“Storia dell’arte”, in tempo reale

La rivista “Storia dell’arte”, fondata nel 1969 da Giulio Carlo Argan, diretta negli anni da studiosi come Oreste Ferrari e Maurizio Calvesi – e ora da Alessandro Zuccari – ha festeggiato il suo cinquantenario (oltre che con un numero speciale edito da De Luca), anche con l’apertura di un sito che sta raccogliendo il suo archivio digitale: centinaia di articoli sui temi dell’arte moderna, con attribuzioni, documenti, discussioni, interpretazioni. Ora, alla rivista a stampa e al sito si aggiunge una nuova sezione, il cui nome “Storia dell’arte” in tempo reale rivela l’intenzione di seguire tempestivamente e in sincrono le scoperte, le anteprime, le ricerche in progress. Non è casuale che a inaugurare questa sezione sia un articolo che porta nel titolo un luogo e una data: Roma, 1 agosto 1605.
Il contributo è scritto da Massimo Pulini, artista, storico dell’arte, docente e conoscitore che – all’inizio di aprile 2021 – ha attribuito a Caravaggio il dipinto raffigurante l’Ecce Homo, presentato a un’asta nella città di Madrid (aste Ansorena).
Il titolo corrisponde – come si legge nel testo – alla “postazione temporale e geografica” dell’esecuzione del dipinto, “incisa nel primo agosto 1605 a Roma”. Un tempo “tra i più turbolenti” della vita di Caravaggio, che il 25 di giugno ha promesso al committente Massimo Massimi di consegnare il quadro già pagato entro il primo di agosto. 
“In quei trentasei giorni accaddero molte cose, sono conosciuti e registrati due episodi che portarono il Merisi in carcere, ‘fermato’ oggi diremmo, per qualche giorno. Il 19 luglio viene imprigionato per aver deturpato la porta di due donne delle quali sappiamo anche il nome, Laura e Isabella, mentre il 29 luglio Michelangelo da Caravaggio compie un’aggressione ai danni di Mariano Pasqualone per questioni legate a una certa Lena. Se da una parte queste informazioni rendono ancora più difficile il rispetto nella consegna dell’opera promessa al Massimi, d’altro canto non lo possiamo escludere. Quando firma quella ricevuta o compie una deliberata bugia o è cosciente di portare a termine un tale dipinto in così pochi giorni”.
Pulini racconta una storia di tempi: il tempo forzato della scadenza del contratto si coniuga al tempo lungo e opaco della “scomparsa” del quadro, a quello fulminante della sua riemersione nella casa d’aste madrilena e, soprattutto, agli effetti che il dipinto avrà nella linea del tempo della storia dell’arte. 

Massimo Pulini, Roma, 1 agosto 1605, “Storia dell’arte” in tempo reale (17 aprile 2021)

(as)

Calendiario di Maria Teresa Carbone

“aperto dopo il sogno l’occhio
scorre in sovrimpressione
the end la coda della notte
dissolvenza
domani è un altro giorno
è oggi”

Sembra scritto apposta per diconodioggi questo attacco, che viene dal libro di Maria Teresa Carbone, Calendiario, uscito nell’autunno del 2020 per i tipi di Nino Aragno editore. Sembra scritto apposta per chi sente fisicamente e mentalmente il tempo, per chi – in mezzo a qualunque situazione, evento bello o brutto, stravolgimento o noia – non può fare a meno di notare in che punto del tempo si trova, percependo le variazioni minime delle sue porzioni. 
Nello scrivere il titolo, il correttore suggerisce calendario e bisogna inserire “a mano” la i, per mescolare quello che Szymborska descriveva come il perfetto e puntuale best-seller di ogni inizio d’anno con il diario, e ottenere così la parola voluta da Maria Teresa Carbone per il suo libro.
Giornalista (il manifesto, pagina99, alfabeta2), autrice (di recente 111 cani e le loro strane storie), traduttrice (di recente Nella casa dell’interprete, di Ngu˜gı˜ wa Thiong’o), attiva nel campo dell’educazione alla lettura (associazione Monteverdelegge, Forum del libro) e alla visione, Maria Teresa Carbone raccoglie nel suo Calendiario testi che vengono da una lunga stratificazione verticale (Calendiario 2004-2020) e dall’osservazione orizzontale della torta e del corpo del tempo (Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana). I versi riportati all’inizio provengono dal Terzo quarto: del tempo (p. 54 e ss.)
Chi conosce le fotografie che mtcarbone pubblica su Instagram (anche esse esercizi quotidiani) può percepire una matrice comune con le poesie: la scelta di alcuni soggetti, il concatenarsi di interni e di esterni, il sentirsi osservatrice che viene osservata (o che immagina di poterlo essere nello stesso istante). Se nelle poesie queste situazioni innescano una ricerca di parole selezionate e impreviste, nelle fotografie si dispiegano in layer appena sovrapposti, in riflessi che indicano presenze contemporanee o anacronismi, spesso in chiare visioni illuminate.
E per restare nel lessico del tempo,  il libro – che va davvero letto da chi è coinvolto nella cronomania – esce nella collana “i domani”. 

