Mostre che ritornano (in Realtà Virtuale)

La mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea – che per 155 giorni ha scandito il tempo al Macro di Roma, via Nizza – si è chiusa fisicamente  il 2 ottobre 2016.
Le opere sono state staccate dalle pareti e tolte dalle teche, le installazioni smontate… Eppure qualcosa – oltre al catalogo e alle tante foto e interazioni sui social network – rimane, di questa mostra che ha abitato e animato le sale al primo piano del Museo Macro, qualcosa che riguarda la sua dimensione spaziale. Di che si tratta?

Realtà Virtuale 24 gennaio 2017 Macro
Di una versione in Realtà Virtuale, esplorabile tramite appositi visori Oculus Rift, che consente di muoversi negli spazi della mostra, girare intorno alle installazioni, fermarsi sulle pareti, girovagare, avere una visione d’insieme e di dettaglio di una ventina di opere fra quelle esposte. Un percorso che consente di ricollocare ogni opera nel luogo in cui si trovava, di coglierne le relazioni di vicinanza con le altre, il dialogo che si percepisce – dal vivo – durante una visita museale. E che l’esplorazione virtuale può di nuovo suggerire, ponendosi come un modo consistente di mantenere la memoria di un evento temporaneo, come appunto una mostra.

vr macro 24 gennaio 2017
Martedì 24 gennaio 2017, nel Museo Macro di Roma (via Nizza), per un pomeriggio, i visitatori possono rientrare virtualmente nelle sale espositive. Appuntamento alle 17,30 nella Sala Cinema per esplorare la postazione e parlarne con le curatrici della mostra, gli sviluppatori e alcuni esperti di musei, mostre, documentazione, politiche culturali.Qui informazioni e dettagli.

Vr Macro 2017 gennaio 24

Realizzata in collaborazione con la Ripartizione Cultura della Provincia Autonoma di Bolzano, la versione in Realtà Virtuale della mostra romana è visitabile presso il Centro Trevi di Bolzano (via Cappuccini 28), all’interno dei progetto multimediale  Il Cerchio dell’arte, che propone continue sperimentazioni sugli scambi fra arte, tecnologie, comunicazione e didattica. Dedicato ogni volta a un tema diverso, Il Cerchio dell’arte sviluppa quest’anno il tema “tempo e denaro”, proponendo ai visitatori un video immersivo, esplorazioni di opere tramite touch-screen, giochi e interazioni e anche la presenza di due dipinti in prestito. Qui tutte le informazioni.

(a.s) @asbrilli

Il tempo di un haiku nel libro di Susanna Tartaro

Diversi tipi di tempo si affacciano nel libro che Susanna Tartaro dedica alla cultura degli haiku giapponesi – Haiku e sakè. In viaggio con SantōkaAdd edizioni, 2016 – svolgendo in dodici  capitoli l’intuizione che alimenta da alcuni anni il suo blog Dailyhaiku: la notizia del giorno commentata da un haiku classico, in cerca di risonanze e sprazzi di saggezza.
Nei dodici capitoli, che scandiscono come un calendario il vasto tema, l’autrice presenta la sua guida, il monaco buddista e poeta camminatore Santōka, vissuto nel Giappone del primo Novecento, che illumina con i suoi versi e la sua irriducibile autonomia, le situazioni quotidiane di un mondo lontano, la Roma di adesso.
Tempi differenti, eppure comparabili: il tempo del cammino e del vagabondaggio si rifrange nei percorsi in motorino sulle strade dissestate e negli incontri inaspettati con dettagli di bellezza e di senso, o di nonsenso; il tempo cristallizzato in un fermo-immagine – negli haiku della poetessa Momoko Kuroda – si rintraccia nella pagine della scrittrice francese Annie Ernaux, e nel nostro sguardo ogni volta che cade su un fiore e sulle sue impercettibili metamorfosi.
Ma il passo del tempo – nel libro di Susanna Tartaro – si trova verso la metà del volume, a pagina 85, quando l’autrice (che è curatrice di Fahrenheit su Radio3) racconta dei suoi primi lavori alla radio. Il suo incarico allora era quello di ascoltare vecchie bobine e annotare il minuto e il secondo del frammento di registrazione che occorreva al programma, “con il tempo che passava veloce girando su se stesso come quei nastri”. In uno di questi nastri, l’autrice si imbatte in un’intervista a Primo Levi e la colpisce un silenzio lungo, un buco sonoro durante il quale – capisce – lo scrittore si sta accendendo una sigaretta. Intorno a questa esperienza – un silenzio che rende visibile un’azione, un tempo vuoto che torna a riempirsi e a svuotarsi –  il presente si connette al passato. Anche lì in qualche modo comincia il cammino di Susanna Tartaro nella cultura degli haiku e nel loro farsi  presenza viva e attuale.

susanna-tartaro-haiku

“Forma poetica minuscola e infinita nello stesso tempo”, lo haiku è la composizione giapponese di tre versi (ku), che coglie un’immagine, una situazione, un pensiero, senza mai tralasciare un riferimento alla stagione in corso.
“Con solo tre ku di 5-7-5 sillabe, poeti e filosofi zen da più di trecento anni uniscono la brevità di twitter e le immagini di instagram in un colpo solo. Gli haiku, componimenti pensati da monaci viaggiatori già alla fine del diciassettesimo secolo, riescono a fotografare anche la nostra realtà, i nostri giorni, le nostre miserie”.
Nel suo blog Dailyhaiku e attraverso il suo account twitter (che ha più di 1800 follower) Susanna Tartaro  sceglie nel repertorio degli haiku quelli che sembrano cogliere un aspetto del presente e commenta – contemporaneamente – il passato e il presente, il tempo attraversato dai poeti e dalle poetesse giapponesi e quello in cui ci troviamo, comprese le condizioni meteorologiche, e comprese le perdite, i ritorni, le partenze. Tutto accade insieme, ma la scrittura di Susanna Tartaro trova il ritmo per rendere possibile – a chi legge – la percezione di un intero spazio-temporale che si srotola, da est a ovest, da ieri a oggi, lungo le strade del pianeta.

Il sito di Add editore
I
l blog Dailyhaiku di Susanna Tartaro
Il gioco Oggihaiku con i lettori di Pagina99
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

VisiTag: 20.12.2016 alla Galleria Nazionale di Roma

VisiTag è una parola-composta che unisce la visita con il tag. Che ci fanno insieme un sostantivo italiano e il termine informatico che indica l’etichettatura dei contenuti? Cercano di descrivere quello che accade il 20 dicembre 2016, nelle sale della Galleria Nazionale di Roma (viale delle Belle Arti): una visita al museo, durante la quale gli allievi e le allieve del corso di Storia dell’arte contemporanea della Sapienza osservano le opere d’arte esposte e – per ogni sala – provano a descrivere quelle opere (e le loro relazioni) usando delle parole-chiave, appunto i tag.
L’idea nasce dalla nuova sistemazione del grande museo romano, che dispone le opere della collezione (con aggiunte di prestiti temporanei) non in modo cronologico – dall’Ottocento a oggi – ma per risonanze formali, analogia di contenuti, dialoghi a distanza, nuclei di possibili mostre. Questa nuova sistemazione – che durerà fino al 2018 – è al centro di un acceso dibattito critico e suscita molte curiosità sulla sua efficacia nell’avvicinare il pubblico al piacere e alla riflessione sull’arte contemporanea e su quella del recente passato (ne ho parlato qui).
Poiché alcuni tratti di questa nuova disposizione della Galleria Nazionale rimandano alle caratteristiche degli ipertesti – la mancanza di un percorso lineare e sequenziale prestabilito, la possibilità di accedere a parti del contenuto in modo autonomo, la struttura a collegamenti – ha preso forma il progetto di visitarla appunto come un ipertesto abitabile, dove ogni visitatore marca con tag a sua scelta le singole opere e le loro connessioni.

