Oliver descrive la sua situazione e il suo punto di vista sulla vita, in un giorno di autunno, il 29 settembre, ultima data del libro.

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28 Settembre

28 settembre 2015

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28.9.1932 […] Non è questa prima giornata di avvertibile autunno (la prima giornata di freddo non fresco che veste l’estate morta di minore luce) che mi dà, in una trasparenza straniata, una sensazione di proposito morto o di falsa volontà. Eppure non c’è, in questo interludio di cose perdute, una traccia incerta di memoria inutile. È, più dolorosamente, un tedio di stare rammentando ciò che non si ricorda, uno scoraggiamento di ciò che la coscienza ha perso fra alghe o giunchi, in riva a non so cosa. Vedo che la giornata, limpida e immobile, ha un cielo positivo, di un azzurro meno chiaro dell’azzurro profondo. Vedo che il sole, leggermente meno dorato di prima, infiamma di riflessi umidi i muri e le finestre. Mi rendo conto che, nonostante non ci sia vento, o brezza che lo ricordi e lo neghi, nella città indefinita dorme tuttavia una frescura sveglia. Mi rendo conto di tutto ciò, senza pensare o volere, e non ho sonno se non come ricordo, e non ho nostalgia se non come inquietudine

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, 1982 (post.), tr. it. M. J. De Lancastre, A. Tabucchi, Feltrinelli 1987, p.138

Bernardo Soares, impiegato contabile in una ditta di tessuti, passa le sue giornate nel suo ufficio al centro di Lisbona. Giornate tutte simili, senza grandi avvenimenti esteriori, ma ricche di osservazioni sottili sul tempo, il tempo che passa e quello atmosferico. Il 28 settembre del 1932, Soares riprende a scrivere i suoi pensieri dopo una lunga pausa e si accorge del cambiamento di luce, temperatura e atmosfera che ha portato con sé la prima settimana di autunno. Cerca – come fa sempre – di descrivere le piccole variazioni che segnano il cambiamento, da un giorno all’altro, come stazioni successive della corsa del tempo.

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27 Settembre

27 settembre 2015

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27 settembre 1990
Berlino, Amalienpark

Un altro “giorno dell’anno”, per la trentesima volta. Senza l’indicazione sul calendario non avrei pensato all’obbligo che ho da assolvere oggi. Sono tentata di interrompere questo progetto più per un’inibizione profonda che per l’usuale svogliatezza. Da mezz’ora siedo inattiva davanti al foglio su cui voglio prendere appunti. Conosco da un pezzo la causa dei miei “blocchi”: un’invincibile resistenza a prendere atto di cose che mi toccherebbero troppo da vicino. Naturalmente è sempre possibile descrivere i rituali: alzarsi, fare colazione, bere il tè, sfogliare il giornale, che con mia sorpresa non mi interessa affatto, tanto che adesso già non so più che cosa ho letto. Ma questi rituali mi appaiono troppo insignificanti in un periodo in cui tutto è “fuori dai cardini”. Il tempo fa sempre il suo corso, oggi coperto ma non ancora freddo. Il sole, leggo sul calendario, è sorto alle 5.54 e tramonterà alle 17.48, mentre la luna sorgerà alle 14.50 e tramonterà alle 22.05. Adesso sono le 10.30, e come quasi ogni mattina mi meraviglio di quante attività sono capace di inventarmi per evitare di mettermi alla scrivania

Christa Wolf, Un giorno all’anno 1960-2000, 2003, tr. it. A. Raja, ed. cons. edizioni e/o, 2013, p. 390

Nel 1960, il giornale moscovita Isvestija pubblicò un invito rivolto agli scrittori: raccontare un giorno di quell’anno, per la precisione il 27 settembre. Si trattava di un progetto già tentato negli anni Trenta con il titolo “Un giorno nel mondo”. Un’idea – questa – che porta la giornata dallo sfondo al primo piano della storia, mettendo in luce le ripetizioni e le variazioni che, tutte insieme e giorno dopo giorno, costituiscono la vita. Rispondendo all’invito della rivista, a partire dal 1960, la scrittrice tedesca Christa Wolf descrive quello che le accade ogni 27 settembre, per quarant’anni di seguito, fino al 2000. Il brano di oggi racconta, dal risveglio svogliato alla cena, il 27 settembre del 1990, un anno “attraversato da un asse intorno al quale il tempo si “rivolge”, un anno di svolta.