La collana è a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno (che in quarta di copertina incornicia con una sua lettura il Calendiario)
Qui il sito della casa editrice
La foto in apertura viene dall’account Instagram di @mtcarbone 

(as)

What Day is Today?

La perdita di orientamento nel tempo provocata dal lockdown avrà portato molti a pronunciare la frase “Che giorno è oggi?”.
Ora quella frase è diventata un libro che raccoglie le 49 cartoline inviate alla Fondazione VOLUME! da altrettanti artisti e artiste legate allo storico spazio di ricerca e sperimentazione situato a Roma, in via San Francesco di Sales.
“Tra marzo e maggio 2020, durante il lockdown, la cassetta della posta di VOLUME! si è riempita di cartoline da parte dei nostri artisti e amici. Provenienze diverse, orari diversi, giorni diversi. Ognuno racconta la sua quarantena”, si legge nell’incipit della pubblicazione. 
I giorni di marzo, aprile, maggio 2020 sono incastonati in queste immagini – cartoline: ognuna di esse, con la sua tecnica e la sua grafia, invita a fermarsi sulla pagina dove è riprodotta, a collegare ciò che si vede al luogo di partenza, alla data, talvolta anche all’ora (come fa il collettivo Polisonum, nella Registrazione muta da finestra, Roma, 20 marzo 2020, ore 00:43).
Ogni cartolina è uno specimen dell’artista che l’ha inviata (bello ritrovare stili, tecniche, invenzioni compositive) e insieme un affaccio sul tempo e ogni lettore può cercare e trovare affinità, risonanze, tracce, inquietudini, cronofilie e cronofobie.
Per diconodioggi, le attrazioni sono tante, dal termine TIME stampigliato nella cartolina di H. H. Lim, alla pagina dell’artista iraniana Avish Khebrehzadeh che ripete Che giorno è oggi in tante lingue e colori, a Reverie che squaderna la frase Il / virus / del / tempo  nella sua cartolina da Milano (Cambiando l’ordine dei fattori la malattia del mondo non cambia), al Journal d’exile di Monica Biancardi, al cruciverba di Mutsuo Hirano e via sfogliando.
Le cartoline sono state raccolte da Francesco e Daniela Nucci, Marianna De Vita, Antonella Liucci, Silvano Manganaro, Roberta Pucci.
Gli artisti e le artiste (e i collettivi) mittenti sono:
Mimmo Paladino, Stefano Cerio, Claudio Martinez, Sauro Radicchi, Avish Khebrehzadeh, Andrea Branzi, Myriam Laplante, Guido Gazzilli, Bruno Ceccobelli, Giuseppe Gallo, Bizhan Bassiri, Arcangelo, Giovanni Albanese, Valentina Palazzari, Maurizio Savini, Guido Laudani, Alessandro Bulgini, Polisonum, Francesco Viscuso, Thomas Lange, Reverie, Mutsuo Hirano, Sandro Mele, Alfredo Pirri, Flavio Favelli, Carlo De Meo, Nahum Tevet, Rui Chafes, Giulio Telarico, Sissi, Renzogallo, Federico Ridolfi, Daniele Villa Zorn, Dario D’Aronco, Monica Biancardi, H.H. Lim, Roberto Pietrosanti, Roberto Fellicò, Petr Davydtchenko, 2A+P/A, Katrina Haikala, Mariella Bettineschi, Gregorio Botta, Mario Rizzi, Vincenzo Marsiglia, Michele De Lucchi, Michele Welke, Federico Cavallini, Sofia Ricciardi

L’antologia è sfogliabile a questo link.

(as)

Time’s News n.51

“Time’s News”, la pubblicazione dell’International Society for the Study of Time (ISST) curato da Emily DiCarlo, è arrivato al suo 51° numero e – proprio alla fine del 2020 e come viatico per il 2021 – propone come tutti gli anni una selezione di ricerche in corso, di mostre e di opere che hanno affrontato il tema cruciale del tempo nel corso dei mesi precedenti.
Si inizia con l’immagine panoramica del Garden of Slow Time, uno spazio per la riflessione personale sul tempo, creato da Paul Harris per la Loyola Marymount University di Los Angeles. Proprio questa Università nel 2019 ha ospitato la 17° conferenza triennale dell’ISST, un simposio che raccoglie ricercatori indipendenti, accademici, artisti, scienziati di tutto il mondo. Il tema del 2019 era Time in Variance, affrontato da decine di interventi multidisciplinari.