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(Roma, Galleria Nazionale: screen shot di foto sferica da Google maps)

Del resto, l’uso di queste parole-chiave è diventato via via più comune, diffondendosi nelle comunità social e generando il fenomeno detto folksonomy, la classificazione informale dei contenuti (fra cui anche immagini e didascalie di collezioni museali), fatta dagli utenti. Come si legge nel Lessico del XXI Secolo (Treccani) i tag sono il segno di un sistema di classificazione non gerarchica, reticolare, che tende ad autorganizzarsi in forme che non possono essere del tutto indirizzate o previste dall’alto.
La descrizione per parole-chiave delle sale – il 20 dicembre 2016 – è fatta da un gruppo omogeneo di visitatori (tutti studenti universitari di storia dell’arte), che in parte già conoscono artisti e opere e che hanno in qualche caso già visitato la Galleria nel passato. Si può prevedere dunque l’emergere di termini storici e storico-critici, accanto a descrizioni dell’impatto diretto delle diverse opere nel loro nuovo contesto, e alla ricerca dei collegamenti fra un’opera e l’altra. Un conto – per esempio –  è incontrare in successione, in sale distanti e separate del museo, le sculture di Medardo Rosso e di Lucio Fontana, un altro vederle vicine le une alle altre. La plasticità del lavoro sulle materie investe anche lo spazio fra di esse e lo spazio di chi le osserva collegarsi nel tempo.
Seguendo la pianta del museo, suddivisa in quattro aree principali, la visita del 20 dicembre non segue un percorso lineare, ma procede a stella: ogni partecipante può iniziare da una qualunque delle zone, ripassare per il centro e proseguire nelle altre tre aree.
Chi conduce la visita – ma forse è meglio parlare di chi la facilita e la osserva, facendone parte – può proporre una lettura delle risposte che via via emergono, segnalando la conferma di collegamenti storici o tecnici fra le opere, valutando la ripetizione statistica di termini descrittivi o la presenza di tag isolati. Senza però trarre conclusioni teoriche o di metodo: la visita del 20 dicembre – la VisiTag – è un’esperienza pratica che prova a partire dalle descrizioni dei visitatori per risalire da lì verso i piani della storia e del suo racconto.
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Informazioni pratiche:
– esiste un gruppo chiuso di Facebook – VisiTag – all’interno del quale sono pubblicati in tempo reale i tag della visita del 20 dicembre e dove l’elaborazione dei dati prosegue nei giorni seguenti.

“La mole bianca della Galleria /D’Arte Moderna, con le sue attempate /Decorazioni e i motti tutti intorno: / Questo sol m’arde e questo m’innamora; / Non ci si pensa quanto sangue costa./ Al sommo della grande scalinata / Entrava nel museo. Luce di vetro / Piovuta dagli ampi lucernai”
Ruggero Savinio, La  Galleria d’Arte Moderna (Le Lettere, 2003)

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

#AnnosuMisura: disegnare il tempo con Bernacca

Un gioco, un concorso, un invito a disegnare il tempo, in attesa del 2017: quest’anno Diconodioggi vuole attendere l’anno nuovo assieme ai suoi lettori, proponendo un gioco che collega insieme tradizione, creatività e partecipazione. Lo spunto prende l’avvio dai calendari che Paolo Bernacca, illustratore e grafico, crea da ormai quasi trent’anni. I calendari di Bernacca sono esercizi di poesia grafico-visiva sui numeri, sulla forma delle date e sull’andamento dei mesi, e a partire all’8 dicembre 2016 (la data in cui, piaccia o  non piaccia, si iniziano gli addobbi), li presentiamo quotidianamente, aprendo – come in un calendario dell’avvento – la “finestrella virtuale” della pagina Facebook di Dicono di oggi.

COME SI GIOCA

bernacca-2017Ogni anno dunque Bernacca dedica un calendario all’anno nuovo, scegliendo un’immagine che rappresenti graficamente (con analogia benaugurante) le ultime cifre della data. Gli ori del sette di denari, due bicchieri sovrapposti, due punti e una virgola, una faccia del dado, una coppia di ciliegie, e così via. Ad esempio il 2013 pesca la sua immagine dal gioco del biliardo: la palla con la cifra rappresenta anche lo zero e i dodici mesi si dispongono in una carambola che allude al tempo e al gioco; mentre il 2014 è un metro che misura un tempo tra reale e immaginario, oggettivo e personale.
Quello del 2017 è un elegante arabesco verde che sembra fiorire dalla punta del pennino (per vederne una GIF animata, ecco il link).

Sull’esempio di questi calendari d’autore, l’invito è quello di creare una personale interpretazione grafica del proprio anno di nascita, o di un anno particolarmente significativo, e postarla con l’hashtag #AnnosuMisura scegliendo il canale social preferito (sulla pagina di Dicono di oggi o su Twitter e Instagram taggando @diconodioggi) entro il 20 dicembre 2016.
L’opera migliore, che risulterà dal voto congiunto dei like della community e dal giudizio dello stesso Paolo Bernacca, riceverà in premio il calendario 2017 dell’artista.

CHI È PAOLO BERNACCA

L’illustratore romano Paolo Bernacca è un autore poliedrico, che gioca con le immagini e i suoi supporti. Ogni decennio della sua carriera è caratterizzato da una cifra stilistica:

gli anni Ottanta sono caratterizzati dalla serie dei Pannelli astratti che giocano con l’impaginazione e il colore. Derivano la loro struttura dalla cultura e dall’attività grafica di Paolo Bernacca, maturata in decenni di lavoro: lo spazio delle tavole è organizzato sapientemente per accogliere le pennellate di colori timbrici, con i loro ritmi ricorrenti;
gli anni Novanta vedono l’elaborazione dei Fari, serie che nasce dalla passione dell’autore per il mare e la vela e offre un catalogo di variazioni sul tema. Con gli stessi colori timbrici dei Pannelli astratti, con lo stesso occhio grafico che ora impagina il paesaggio di costa e l’architettura, Bernacca realizza decine di vedute con punti di vista anomali, aggiungendo, nella serie dei Fari scritti, un elemento narrativo e letterario;

dal 2000 in poi si dedica alla serie Pagine salate dove è la sintesi grafica a dare il carattere all’opera: l’autore riconosce nelle schegge di legno dei profili di paesaggio marino e le assembla per ottenere vedute che sono insieme di due e tre dimensioni. I colori, a differenza che nei Fari e nei Pannelli astratti, diventano morbidi e tonali, in sintonia con le sfumature del legno;

dal 2012 si concentra sulla serie Sketch: negli schizzi realizzati dal vero, Paolo Bernacca riprende la grande tradizione classica del disegno su carta da spolvero, giocando a togliere luce con i segni neri e ad aggiungerla con il bianco del pennarello Uniposca. Le opere sono realizzate velocemente durante gli SketchCrawl, uscite di gruppo in cerca di punti di vista originali su luoghi storici di Roma e dintorni, fra interni ed esterni;

calendari: dal 1988 in avanti

Da quasi trent’anni, Paolo Bernacca preannuncia l’anno nuovo con un calendario sempre diverso, inventando metafore visuali che riecheggiano la forma delle cifre dell’anno. Sono esercizi di poesia visiva sui numeri e sull’andamento dei mesi, che interpretano graficamente il tempo, con immagini e composizioni di buon augurio.