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26 Settembre

26 settembre 2015

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Quando la calma fu ristabilita, facemmo avvicinare i due litiganti alla tavola di pietra, pigiare i pollici nel bitume e mettere le loro impronte digitali sul contratto. Quando fu il suo turno, Wainaina, riluttante, gemette come se la carta gli scottasse il pollice. Il contratto diceva:
“Il seguente contratto è stato concluso a Ngong, oggi 26 settembre, fra Wainaina e Kaninu wa Muture, alla presenza del Capo Kinanjui che ne ha preso visione

Karen Blixen, La mia Africa, 1937, tr. it. L. Drudi Demby, Garzanti, 1966, pp. 137-138

Come oggi, era un 26 settembre, in Kenya, quando la fattoria di Karen Blixen si trasforma in una corte di giustizia, per discutere di un incidente accaduto tempo prima. Intorno alla mola del mulino, fra i testimoni e la folla, la scrittrice danese (che in Africa possedeva una coltivazione di caffè), è riconosciuta come giudice. Il risarcimento del danno è fissato in una vacca e un vitello; il patto è suggellato dalle impronte digitali delle parti e controfirmato dalla Blixen, che racconta questa giornata nel racconto-diario La mia Africa, ricordando la data precisa di un 26 settembre africano.

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25 Settembre

25 settembre 2015

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Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25 Settembre, la vigilia della partenza di don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo già di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958 (post.), Feltrinelli 1993, p.119

Garibaldi è sbarcato in Sicilia, e l’Italia sta diventando una nazione, mentre a Donnafugata, nel giardino del palazzo di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, qualcuno osserva due giovani che si baciano. È un 25 settembre che sembra ancora estate e i due sono Tancredi Falconieri, nipote del Principe, e Angelica, bellissima figlia di Calogero Sedara, la cui recente fortuna è frutto di traffici e speculazioni. Il bacio è la prova che suggella l’unione delle due famiglie, un patto matrimoniale fra l’antica nobiltà e la nuova ricchezza, sotto lo stemma azzurro in cui campeggia il Gattopardo.

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24 Settembre

24 settembre 2015

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24 settembre
Mi sono svegliato tardi e senza appetito. Meglio così perché i soldi che mi restano sono pochi. La pioggia non è diminuita. Alla reception, quando chiedo di Frau Else, mi dicono che è a Barcellona o a Girona, al Gran Hospital, insieme al marito. Sulla gravità delle condizioni di quest’ultimo il commento è inequivocabile: sta morendo. La mia colazione è consistita in un latte e caffè e un croissant. Nel ristorante rimaneva solo un cameriere per servire cinque vecchi surinamesi e me.
L’Hotel del Mar, di colpo, si è svuotato. A metà pomeriggio, seduto sul balcone, mi sono reso conto che il mio orologio non funzionava. Ho cercato di caricarlo, gli ho dato qualche botta, ma non c’è stato niente da fare. Da quanto tempo è fermo? La cosa ha un qualche significato? Lo spero

Roberto Bolaño, Il Terzo Reich, 2010 (postumo), tr. it. I. Carmignani, Adelphi, 2010, p. 308

Il diario del giovane tedesco Udo Berger – in vacanza con la fidanzata in un albergo sulla Costa Brava – è cominciato il 20 di agosto e termina dopo poco più di un mese, insieme con la stagione balneare. Durante quel periodo si è dedicato a un wargame sul Terzo Reich, montato su un grande tavolo nella sua stanza. Oltre a Frau Else, la proprietaria dell’albergo, Udo conosce strani personaggi, con cui ingaggia partite piene di tensione, mentre il tempo del gioco si insinua in quello della vicenda. Fino alla fine del suo soggiorno, il 24 settembre, vigilia della partenza.