Questo è accaduto prima della diffusione della pandemia. Lo spartiacque del virus ha indirizzato molte delle ricerche del 2020 sulla mutata percezione del tempo indotta dalla malattia e dai lockdown, e “Time’s News” riporta a questo proposito diversi titoli, fra cui K. Fujisawa, Time studies of the COVID-19 epidemie (Yamaguchi University). 
Un importante nucleo di ricerche registrate nel numero riguarda il tema della misurazione, dal simposio Sensing, Measuring and Feeling Times and Elements (Sozopol, Bulgaria 2020) alla mostra dello stessa curatrice Emily DiCarlo The Propagation of Uncertainty (The Art Museum,Toronto 2020), focalizzata sulla discordante simultaneità dell’ UTC (Coordinated Universal Time).


Diverse opere, illustrate nella sezione Visualizing Time (a cura di A. Sbrilli e L. Leuzzi) hanno a che fare con la misurazione:  


Metric Units for the Solar System dell’artista australiana Sara Morawetz, che indaga le scale di misurazione e la loro rilevanza nella percezione del posto dell’essere umano nell’universo

l’Histoire millimétré de l’Art di Aldo Spinelli, che rappresenta in millimetri quadrati i 1.000.056 anni dell’arte, suddividendoli nella riproduzione su carta millimetrata di alcuni capolavori della storia dell’arte dalla preistoria al presente

i Calendars di Letizia Cariello, che uniscono scrittura e cucito in una pratica meditativa sul tempo

il Climate Clock di Gan Golan e Andrew Boyd, ammonimento incessante sul tempo che manca al punto di irreversibilità del cambio climatico

la mostra 24/7 curata da Sarah Cook e ispirata all’omonimo libro di Jonathan Crary sulla mutazione dei ritmi quotidiani

A temporary Index, di Thomson & Craighead, riporta il tempo che manca prima che i siti in cui sono sepolte scorie nucleari tornino sicuri


Time out of Joint di Eva & Franco Mattes, una mostra on line su Darknet, una rete remota, alla periferia di Internet, dove il tempo di caricamento e scorrimento scorre in modo diverso.
Infine due opere che si inoltrano nelle trasformazioni profonde che il tempo produce nella natura e negli artefatti umani:

Brief History of Time del cinese Chen Qi, che visualizza le tracce lasciate dal tempo nei libri, unendo la tecnica incisoria con accurati studi di fisica

e Forcing the Landscape di Silvia Camporesi, che ha scelto nelle sue ultime serie di opere dei luoghi speciali, dove l’azione umana si confronta con i vincoli della natura e il passaggio del tempo che sommerge, restituisce, torna a sommergere gli artefatti antropici.

Tim Etchells TimE.

L’arrivo del 2021 è stato salutato a Roma da una notevole serie di interventi artistici in cui il tema del tempo emerge con forza. Fra le opere scelte (qui le informazioni), c’è quella visibile nell’immagine di apertura: l’installazione dell’artista britannico Tim Etchells. Una imponente scritta al neon – montata al Circo Massimo – dice “This precise moment in time as seen from the future”.
Un pensiero sul tempo, come molti che l’artista-performer-scrittore ha elaborato negli anni (e del resto se leggiamo di seguito il suo nome e l’iniziale del cognome, il tempo – TimE. – appare immediatamente).
Come riporta nel suo accuratissimo sito, le scritte sono una sorta di “open-ended thought-experiment”, un esperimento aperto, in cui chi legge è sollecitato a muoversi sottilmente nel tempo e nel linguaggio.
In particolare, “Questo preciso momento nel tempo, come se fosse visto dal futuro” viene da un’opera del 2016, As Seen, in cui si chiede a chi guarda “di considerare l’istante esatto, in cui vede l’opera, come se quell’istante fosse osservato da un momento successivo nel tempo”.

Nel loop che si crea in questa esperienza, lo spettatore è preso simultaneamente all’interno di due incontri,  “uno con l’opera in sé e l’altro con l’immaginazione del momento futuro in cui guarderà indietro a quell’incontro”.
Etchells invita così a un esercizio di ginnastica temporale, memore di Borges e dei tanti tesori concettuali accumulati nella psicologia e nella filosofia del linguaggio: fermarsi a guardare il presente come se quel presente fosse già nel futuro.
Una situazione aperta e incompletabile, un dispositivo per entrare in risonanza con minime frazioni di tempo, che ci sfuggono, ma di cui l’esca visiva creata dall’artista ci rende, per un preciso momento, consapevoli. 