La forza degli anni (e della creatività)

Fino al 10 dicembre 2016, presso lo spazio polifunzionale EX[de]PO’ in Corso Duca di Genova 22 a Ostia, si può visitare una mostra collettiva, frutto dell’attività dei Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio di Roma. Il titolo dell’esposizione è La forza degli annia indicare che il tema affrontato dagli artisti e dai curatori è il tempo; il tempo che passa e che si accumula, lasciando i suoi segni profondi sulle cose e sulle persone. Il segno più evidente del trascorrere degli anni è l’invecchiamento, che porta con sé la condizione della solitudine, la fragilità, spesso l’esclusione, rovesciando in negativo i valori proverbiali della vecchiaia come l’esperienza, la memoria profonda, la visione da un altro punto di vista.

coppa-santegidioNei Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio – che si svolgono insieme alle attività quotidiane di assistenza e inclusione – il tema dell’invecchiare è stato affrontato da persone con disabilità, fra cui artisti con diverse esperienze alle spalle (la Biennale del 2013 e gli eventi ospitati al MAXXI nel 2015-2016) ed altri all’inizio di un percorso espressivo. In mostra ci si trova di fronte con piacere e sorpresa a una vasta gamma di linguaggi creativi: dipinti materici che usano il colore in modo insieme espressivo e simbolico; disegni che colgono l’essenziale delle forme e lo arricchiscono di ironia (come la Venere e il Cupido invecchiati di Marianna Caprioletti e i ritratti di “grandi vecchi” di Sara Curcio); assemblage come le cortecce che propongono “una percezione tattile delle rughe” di Giovanni Battista La Marra; sculture arricchite di pensiero e di giochi di parole, come la Ma_nonna con bambino di Moira Risciogli; oggetti, come la campana di vetro che imprigiona la chiave (Chiudiamo ciò che chiude di Marco Magliocchetti); e ancora video interviste (Fili di memoria); quaderni, situazioni concettuali, come il toccante bicchier d’acqua posto su una mensola in alto, accanto  alla scritta rossa “Ho sete”, opera del Laboratorio Vigne Nuove o la parete occupata dalla ripetizione della frase Fuori tutti, o ancora la coppa piena di bigliettini da pescare per leggere la frase che ci tocca: “Senza vecchiaia non c’è futuro”, “Tutti abbiamo bisogno di qualcuno”.
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Tutte le opere presenti in mostra sono accompagnate da didascalie esemplari, che illustrano insieme la tecnica di cui ciascuna opera è fatta e la sua intenzione e mettono in alcuni casi a disposizione del visitatore una breve frase dell’artista che racconta il contesto (“Quando ero piccolo… andavo all’istituto”). Si percepiscono, lungo il percorso nelle sale dell’EX[de]PO’ di Ostia, le tante dimensioni di questa mostra: le opere sono la manifestazione tangibile (da vedere, da toccare, con cui interagire) di un lavoro creativo comune e disseminato, che nasce dalla relazione di scambio quotidiano all’interno dei Laboratori d’Arte della Comunità. Come si legge nella presentazione, queste opere “affrontano temi quali l’alleanza tra le generazioni e il valore della memoria; propongono alternative all’istituzionalizzazione degli anziani e suggeriscono di guardare alla fragilità (degli anni ma anche delle diverse condizioni di disabilità) come ad un valore prezioso da difendere”.
La mostra resterà aperta fino al 10 dicembre, giorno in cui sarà premiata l’opera più votata da una giuria popolare. L’invito è dunque a recarsi nello spazio espositivo di Ostia e a scegliere l’opera che si sente più affine alla propria riflessione sul tempo che passa, sapendo che anche questa azione fa parte della mostra, la completa e la espande.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

 

La mostra Dall’oggi al domani prosegue in Realtà Virtuale

La mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea – che per 155 giorni ha scandito il tempo al Macro di Roma, via Nizza – si è chiusa fisicamente  il 2 ottobre 2016.
Le opere sono state staccate dalle pareti e tolte dalle teche, le installazioni smontate… Eppure qualcosa – oltre al catalogo e alle tante foto e interazioni sui social network – rimane, di questa mostra che ha abitato e animato le sale al primo piano del Museo Macro, qualcosa che riguarda la sua dimensione spaziale. Di che si tratta?
Di una versione in Realtà Virtuale, esplorabile tramite appositi visori, che consente di muoversi negli spazi della mostra, girare intorno alle installazioni, fermarsi sulle pareti, entrare nella stanza di Beninati, girovagare, avere una visione d’insieme e di dettaglio di una ventina di opere fra quelle esposte. Un percorso che consente di ricollocare ogni opera nel luogo in cui si trovava, di coglierne le relazioni di vicinanza con le altre, il dialogo che si percepisce – dal vivo – durante una visita museale. E che l’esplorazione virtuale può di nuovo suggerire, ponendosi come un modo consistente di mantenere la memoria di un evento temporaneo, come appunto una mostra.

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Realizzata in collaborazione con la Ripartizione Cultura della Provincia Autonoma di Bolzano, la versione in Realtà Virtuale della mostra romana è visitabile presso il Centro Trevi di Bolzano (via Cappuccini 28), all’interno dei progetto multimediale  Il Cerchio dell’arte, che propone continue sperimentazioni sugli scambi fra arte, tecnologie, comunicazione e didattica. Dedicato ogni volta a un tema diverso, Il Cerchio dell’arte sviluppa quest’anno il tema “tempo e denaro”, proponendo ai visitatori un video immersivo, esplorazioni di opere tramite touch-screen, giochi e interazioni e anche la presenza di due dipinti in prestito.
Qui tutte le informazioni.
Per la presentazione della mostra in Realtà Virtuale: appuntamento  al Centro Trevi il 22 novembre 2016, ore 18:30, con Antonella Sbrilli e Alessandro Rizzi, che ha curato lo sviluppo tecnico di questa realizzazione.

Il Tempo val bene due mostre, alla Galleria Nazionale di Roma

La Galleria Nazionale di Roma presenta due mostre nelle sale di viale delle Belle Arti, entrambe incardinate sul tema del Tempo.
La prima, curata da Saretto Cincinelli e aperta fino al 29 gennaio 2017,  si intitola The Lasting. L’intervallo e la durata. Occupa la grande sala centrale e allestisce – intorno a opere di Fontana, Calder e Medardo Rosso, appartenenti alla collezione permanente – una scelta di artisti coinvolti nei termini del titolo, che mette in risonanza i concetti di persistenza e passaggio.
The Lasting rivendica l’emergenza del tempo, l’importanza del suo fluire, della durata, dell’intervallo, della sedimentazione, della latenza…” si legge nel catalogo, dove gli artisti sono raccolti in sezioni dai titoli evocativi: Il tempo della creazione e l’impronta del tempo; Il tempo della metamorfosi; Il tempo dell’interpretazione, dell’attesa e della collaborazione.
Al visitatore il compito di rintracciare questi caratteri nelle opere e fra di esse, davanti alle teche, alle miniature, alle tende sbiadite, alle lastre di cera e paraffina, alle foto di vecchi cinema, alle tracce di lumache, ai bronzi che ricalcano i legni della laguna veneziana e prendono la forma di clessidre.
La misurazione del tempo è una invenzione e una convenzione, scrive in catalogo Francesco Piccolo in uno dei 24 bellissimi appunti del suo Tentativo di catalogare il tempo, ma “il tempo che passa non è inventato”.
Nel suo fregarsene degli orologi e dei calendari, nel suo costringere il linguaggio a cercare sempre nuove metafore e acrobazie per avvicinarvisi, il tempo pervade l’arte in maniere continuamente nuove.
Bonito Oliva definisce portatori del tempo i protagonisti della sua Enciclopedia delle arti contemporanee; l’urgenza del tempo è evocata dalla XVI conferenza dell’International Society for the Study of Time (Time’s Urgency, Edimburgo 2016); il tempo, i tempi, l’oggi, il domani, il qui e ora, il tempo-reale, i fusi orari, sono ubiqui nelle ricerche, nelle mostre, negli esperimenti relazionali in corso. Per fare un esempio, l’esposizione di Manfredi Beninati (ottobre 2016, Firenze Galleria Poggiali) ha per titolo Domenica 10 dicembre 2039, una data che non esiste nel calendario, poiché quel 10 dicembre sarà un sabato.
Nel catalogo di The Lasting, la direttrice della Galleria, Cristiana Collu – che pure desidera lasciare da parte il tempo convenzionale e lineare – cita, con una sorta di affetto, due date: la festa di Ognissanti, giorno in cui ha preso in carico la Galleria e il Solstizio d’estate, giorno di inaugurazione della mostra.
Diconodioggi non può non notarle, seguendo le trame del tempo finzionale: il primo novembre è scandito dalle citazioni formidabili di tre scrittrici, Virginia Woolf,  Antonia S. Byatt, Jennifer Egan; mentre il Solstizio di giugno è ancorato alla pagina della Montagna incantata (o magica) di Thomas Mann, che ricama sul paradosso di un giorno che segna insieme il culmine della luce e l’inizio del suo decrescere.