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23 Settembre

23 settembre 2015

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Stavo attento a tutto, anche ai passaggi di stagione, ma la natura non si preoccupa di dare i suoi avvisi. Il 23 settembre si passava dall’Estate all’Autunno, io stavo lì a aspettare, ma non succedeva niente. Nessuno sembrava accorgersene, non avevo notato nulla di speciale, la solita gente che passava con indifferenza sulla strada, niente. Il giorno dopo l’aria era diventata pesante, il cielo nero, carico di onde elettromagnetiche, lampi, tuoni. Forse forse qualcosa incominciava a succedere, mi dicevo

Luigi Malerba, Il serpente, 1966, ed. cons. Mondadori, 1989, pp. 129-30

Da dietro la vetrina del suo negozio di francobolli, il narratore – arrivato a Roma da Parma – guarda la città che si muove, con la sensazione che “alla fine della giornata non è successo niente, l’unica cosa che è successa è la giornata che è passata via senza che succeda niente”. Anche i fatti che vengono raccontati – amori, gelosie, sogni, addirittura un assassinio – sono incerti, forse mai accaduti, ma solo immaginati dal narratore, sullo sfondo di Roma e di Parma, in un tempo anch’esso incerto, in cui si riconoscono alcune giornate speciali, fra le quali quella dell’equinozio d’autunno (la cui data oscilla in genere fra il 22 e il 23 settembre) e che nell’anno del racconto cadeva (come nel 2014)  il 23 del mese.

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22 Settembre

22 settembre 2015

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Il maggiore ed il preferito era Frodo Baggins. A novantanove anni Bilbo lo adottò e lo portò con sé a Casa Baggins, e tutte le speranze dei Sackville-Baggins sfumarono. Si dà il caso che tanto Bilbo quanto Frodo festeggiassero il compleanno il 22 settembre.
“Sarebbe meglio che tu venissi a stare da me”, disse un giorno Bilbo, “così potremmo festeggiare insieme i nostri compleanni”.
A quell’epoca Frodo era ancora negli enti, come gli Hobbit chiamavano gli irresponsabili anni tra l’infanzia e la maggiore età (33)

John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli, 1954-55, tr. it. Q. Principe, ed. cons. Rusconi,1993, pp. 47-48

Nella terra di mezzo, mondo fantastico abitato da creature fatate, la Contea è un’isola di rustica serenità e spensieratezza abitata da piccoli esseri laboriosi chiamati hobbit. Creature per natura longeve, uno fra loro è in procinto di raggiungere la veneranda età di cento undici anni: si tratta di Bilbo Baggins, zio adottivo del protagonista Frodo e possessore di un anello incantato, oggetto della brama di re e stregoni. Ereditato il magico anello, il destino dei popoli liberi sarà nelle mani del giovane hobbit, che lascerà per la prima volta il proprio locus amoenus per un viaggio ricco di peripezie. È proprio il 22 settembre – compleanno sia del vecchio Bilbo che del giovane Frodo – che l’avventura ha inizio, con una grande festa nella giornata assolata. (Commento di Oliviero Eletti)

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21 Settembre

21 settembre 2015

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Quel 21 settembre i titoli dei giornali della sera annunciavano a tutti i baiani: CITTA’ IN FESTA – LA PRIMAVERA E I MARINAI.
Al bar Flor-de-São-Miguel, la sera precedente, prima che si sapesse dell’invasione di rua Barroquinha da parte delle forze di polizia della Sezione Giuoco e Buoncostume e del grido di guerra di Nilia Cabarè, e prima del pronunciamento di Exú Tirirí, il giovane Kalíl Chamas aveva biasimato con parole piene di infiammata indignazione la pletora di pedissequi imitatori dei costumi europei che festeggiavano l’arrivo della primavera nel bel mezzo dei piovaschi settembrini – una caterva di idioti, gli stessi che, in occasione della Pasqua, travestivano i figli da conigli e, nel più torrido dicembre, collocavano fiocchi di cotonina sugli alberi di Natale simulando le nevi invernali (…) Seduto al tavolino del bar si sfoga contro il vezzo idiota di importare abitudini straniere che in Brasile non hanno senso. Ai Tropici l’inverno dura sei mesi di pioggia e l’estate sei mesi di calore soffocante: parlare di primavera e d’autunno è ridicolo

Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra, 1972, tr. it. G. Segre Giorgi, Einaudi 1975, p.485, 486

Dopo molte vicissitudini, dopo aver ucciso il suo violentatore, dopo essere stata amante, prostituta, infermiera, ballerina di samba, Teresa Batista si trova nella città brasiliana di Bahia. Grande è il disordine di quei giorni in cui gli interessi degli speculatori e degli sfruttatori della prostituzione – aiutati dalla polizia – si scontrano con la rivolta delle donne, mentre una nave americana piena di marinai, potenziali clienti, sta entrando in porto. Il calendario segna il 21 settembre e dunque – nell’emisfero meridionale – l’inizio della primavera. E proprio una festa della primavera, con la sfilata, si prepara, come annuncia il giornale della sera. Ma in quella zona del Brasile – fa notare uno studente – parlare di primavera e di autunno è “puro colonialismo”, una tradizione importata dall’Europa.

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20 Settembre

20 settembre 2015

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Settembre 20
Ecco fatto. Ho voluto ricopiare qui in questo mio giornalino il foglietto del calendario d’oggi, che segna l’entrata delle truppe italiane in Roma e che è anche il giorno che son nato io, come ci ho scritto sotto, perché gli amici che vengono in casa si ricordino di farmi il regalo

Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, 1912 (in volume), ed. cons. Giunti, 1994, p. 5

Il 20 settembre 1870 è il giorno della breccia di Porta Pia. Ventisette anni dopo, nello stesso giorno di settembre, nasce Giannino Stoppani, detto Gian Burrasca. Per il suo compleanno ha avuto in regalo dalla mamma un giornalino con la “rilegatura di tela verde e tutte le pagine bianche”. Su questo diario, racconterà le sue disavventure, le punizioni, gli slanci verso la libertà.
Per cominciare, non sapendo ancora cosa scrivere, ricopia proprio il foglietto del calendario del 20 settembre, 263° giorno dell’anno, Sant’Eustachio. Entrata delle truppe italiane in Roma. Luna piena.

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19 Settembre

19 settembre 2015

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andai prima nel bagno e pensai di buttarlo nel gabinetto, ma poi mi sembrò troppo banale, troppo pratico e troppo giusto, volevo il mio dramma, volevo adesso anche attribuire un significato all’anello, e andai in macchina fino a Klosterneuburg, rimasi lì per ore sul ponte sopra il Danubio nel primo vento invernale, poi presi l’astuccio dalla tasca del cappotto e tolsi l’anello dall’astuccio, perché non lo portavo già più da qualche settimana. Era il 19 settembre. Un pomeriggio freddo, era ancora giorno, lo gettai nel Danubio

Ingeborg Bachmann, Malina, 1971, tr. it. M. G. Manucci, Adelphi, 1973, pp. 194-195

La narratrice – una giovane scrittrice viennese – sta raccontando a un uomo che si chiama Malina i suoi sogni, pieni di situazioni angosciose, che hanno al centro la figura temibile del padre. In questo dialogo si parla di un anello che il padre le ha comprato dopo molte insistenze e di cui lei ora vuole liberarsi, immaginando prima di tirarglielo in faccia, poi di buttarlo nel bagno e infine di lanciarlo nel Danubio. Il Danubio è pieno di anelli gettati dai ponti – le dice l’uomo: ogni giorno qualcuno si toglie un anello e lo butta nel fiume. E così fa lei in un pomeriggio, forse sognato, che porta la data del 19 settembre.

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18 Settembre

18 settembre 2015

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Conoscevamo la data precisa, 18 settembre 1867, in cui il bisnonno del dottor Hoffman era arrivato nel mio paese, un esponente della piccola nobiltà dai magri mezzi, sfuggito a imprecisabili rovesci in un montagnoso principato slavo infestato dai lupi, che in seguito era stato soppresso giuridicamente durante la guerra franco-prussiana o qualche altra simile. Sapevamo che, quando era nato il figlio, suo padre gli aveva fatto l’oroscopo e poi aveva offerto alla levatrice che lo aveva aiutato a venire al mondo una ricompensa di alcune migliaia di dollari

Angela Carter, Le infernali macchine del desiderio, 1972, tr. it. L. Perria, Interno Giallo, 1989, p. 27