La seconda contemporanea mostra della Galleria Nazionale si intitola Time is out of joint e si presenta come una sistemazione temporanea (fino al 2018) delle collezioni, in dialogo con alcune opere in prestito.
Anche qui una data: l’avvio della mostra è caduto il 10 ottobre, “due giorni prima della scoperta dell’America” (come si legge in un racconto di Tabucchi, Il gatto dello Cheshire), ma soprattutto il giorno in cui nell’incompiuto romanzo di René Daumal, Il Monte Analogo, il gruppo di esploratori – fra cui il narratore – si imbarca su uno yacht a due alberi dal nome L’Impossibile, diretto verso una montagna sfuggita fino ad allora all’osservazione e la cui cima è inarrivabile “con i mezzi finora conosciuti”.
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Ha un sentore di spedizione verso spazi inconsueti anche l’apertura di questa mostra, che sceglie come titolo una battuta dell’Amleto, “il tempo  [in alcune traduzioni ‘il mondo’] è fuor dei cardini; ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto”.
Anche in questo caso, e in modo ancora più pervasivo che in The Lasting, la mano da giocare passa subito al visitatore, che negli spazi completamente bianchi della Galleria  incontra opere accostate non per vicinanza storica, ma per analogie, collegamenti, rimandi, affinità, buon (o problematico) vicinato.
Un imponente ipertesto navigabile in grandezza naturale che, in ogni sala, invita a decifrare i nessi fra le opere che lo compongono. La linea diritta della storia che scorre da un prima a un dopo è messa da parte e il suo posto è preso dall’idea della compresenza e dell’intreccio.
Del resto, la citazione della tragedia di Shakespeare, “Time is out of joint”, è anche il titolo di un racconto distopico dello scrittore statunitense Philip K. Dick. Pubblicato nel 1959, il racconto (tradotto in italiano come Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto) è uno straordinario trattato sulla natura della realtà.
In una cittadina americana, in un periodo che somiglia alla fine degli anni ’50, il protagonista è il campione di un concorso a premi, in cui bisogna indovinare in quale zona di una mappa quadrettata apparirà un omino verde. È un gioco. O almeno così sembra, fino a quando alcuni indizi portano il protagonista a dubitare che la normalità della sua vita quotidiana (compreso il concorso) sia autentica. Dettagli fuori posto, brevi allucinazioni, elenchi telefonici anacronistici: la realtà è in sincrono con chi la percepisce? è un continuo compatto, consecutivo e condiviso? o non presenta invece delle crepe – non visibili a tutti nello stesso modo e momento – attraverso cui trapelano segnali dal passato o dal futuro, strati di altri tempi?
Questa seconda mostra nella Galleria Nazionale mette decisamente in opera l’idea dello scardinamento dei tempi e del loro riversarsi nel presente.
Ogni sala si presenta  a sua volta come una mostra a tema, un’arena di collegamenti, un invito a decifrare gli indizi che collegano due o più epoche distanti, richiamate nell’attualità dello stesso luogo e del visitatore che vi si trova in quel momento. Ogni opera una porta d’uscita e d’ingresso nel tempo di chi la guarda e la ricolloca; ogni gruppo di opere un nodo di reti orizzontali e diacroniche.

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Questo tipo di disposizione è una sfida per la didattica e anche un invito a nozze per progettare quella che attualmente si chiama gamification, cioè l’applicazione di forme di gioco in contesti non ludici.
Quanti gradi (o quadri) di separazione dividono un’opera dall’altra? per quali vie sono arrivate vicine, attraversando la storia, la rilettura critica, l’immaginazione letteraria, la serendipity? (un gioco simile è stato proposto alla Gnam nel 2015 in occasione dei Giochi di Sala).
E un gioco d’artista partecipativo è effettivamente già in corso alla Galleria Nazionale: si tratta del Museum Beauty Contest, un concorso di bellezza fra le più belle figure femminili e maschili rappresentate nelle opere della Galleria; inventato dall’artista Paco Cao, coinvolge il pubblico per diversi mesi, fino alla finale nel marzo 2017.
Ma questa proposta di disposizione è un invito a nozze anche per la progettazione di realtà aumentate che raccontino – oltre alla vita delle opere – anche le forme delle precedenti sistemazioni delle sale o per il rilascio di app (o l’avvio di laboratori) che consentano di ricreare una propria parziale configurazione temporanea. Ritrovare il pavimento specchiante di Alfredo Pirri che introduceva nella Gnam, ricostituire le quadrerie, spostare, ricombinare, fermare una configurazione.
Il tempo come linea, il tempo come cerchio, il tempo come rete, il tempo come blocco dove tutto continua ad avvenire nel momento in cui lo si racconti di nuovo, emergono come artifici paralleli di rappresentazione.

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Here: le finestre sul tempo di Richard McGuire

Here: le finestre sul Tempo di Richard McGuire
di Elisa Sorrentino

Il dorso del libro è grigio, con una piccolo ramo di foglie disegnato sopra e con sotto scritto: QUI. Il titolo, semplice e incisivo, mi spinge ad andare oltre. Lo apro e appare l’immagine di una stanza qualsiasi con finestra, camino e pochi mobili accuratamente disposti, volto pagina e compare la stessa stanza, ma immersa in un paesaggio di tanto tempo fa, continuo a sfogliarlo e mi accorgo che l’ambientazione è sempre la stessa ma lo spazio prende vita, di volta in volta, grazie a persone diverse a seconda del tempo in cui lo vivono.
Richard McGuire, l’autore del libro, non solo è un artista – disegnatore di svariate copertine per il New Yorker e illustratore di libri per ragazzi – ma ha anche suonato nel gruppo postpunk dei Liquid liquid come bassista e ha diretto un film di animazione Peur(s) du noir, collaborando con illustratori del calibro di Lorenzo Mattotti, Charles Burns e Blutch. Nel 1989, per il primo numero della seconda serie di “Raw” la celebre rivista storica statunitense dedicata al fumetto curata da Art Spiegelman e Françoise Mouly –  McGuire realizza una breve storia di 36 vignette in bianco e nero intitolata Here.

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La storia propone il tema della rottura della linearità del tempo: la narrazione è incentrata sulla fissità dello spazio, mentre lo sconfinamento temporale è dato dalla sovrapposizione di più finestre. Ed è sulla base di questa storia che, ben venticinque anni dopo, McGuire decide di riprendere la stessa impostazione per crearne una nuova, con le stesse intenzioni ma ampliata nel contenuto e nella mole: un libro di trecento pagine a colori pubblicate nel 2014 da Pantheon Books e in Italia nel 2015 da Rizzoli Lizard.
La stanza che ci si presenta davanti ci riporta alla mente la solitudine severa dei dipinti di Edward Hopper. Salta all’occhio la qualità della fattura delle immagini che mescolano senza timore la tecnica dell’acquerello con quella digitale adoperando programmi come Adobe Photoshop e la grafica vettoriale. L’insistenza sullo spazio fisso e i toni tenui fanno venire in mente le palette scelte da Wes Anderson nei suoi film e, benché la scelta dell’inquadratura non sia simmetrica, far coincidere perfettamente l’asse prospettico della stanza con la piega esatta del libro è un dettaglio che colpisce.
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Il racconto ci trasporta nel salotto di infanzia di Richard McGuire, nato nel 1957 a Perth Amboy nel New Jersey: lo spazio diventa lo spunto per intrecciare le fila del tempo procedendo, avanti e indietro, senza un ordine narrativo-logico  e seguendo in modo “allucinogeno” la schizofrenia del tempo.

McGuire intesse un puzzle visivo in cui l’immagine di una donna in cerca di qualcosa trasporta nell’epoca glaciale dei mammut; un picnic all’aria aperta riconduce a due ragazzi che giocano a twist nel 2015; per poi passare all’immagine della Terra come doveva apparire nel 3.000.000.000 a.c, all’incontro di Benjamin Franklin con il figlio nel 1775, fino all’escursione guidata nel 2213 in cui tutto è cambiato, dal clima agli strumenti tecnologici, per poi ritornare di nuovo al 1957, anno di riferimento all’inizio del testo, quasi a ripiegare il tempo su se stesso e ricondurlo alla sua eterna circolarità.
L’autore utilizza il filo discontinuo del tempo per unire spunti visivi diversi e intreccia storie, immagini e ricordi, come ben visibile dal materiale d’archivio, e dalle fasi di elaborazione del libro.

Colpisce nel testo il modo indifferente e quasi crudele di concepire l’umanità nel suo normale e costante ricambio generazionale, trattandola alla stregua di tutte le altre forme viventi, destinate a nascere, crescere, produrre, consumare e morire. Solo l’interagire delle finestre temporali – dove gesti, frasi e situazioni del passato sembrano trovare una corrispondenza nel futuro e viceversa –  riesce ironicamente a infliggere un momentaneo scacco alla morte.

L’impostazione del testo non è molto distante dalle finestre sovrapposte che utilizziamo sul pc e attraverso cui navighiamo in rete, raggiungendo contestualmente posti distanti da un punto che rimane fisso.

Se ciò che ci consente la tecnologia è di varcare le distanze geografiche alla velocità di un click, Here permette di rimanere nel “qui” della nostra stanza viaggiando in un trip temporale che svela la difficoltà dell’oggi di rimanere concentrati sul tempo presente, continuamente distratti da mille stimoli: le notifiche dei messaggi, il rumore del traffico, la musica dei grandi magazzini, i discorsi sovrapposti delle persone in metro, tutti stimoli che allontanano al suono del silenzio.

Tuttavia il modo migliore per apprezzare Here è scaricare la versione e-book (al momento disponibile solo per i-Pad), realizzata in collaborazione con lo sviluppatore web Stephen Betts. Questa versione sfrutta al massimo le potenzialità multi-screen del testo originale, combinandola e sviluppandola ulteriormente con l’utilizzo degli strumenti digitali  al fine di renderla completamente interattiva e concedendo, inoltre, la possibilità di cambiare la sequenza delle diverse finestre temporali mescolandone l’ordine cronologico, in perfetta sintonia con lo spirito del libro:
Una presentazione è consultabile a questo indirizzo.
Infine Here ha ispirato un cortometraggio sperimentale in cui anche qui, come nel testo, le finestre temporali si attraversano senza un ordine predefinito e talvolta  interagiscono tra di loro.
In Here, il tempo del futuro si immerge nel passato e si rimescola al presente assumendo nuove forme e nuove interpretazioni, come in un gioco dei tarocchi infinito. Il perimetro definito di una stanza diventa il palcoscenico dell’indeterminatezza del tempo, che cambia marce ma ritorna sempre al punto di partenza. Ma dove va a finire il tempo?
Elisa Sorrentino

La storia in 36 vignette da cui ha preso spunto il testo; 
le fasi di elaborazione del libro;
Here come appare oggi.

 

#AncorainTempo: finissage mostra al Macro di Roma

Il 2 ottobre 2016 la mostra Dall’Oggi al Domani. 24 ore nell’arte contemporanea al Museo Macro di Roma (via Nizza, 138) accoglie il pubblico con un ultimo appuntamento che vede nuovamente le sale animarsi con performance e incursioni teatrali, assieme ad artisti e attori, veri ospiti speciali che hanno seguito tutto il percorso di questa mostra dalla sua inaugurazione al finissage.

finissage-mostra-2-ottobre-2016
Per 155 giorni il calendarione appeso all’ingresso della Sala Bianca ha accolto tantissimi visitatori con la citazione legata al giorno in corso, introducendo gli ospiti al tema che avrebbero trovato all’interno della mostra: il Tempo in tutte le sue declinazioni. Il tempo umano del giorno che passa, il tempo cosmico che tutto contiene, il tempo amichevole che guarda al futuro, il tempo beffardo che ti ricorda che invecchi.

Ora che è tempo di concludere, la mostra Dall’Oggi al Domani. 24ore nell’arte contemporanea invita il pubblico #AncorainTempo a trascorrere insieme l’ultimo giorno di apertura, ricordando però che la mostra continua virtualmente: sul web il suo calendario chiude il 31 dicembre 2016. Potete seguirla su diconodioggi.it e i relativi canali social.

#AncorainTempo è a cura di Antonella Sbrilli e Michela Santoro, con Maria Grazia Tolomeo, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura.

PROGRAMMA

Ore 16:30 / 19:30

Tempo in azione
Incursioni teatrali sul tema del Tempo a cura di Personcine di Giovanna Mori (Carrozzerie.not)

 Il tempo in emoji
Laboratorio di espressioni figurate a cura della storica dell’arte Maria Stella Bottai

Psycho per un giorno
Rilettura di brani tratti dal romanzo Punto Omega di Don Delillo, interprete l’attore Vito Di Bella. Introduce Antonella Sbrilli

#croMomania o #croNomania? – Il colore del giorno
Scopri il colore del tuo giorno di nascita o di una data particolare. A cura di PiùPop (Carlotta Barillà, Rudimante Belardi). Introduce Michela Santoro

Tempo in Comune: 24 e 25 settembre 2016

Il Tempo lascia i suoi segni dappertutto, scandisce la vita quotidiana e dà forma alle opere d’arte che popolano la nostra città, all’interno dei musei e negli spazi aperti.

Intorno al Tempo ruota l’iniziativa #TempoinComune: un invito a creare insieme – passo dopo passo – una mappa dei tanti modi e tanti luoghi in cui il Tempo è stato rappresentato, analizzato, misurato e immaginato. In questo programma, i visitatori trovano tutti gli appuntamenti fra cui scegliere il proprio percorso, fatto di visite, di incontri, di laboratori, nei musei d’arte e di scienza, nelle biblioteche, nei parchi, nelle piazze: il Tempo in Comune. Gli appuntamenti del 24 e 25 settembre 2016, fra cui anche la visita alla mostra al Macro Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea.

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#TempoinVerso: Interferenze poetiche al Macro di Roma

Il 23 settembre 2016 – al Museo Macro di Roma – ha avuto luogo #TempoinVerso, uno degli appuntamenti partecipativi che hanno accompagnato la mostra Dall’Oggi al Domani. 24 ore nell’arte contemporanea, allestita dal 29 aprile al 2 ottobre 2016 presso la Sala Bianca del Museo di via Nizza.

#TempoinVerso. Interferenze poetiche a regola d’arte – questo il titolo completo dell’evento – è un itinerario di connessioni tra alcune delle opere in mostra, tutte dedicate al Tempo, e una scelta di poesie, tratte dall’antologia Dare tempo al tempo. Variazioni sul tema nella poesia italiana del Novecento (Giulio Perrone Editore, 2016, qui recensione nel blog), a cura di Alma Gattinoni e Giorgio Marchini, con prefazione dello scrittore e critico Paolo di Paolo, che ha condotto con Antonella Sbrilli il pomeriggio al Macro.

Tempo è forse una delle parole più importanti e ricorrenti nel linguaggio dell’uomo. Non è forse vero che ogni nostra azione (o progetto) è tesa ad esorcizzare l’angoscia dell’impermanenza delle cose? Con questa riflessione dei curatori del volume ha avuto inizio il gioco di accostamenti, dove la parola gioco sottolinea l’importanza dell’elemento creativo attraverso il quale, liberandosi dalle rigide griglie del reale, si accede a quella dimensione dello spazio-tempo dove l’immaginazione e la fantasia generano nuove connessioni prima non individuate.
2016-23-settembre-macro-poesia
Una decina di poesie, selezionate dai curatori fra le 130 raccolte nell’antologia (in un ordine alfabetico che va da Accrocca  a Zeichen) sono state avvicinate ad altrettante opere in mostra, fra cui le fotografie quotidiane di Roman Opalka, le sequenze di date di Hanne Darboven, il diario del XX secolo di Daniela Comani, i calendari di Alighiero Boetti: questo artista fa da trait-d’union fra la mostra (il cui titolo è una delle frasi di 16 lettere fatte ricamare da lui) e l’antologia di Gattinoni e Marchini, il cui titolo è anch’esso una frase sul tempo scelta da Boetti per uno dei suoi quadrati magici.