Le infernali macchine del desiderio del dottor Hoffman, romanzo del 1972, è noto anche come War of dreams (e i sogni son Desiderio, come il protagonista del libro). Riecheggia H.G.Wells ma il romanzo forse più immaginifico di Angela Carter è fantarealtà più che fantascienza. Ci ha messo dentro tutto, come in una vignetta di Jacovitti, di quello che amava e abitava il suo subconscio: femminismo, ambiguità sessuale, rapporto media e società (ed era solo il 1972!), tra ragione e sentimento, tra finzione artistica e realtà. Nel recensirlo, il “Fancy Fantasy” scrisse “ci si dimentica subito che il terreno che la Carter scruta con tanta cura è l’interno della sua stessa immaginazione, perché il mondo che descrive diventa reale come un resoconto naturalista”: e infatti nessuno come Angela Carter riesce a descrivere con precisione botanica la frutta e la verdura esposte nel banco di un mercato e allo stesso tempo collocare quel mercato in un mondo tanto lisergico da sembrare inventato da un altro Hofman(n) – Albert, il padre dell’LSD.
La storia sarebbe quella di un Dottor Faust le cui diaboliche macchine del titolo liberano il potere dell’immaginazione e la cui figlia (Albertina…vien da pensare che la Carter avesse davvero in mente lo scienziato svizzero) seduce Desiderio, l’io narrante, segretario del Ministro della Determinazione di un non identificato paese che sfugge ad Hoffman e sopravvive ai suoi inganni perché “riesce a non arrendersi al flusso dei miraggi”. Di fatto il romanzo è un affresco fiammingo, pieno zeppo di trame e figurine (e qualche data da ricordare), apparentemente normali e un po’ naif, ma che viste da vicino rivelano ghigni goffi e pose assurde. È la realtà, bellezza. And there’s nothing you can do about it. Nothing! (Commento di Silvia Veroli)

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17 Settembre

17 settembre 2015

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“Ma bene,” pensò il giovine signore Andrea von Ferschengelder, quando il barcaiolo quel dì 17 settembre 1778 gli ebbe posato la valigia in cima alla scala di pietra e si allontanava, “ma benissimo, costui mi pianta qui e festa signori, carrozze a Venezia non ce ne sono, chi non lo sa, un facchino, e che verrebbe a farci? è un angolo sperduto dove non passa un cane. Come se alle sei del mattino si facesse scendere di posta sulla Rossauerlande o tra i Weissgarber chi non è pratico di Vienna. So la lingua, e con questo? fanno di me quel che vogliono egualmente. E come rivolgersi a gente che non s’è mai vista e se ne sta dormendo placidamente – busso e dico: ehi, di casa?” – Sapeva che non l’avrebbe fatto, – intanto passi si avvicinavano sul lastrico sonoro netti e distinti nel silenzio del mattino, ci volle del tempo perché si facessero vicini, e un uomo in maschera uscì da una piccola calle, si avviluppò stretto nel mantello, lo tenne chiuso con tutte e due le mani, e fece per attraversare la piazza

Hugo von Hofmannsthal, Andrea o I ricongiunti, 1930, 1932 in volume (post.), tr. it. G. Bemporad, Adelphi 1970, pp.11-12

Ha inizio in una mattina di settembre del 1778 il viaggio in Italia del giovane Andrea. Dopo una sosta in Carinzia, dove è caduto vittima di un imbroglio e si è innamorato di una ragazza, Andrea è arrivato a Venezia alle sei del mattino. Non sa a chi rivolgersi, quando vede un uomo in maschera, avvolto in un mantello, sotto il quale indossa solo la camicia, e ai piedi porta scarpe senza fibbie, che ha perso al gioco. Con aria affabile, lo sconosciuto lo conduce nella casa di un conte, dove Andrea prenderà in affitto la stanza di Nina, la figlia maggiore. In poche ore di quella giornata, Andrea entra in un mondo fatto di teatro e lotterie, di donne e personaggi emblematici, di enigmi e avventure, durante cui tutto si trasforma, a cominciare da lui stesso: “non esiste nulla di passato; tutto ciò che esiste è presente”.

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