A questo link –  2016-settembre-23-macro-interferenze-poetiche – è  scaricabile la presentazione in pdf, con tutti gli accostamenti proposti.
Le letture, nel pomeriggio del 23 settembre, sono state fatte dai curatori del volume, da Paolo di Paolo e dagli ospiti.
Gabriella Palli Baroni ha introdotto e letto la poesia di Attilio Bertolucci Gli anni (da Lettere da casa, 1951), dove risalta – casualità –  un’atmosfera settembrina di primo autunno.
Claudio Damiani ha letto una sua poesia tratta dalla raccolta Attorno al Fuoco (2006), accostata – per l’occasione –  all’opera di Enrico Benetta, una grande clessidra in cui lo scorrere della sabbia è sostituito dal coagularsi di caratteri bodoniani, lettere e cifre che raddensandosi alle due estremità opposte della struttura protendono l’una verso l’altra senza mai raggiungersi (qui la recensione dell’opera sul blog).
Gabriella Sica ha letto 8 marzo,  tratta dalla sua raccolta Poesie Familiari (2001) e stavolta l’opera accostata era Compleanno, di Bertozzi e Casoni. La scultura in ceramica policroma dei due artisti cristallizza il tempo nei resti di una festa: nella torta di un compleanno trascorso è inserito un teschio di animale, nel vuoto di una fetta di dolce mancante, che lascia in bocca l’amaro sapore di un presagio di morte. Sica stessa introduce la poesia sottolineando la strana coincidenza dell’opera di Bertozzi e Casoni con il suo testo, composto proprio nell’ultimo compleanno di suo padre.
In questa rete di emergenze e di coincidenze, la serendipity ha voluto che  l’accostamento conclusivo mettesse vicini una intensa poesia di Vito Riviello, Tempo a pensare, da Apparizioni, e un’opera verbo-visiva di Lamberto Pignotti, una conversazione fra angeli musicanti,  in cui si legge: «Perché dobbiamo fare proponimenti proprio il 1° gennaio? Cosa c’è di male nel 16 maggio o nel 23 settembre?».
L’incontro si conclude con un invito ai presenti a ricercare altre interferenze che colgano – nei mezzi delle arti visive e in quelli della parola – gli aspetti elusivi del tempo, restituendoli all’esperienza percettiva di chi guarda e ascolta.

«Questa piazza è un orologio vasto / una macchina accordata  / che si misura lenta nel tempo.  / È un bosco pietrificato / una scogliera, / la meridiana muta della mente.»
Valerio Magrelli, Ora serrata Retinae – Rima Palpebralis

Sara Fiorelli

Il giardino dei 3 minuti di David Trueba

Un affascinante bosco di clessidre compare nel romanzo Blitz, di David Trueba, il cui indice si presenta come un calendario, con i nomi dei 12 mesi a connotare i 12 capitoli: lo racconta in questo post Sandra Muzzolini.
L’ultimo romanzo dello scrittore spagnolo David Trueba – romanziere ma anche regista, sceneggiatore e giornalista – si intitola Blitz (ed. it. Feltrinelli, 2016) e ha come protagonista un architetto paesaggista di Madrid che all’inizio della storia incontriamo a Monaco di Baviera, dove si trova per presentare un progetto a un concorso internazionale. L’intervento paesaggistico ideato da Beto – questo il nome del protagonista – è un parco per adulti con “panchine dove fermarsi a leggere e riposare negli istanti rubati all’ufficio”. L’idea è quella di “perdersi” in un altro spazio-tempo, sedendo su panchine delimitate da una recinzione che crea una sorta di capsula isolata dall’esterno. L’elemento qualificante ed innovativo del progetto è rappresentato da un “bosco di clessidre, in scala umana” che servono a quantificare il tempo trascorso nel parco, a concedere un tempo di astrazione.
Trueba Muzzolini

“Ecco cosa mi piace delle clessidre” dice il protagonista, “riformulano l’idea di ansia dovuta al trascorrere del tempo e fanno sì che quel processo inevitabile diventi visibile.” Questo è quello che intende dire alla presentazione in veste di architetto, ma poi confessa che più semplicemente “mi piacciono perché indicano il vero senso della vita, e cioè la sottomissione alla legge di gravità, come la sabbia che cade dall’alto in basso nei due bulbi di vetro.” Poiché il tempo di capovolgimento delle clessidre è di tre minuti, il titolo del lavoro di Beto è Giardino dei tre minuti.

Il progetto non viene premiato al concorso ma il motivo della clessidra rimane importante nel romanzo, anche nella definizione dei personaggi. Se a Beto piacciono le clessidre, un altro personaggio le detesta, le trova angoscianti: “La sabbia che cade ti taglia dentro come un coltello.” L’idea delle clessidre viene sviluppata più avanti nella storia sempre in relazione alla professione del protagonista, portandolo alla creazione di oggetti di design di tale forma e persino di una applicazione per smartphone. Lavorando intorno a questo soggetto l’architetto si ritrova anche a fare alcune considerazioni sulle parole che in alcune lingue indicano le clessidre. Osserva che in castigliano e in tedesco si fa riferimento al contenuto – reloj de arena, Sanduhr – mentre in inglese al contenitore, hourglass (accanto a questo termine in inglese sono usati anche sandglass e sand clock); in italiano e in greco ci si rifà invece all’antico  klepsydra che indicava gli orologi ad acqua. Beto trova poi in un’enciclopedia il riferimento all’Allegoria del Buon Governo (c.1340), l’affresco di Ambrogio Lorenzetti in cui una figura femminile coronata con una clessidra in mano simboleggia la temperanza; in realtà non è questa, come egli annota, la prima rappresentazione di una clessidra nell’arte, poiché in un sarcofago romano del IV secolo che rappresenta le nozze di Peleo e Teti si può osservare Morfeo che regge una clessidra.

Un’ultima nota riguarda la scansione temporale della storia, che inizia nei primi giorni di gennaio, in una fredda Monaco con un po’ di neve, e si conclude l’ultima notte dell’anno, a Maiorca, in vista di una cala che i turisti tedeschi chiamano Blitz. I capitoli sono dodici, intitolati semplicemente con i nomi dei dodici mesi, sicché l’indice del romanzo si presenta come un calendario. Piacerà ai “cronomaniaci”.
(#cronomania è l’hashtag di un gioco partecipativo su Twitter, Facebook e Instagram, legato alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea al Museo Macro di Roma fino al 2 ottobre 2016, in cui – fra l’altro – sono esposte due clessidre d’artista, opere rispettivamente di Mario Ceroli ed Enrico Benetta).

Sandra Muzzolini (@sandra_mzz)

 

In Time, il tempo è denaro, di Roberta Aureli

“Il tempo è denaro”, recita il vecchio adagio, che ci ricorda quanto esso sia prezioso e quanto sia sciocco sprecarlo in occupazioni inutili. Ma se il suo senso non si esaurisse tutto qui? Se davvero, cioè, il tempo fosse la valuta di scambio in un mondo ipotetico? Alcuni artisti hanno provato ad andare oltre il semplice modo di dire, traducendolo visivamente: come Iván Argote, che ha sviluppato un’applicazione web per mostrare l’ora in tempo reale attraverso le cifre sulle banconote del dollaro (Time Is Money, 2009 http://thetimeismoney.com/). E mentre al Macro di Roma prosegue la mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea e al Centro Trevi di Bolzano (fino alla primavera del 2017) è possibile interagire con la mostra multimediale Tempo & denaro. Nel cerchio dell’arte, nemmeno la finzione cinematografica si è lasciata sfuggire la possibilità di immaginare le conseguenze estreme della correlazione tra i due termini.
In Time Niccol Aureli

In Time, film distopico del 2011 scritto e diretto da Andrew Niccol (già sceneggiatore di The Truman Show), racconta di un futuro prossimo nel quale i soldi sono aboliti e le necessità o i lussi si pagano col proprio tempo. Le persone sono geneticamente progettate per smettere di invecchiare a venticinque anni: da quel momento hanno un anno bonus a disposizione, terminato il quale diventerà essenziale guadagnarsi da vivere. Letteralmente. Sul braccio di ciascuno si attiverà, infatti, un conto alla rovescia per registrare i secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni – i secoli per i super ricchi – che gli restano. Un vero orologio biologico come conto bancario, inquietante nel suo somigliare al timer degli esplosivi e azzerato il quale l’individuo cesserà di vivere.

La storia inizia il giorno del compleanno della madre del protagonista Will. Lei, nell’aspetto sua bellissima coetanea, compie in realtà cinquant’anni, o venticinque anni per la venticinquesima volta. Il suo orologio dice che le restano a malapena tre giorni di risparmi: “La metà serve per l’affitto, 8 ore per l’elettricità e c’è la rata del prestito”, ricorda al figlio, al quale tuttavia non rinuncia a dare la paghetta, “30 minuti, così avrai un pranzo decente”. Tutto in questo mondo si paga con il tempo: 4 minuti per una tazza di caffè, 1 ora per un cartone di birra, 59 anni per la macchina di lusso che Will potrà acquistare nel corso della vicenda. Al casinò si puntano secoli, mentre fuori i poveri fanno la fila davanti alla Caritas del tempo per qualche spicciolo di ora in più. E poi, all’interno di città divise in “zone orarie”, veri e propri quartieri-ghetto ordinati per fasce di reddito, si muovono i Custodi del tempo (Timekeepers nella versione originale), corpo speciale della polizia incaricato di monitorarne gli spostamenti, e la gang malavitosa dei Minute Men, che vive rubandolo agli altri.

Questo meccanismo ha effetti sulle persone e sulla loro percezione del tempo, inevitabilmente diversa tra i ricchi e i poveri. Rispetto ai primi, che possono permettersi di non badare mai al proprio orologio e aspirano a vivere per oltre un secolo, i poveri di In Time hanno un tratto distintivo che li rende ovunque riconoscibili: sono abituati ad andare sempre di fretta, per risparmiare minuti preziosi negli spostamenti tra la casa il lavoro. Anche l’espressione “vivere alla giornata” assume un significato nuovo. Normalmente intesa come propensione a cogliere l’attimo accettando ciò che arriva senza fare programmi, nel film è la cruda realtà di molti indigenti che hanno davanti ventiquattr’ore appena, rinnovabili – se si ha fortuna – con qualche espediente.

Pur concentrandosi molto sugli elementi spettacolari dell’azione senza entrare nel vivo delle implicazioni sociali ed etiche, il film di Niccol fornisce qua e là spunti per riflettere sulla crescita demografica, sull’esaurimento delle risorse, sulle disuguaglianze sociali. Quello descritto è un sistema di “capitalismo darwiniano”, come spiega il banchiere Weis, uno dei personaggi con i quali Will finirà per scontrarsi. Non il più forte sopravvive in questa società, bensì il più ricco di tempo. Weis ha perfino scelto come combinazione della sua cassaforte la cifra 1221809, che altro non è se non la data di nascita di Charles Darwin, il 12 febbraio 1809.
Roberta Aureli
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Abele Malpiedi: “è ora”, di Elena Lago

Abele Malpiedi, artista recanatese trapiantato a Milano, classe 1986, ha inventato, brevettato e prodotto un orologio privo dei suoi elementi funzionali: non ha né lancette né batteria. È presente, all’interno, il meccanismo della corona che però, se viene caricata, gira a vuoto.

Presentato al Salone del Mobile del 2014 ed esposto – nella variante a parete – al Museo del Novecento di Milano dal marzo 2016, ha un minimale quadrante a sfondo bianco con una concisa frase in nero al centro: è ora, per ricordarci che è sempre l’ora giusta per agire. Nella versione in inglese, la scritta IT’S TIME, è bianca su sfondo nero e le lettere sono disposte come i numeri, attorno al quadrante. Orologi da polso, a muro o sveglie, tutti contrassegnati da questa sorta di sollecitazione che ci rende protagonisti di un’insolita dimensione temporale. Non più un orologio “spaventoso e impassibile”, ma un “orologio concettuale” a cui è stata tolta la sua principale funzione, quella di misurare e scandire il tempo. Il curioso oggetto di Malpiedi ci permette, infatti, di immergerci in una temporalità diversa, non più regolata da numeri, ticchettii e scadenze, ma solo dal nostro impulso ad agire e a vivere il momento presente, forse regalandoci più tempo e di una qualità migliore. È l’hic et nunc che conta e che ci esorta a non dipendere né dal passato né dal futuro. In fondo, come ricorda l’artista, “la vita è un eterno gerundio”.

Malpiedi da polso
L’orologio, dio sinistro, spaventoso e impassibile  / ci minaccia col dito e dice: «Ricordati!» Così Baudelaire descriveva l’orologio in una poesia del 1860: una inesorabile minaccia che ci ricorda il passare del tempo, “giocatore avido”. Chi non ha mai pensato, almeno una volta nella vita, di rompere tutti gli orologi come il Capitan Uncino di Spielberg, tacitando quel fastidioso ticchettio, fermando, almeno apparentemente, il tempo che passa?

Nella serie di opere lanciata da Malpiedi, il perpetuo movimento circolare delle lancette scompare, lasciando il posto ad un tempo interno, scandito dai nostri umori e dalle nostre esigenze e che spesso ci porta addirittura a perdere il conto dei giorni della settimana. L’artista crede in un tempo costellato di accidentalità, “ad esempio quando finisco un quadro e allo stesso tempo finisce anche l’album musicale che avevo messo su […] non è una semplice coincidenza, ma qualcosa di più elevato […]. È molto importante saper cogliere gli attimi per entrare nel giusto ritmo.”
L’invito è quello ad “ascoltare il nostro tempo” e l’artista ha ideato anche un altro strumento per farlo, oltre al “non-orologio”: gli Occhiali riflessivi, le cui lenti sono oscurate all’esterno, mentre all’interno sono schermate da una superficie riflettente che ci permette di guardare i nostri occhi che si avvicinano sempre di più, mentre inforchiamo gli occhiali. È un oggetto affascinante che produce una sensazione di straniamento e allo stesso tempo di divertimento. Siamo sulla scia dell’opera di Penone Rovesciare i propri occhi, del 1970, un autoritratto fotografico in cui gli occhi sono ricoperti da lenti a contatto specchianti: l’artista è cieco, ha rovesciato i suoi occhi, ma può indagare nella profondità della sua interiorità e permetterci allo stesso tempo di rifletterci nelle sue iridi. Non vede, ma ci fa vedere. Abele Malpiedi dà la possibilità di indossare gli occhiali per rifletterci e riflettere, per “rovesciarci” in noi stessi e nel nostro tempo, quando sentiamo che è ora.
Elena Lago

Immagini: Courtesy Abele Malpiedi
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“Così iniziava la lettera…” un gioco su “Pagina99”

Per vedere quest’opera ci si deve affacciare a una finestrella, oppure la si può guardare in semitrasparenza dal vetro della porta chiusa a chiave: ciò che appare è una stanza in subbuglio, abbandonata dai suoi abitanti e investita da una folata di vento che trascina via le cose.
Cose di legno pesante come la scrivania, le sedie, gli scaffali e poi fogli accartocciati, pagine di giornale, libri, fiori, un pallone, un mappamondo illuminato.

Beninati gioco pagina99

Non è un incantesimo di Hogwarts, la celebre scuola di Harry Potter, anche se il tappeto che sembra scrollarsi di dosso i mobili e sollevarsi a un angolo, fa pensare a un mondo magico.
È un’opera dell’artista (e bibliotecario) palermitano Manfredi Beninati, visibile fino al 2 ottobre 2016 a Roma, Museo Macro di via Nizza 138, nella mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea.

Ricordi d’infanzia, sogni, andate e ritorni nel tempo (e del tempo): Beninati dà forma a questi temi immensi allestendo – con grande cura dei dettagli – dei veri ambienti in scala uno a uno, visibili attraverso un vetro, su cui chi guarda all’interno vede anche la propria immagine.

I titoli sono spesso dei lunghi appunti che introducono nell’atmosfera dell’opera, catturando chi li legge in un un gioco di riflessioni sul tempo.

In questo caso, il titolo dice: Non ho mai capito cosa s’intende per dilatazione temporale. E voi? Forse vuol dire pensiero? Così iniziava la sua lettera…”.

L’invito per i lettori del settimanale “Pagina99”  è a continuare la lettera a cui allude il titolo di quest’opera, inviando i testi a segreteria@pagina99.it
Si gioca anche su Facebook seguendo la pagina Diconodioggi e su Twitter con l’account @diconodioggi e l’hashtag #oggidomani
Ed ecco qui alcune risposte, sul sito del settimanale “Pagina99”.

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

13 Luglio

13 luglio 2016

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Venerdì 13 luglio […] Hélas! è un venerdì 13 e, in luogo di genovesi o di qualcos’altro di pari, incontro un costantinopoletano. Era fatale! Questa terribile giornata, accoppiata alla data ancor più terribile, non sarebbe trascorsa per me senza un intoppo in qualché di tremendo: lo prevedevo (ecco, qui sono coniglio). Il pregiudizio si avvera: Taranto mi riserbava l’incontro con questo bisantino, italiano di oriente, al presente soldato nel R. Esercito per una inverosimile concordanza di casi, di sudditanze, di fedi di nascita e tutto un oscuro lavorio di cancellerie consolari

Alberto Savinio, La partenza dell’Argonauta (Hermaphrodito), 1918, Einaudi 1974, p.186

Nel caldissimo mese di luglio, un giovane soldato italiano, nato ad Atene (si tratta di Andrea de Chirico), sta viaggiando da Ferrara a Taranto, con destinazione Salonicco, dove le truppe italiane fanno base durante la prima guerra mondiale. Ha percorso lentamente la penisola – in vagoni di terza classe – e ora si trova nella città dei due mari, che gli appare come una faccia rasata a metà, la Taranto nuova e quella vecchia. Prima di raggiungere la sua destinazione, c’è un tempo d’attesa e di incontri con altri soldati, ufficiali, signore, tipi singolari, nella giornata venata di superstizione mediterranea di venerdì 13 luglio 1917.

Dicono del libro

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12 Luglio

12 luglio 2016

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Partì il dodici luglio, alle sette di mattina. Restai a J… la notte precedente. Nell’andarvi, mi promettevo di non chiudere occhio tutta la notte, per fare una tale provvista di carezze, da non avere più bisogno di Marta pel resto dei miei giorni.
Un quarto d’ora dopo essermi coricato, mi addormentai. 
In generale, la presenza di Marta mi turbava il sonno. Per la prima volta, al suo fianco, dormii bene come se fossi stato solo.
Quando mi svegliai la vidi già in piedi. Non aveva osato svegliarmi. Non mi restava che una mezz’ora prima del treno. Mi rodevo di aver sciupato nel sonno le ultime ore che avevamo da passare insieme

Raymond Radiguet, Il diavolo in corpo, 1923, tr. it. M. Ortiz, ed. cons. Garzanti, 1966, p. 112

Ultimo anno della prima guerra mondiale, in una cittadina francese lungo il corso del fiume Marna, al primo piano di una villetta, la mattina del 12 luglio. Lei è la diciottenne Marthe. Lui è il narratore della storia, un ragazzo di sedici anni. Si sono conosciuti quando lui era uno studente brillante e poco disciplinato e lei era già fidanzata con Jacques, che ora è suo marito, ed è al fronte. Sono diventati amanti, mentre il mondo intorno è preso dalla guerra. Ora lei è incinta e sta per partire. Lui la accompagna a Parigi, fino alla stazione di Montparnasse, dove la attendono i suoceri. Mancano pochi mesi all’armistizio, al parto, al ritorno alla normalità, al termine di una passione da adolescenti. Per questo, anche, la data del 12 luglio resta impressa nella memoria.

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10 Luglio

10 luglio 2016

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Addio
Luglio 10, lunedì

Al tocco ci trovammo tutti per l’ultima volta alla scuola a sentire i risultati degli esami e a pigliare i libretti di promozione. La strada era affollata di parenti, che avevano invaso anche il camerone, e molti erano entrati nelle classi , pigiandosi fino accanto al tavolino del maestro: nella nostra riempivano tutto lo spazio fra il muro e i primi banchi. C’era il padre di Garrone, la madre di Derossi, il fabbro Precossi, Coretti, la signora Nelli, l’erbaiola, il padre del muratorino, il padre di Stardi, molti altri che non avevo mai visti; e si sentiva da tutte le parti un bisbiglio, un brulichìo, che pareva d’essere in una piazza. Entrò il maestro: si fece un grande silenzio. Aveva in mano l’elenco e cominciò a leggere subito

Edmondo De Amicis, Cuore, 1886, ed. cons.Rizzoli, 1978, p. 421

L’anno scolastico raccontato nel libro Cuore e ambientato in una scuola elementare torinese è quello del 1881-82: è cominciato il 17 ottobre con la presentazione del maestro e dei compagni del narratore, Enrico, ed è proseguito con i resoconti delle vicende avvenute in classe e fuori, le lettere dei genitori e della sorella, i commoventi (e crudeli) racconti mensili, mentre regnava re Umberto e moriva Garibaldi. L’anno scolastico – e il libro – si concludono alla data del 10 luglio, quando il maestro legge i voti degli esami e hanno inizio i tre mesi di vacanza che passeranno “come un sogno”.

 

Dicono del libro
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9 Luglio

9 luglio 2016

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9 luglio. Bel tempo. Tutti furono occupati a riparare la murata di babordo. Peters si intrattenne di nuovo per un pezzo con Augustus, e parlò in maniera più esplicita di quanto non avesse fatto sino allora. Gli disse che nulla al mondo poteva costringerlo a mettersi dal punto di vista del secondo, e gli lasciò capire che intendeva strappare il brigantino dalle sue mani. Chiese anzi al mio amico se, nel caso, avrebbe potuto contare su di lui, al che, senza esitazione, Augustus rispose ‘Sì’.”

Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordon Pym, 1838, tr. it. E. Vittorini (1937), ed. cons. Mondadori, 1990, p. 73

Il barometro segna bel tempo il 9 luglio del 1827, nel diario di bordo del giovane navigatore Arthur Gordon Pym. Si è imbarcato di nascosto, da meno di un mese, sul brigantino Grampus partito dal porto di Nantucket. Il viaggio è pieno di avvenimenti così straordinari che egli stesso, nel raccontarli, teme di non essere creduto. Subito dopo la partenza, all’altezza delle isole Bermude, un gruppo di ammutinati ha preso il comando della nave. Il 9 luglio è appena passata una tempesta e mentre i marinai discutono se far rotta verso le Antille per darsi alla pirateria, Gordon Pym e due compagni fidati decidono di riprendere in mano il brigantino. Ci riusciranno e il viaggio li porterà verso l’Antartide, fra fenomeni inspiegabili su cui la narrazione si interrompe.

 

Dicono del libro
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8 Luglio

8 luglio 2016

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L’8 luglio 1940 sale con lui nel crepuscolo, per una breve passeggiata, fino alla piscina vuota. Le lucertole serpeggiano sul fondo asciutto. Si appoggia al suo braccio mentre scendono: 
“Dimmi che mi ami come il primo giorno”.
“Ti amo come il primo giorno” dice lui

Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, 1993, Mondadori, p. 113

Quella di Nena Prinzhofer è una delle tante vite di persone non illustri raccontate da Giuseppe Pontiggia seguendo “la scansione cronologica” delle biografie, applicata a figure anonime, che non sono presenti nei libri di storia. Nena è una donna avvenente, di origine svizzere ma nata in Italia. È stata sposata con un conte, ha incontrato un amante di nome Carlo, per il quale si è separata e con cui vive sul lago di Bolsena. Alla data del 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione dell’entrata in guerra, Nena è presa dalla scoperta di un capello femminile sulla giacca di Carlo e, con una vena di gelosia un po’ folle, cerca rassicurazioni sulla fedeltà del compagno, come in questo 8 luglio, mentre l’Italia è coinvolta nel conflitto mondiale da meno di un mese.

 

Dicono del libro
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