Qui il sito dell’artista 
Qui l’intervista di Exibart a Francesca Macrì e Claudia Sorace, curatrici artistiche del progetto Oltre tutto del Comune di Roma per il Capodanno 2021
(as)

Carousel book per il 2020 che finisce (dal Musli di Torino)

Il 2020 termina con questo Carousel book, un libro a giostra le cui pagine – disposte a stella – recano i mesi dell’anno trascorso. E’ opera di Massimo Missiroli, pop-up designer che lo ha realizzato per il Musli (Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia) di Torino, in occasione di un convegno dedicato ai così detti movable books. I movable books sono  libri “animati”, arricchiti di elementi mobili (volvelle, linguette, lembi) che – nei secoli – hanno reso interattive le pagine di alcuni preziosi volumi di anatomia, astronomia, divinazione, mnemotecnica,  fino ad arrivare nei libri d’infanzia e nei moderni libri pop-up.


In realtà, purtroppo, il convegno – che si sarebbe dovuto tenere a febbraio 2020 – è stato rimandato a causa della pandemia.
L’incontro internazionale, dal titolo Pop-App. Description, conservation and use of movable books era la tappa successiva di due grandi mostre dedicate a questa tipologia affascinante di libri: due mostre gemelle, svoltesi una a Roma (Istituto centrale per la Grafica) e una a Torino (Musli, Fondazione Tancredi di Barolo), entrambe curate dagli specialisti Pompeo Vagliani e Gianfranco Crupi.
In attesa che il convegno si tenga nell’anno nuovo, chi fosse incuriosito dal tema trova informazioni, immagini e percorsi delle mostre a questi indirizzi:
Info sulla mostra nella sede del Musli di Torino, Palazzo Barolo;
info sulla mostra presso l’Istituto centrale per la grafica di Roma, via della Stamperia 7.

 

Il primo giorno | Day one

“Actually, I was born on the thirtieth of November very close to midnight, and my parents pushed the date so I could start off on a day one”.
Non era raro, ancora un po’ di tempo fa (quando i bambini nascevano spesso a casa o le procedure di registrazione erano meno rigide) venire a sapere che qualcuno avesse due date di nascita: quella effettiva e quella comunicata all’anagrafe.
Qui su diconodioggi Roberta Aureli ha raccontato il caso di Marina Abramović, il cui compleanno venne anticipato dai genitori per motivi politico-patriottici.
In una prospettiva meno eroica, Woody Allen – nella sua recente autobiografia Apropos of nothing, da cui è tratta la citazione in apertura – riporta le vicissitudini della sua data di nascita, spostata dai genitori dal 30 novembre al primo dicembre 1935, per l’attrazione potente esercitata dal primo giorno del mese, promessa di inizio e di sincronia. Ecco il brano, tradotto in italiano da Alberto Pezzotta: 
“Ma adesso sono pronto per nascere. Finalmente faccio il mio ingresso nel mondo. Un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato. Allan Stewart Konigsberg, nato il1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese. Non ne ho ricavato alcun vantaggio, e avrei preferito che mi avessero lasciato di che vivere di rendita. Se ne parlo è solo perché, per una di quelle ironie della sorte prive di qualunque significato, otto anni dopo mia sorella nacque nello stesso giorno”.

Woody Allen, A proposito di niente. Autobiografia, trad. it. Alberto Pezzotta, La nave di Teseo 2020, p. 19

La coerenza del tempo: Letizia Cariello

Nella sua pagina Instagram, l’artista Letizia Cariello accoglie con una scelta di immagini legate alla sua ricerca sul tempo: dettagli delle sue opere – fra cui spicca la serie dedicata ai calendari -, scorci di natura, incontri, letture significative. Gli hashtag che accompagnano le immagini sono selezionati con cura:  #dayafterday, #nulladiesinelinea,#listentotime e molti altri che raccontano nella forma della scrittura breve quello che le opere fanno con le loro materie e le loro forme.
Laureata in Storia dell’arte all’Università di Milano e in Pittura all’Accademia di Brera, docente di Disegno anatomico nella stessa Accademia, Letizia Cariello – come si legge nel suo sito – “intende intercettare la coerenza del tempo”, cercando di renderne percettibili le tracce. Il filo rosso, con cui lega oggetti quotidiani e trapunta fotografie è una delle espressioni di questo intento.

Così come la scrittura dei calendari, forme circolari riempite fittamente e ritmicamente di lettere e numeri, date sintetizzate in un codice alfanumerico personale che attira chi guarda nel cerchio ottico di una lingua da decifrare.
Artista dalle letture raffinate e multidisciplinari, votata alla riflessione, Letizia Cariello spiega con grande efficacia l’impulso alla creazione dei suoi calendari con un esempio: quando viene nominato un giorno nel futuro, lei inizia a cercarlo perché quel giorno non c’è ancora; entità inafferrabile e ansiogena, la porzione di futuro diventa addomesticabile nel momento in cui l’artista costruisce con le date un ponte nel tempo.
Ecco qui la sua spiegazione in un video dal titolo I calendari compulsivi.

A questo indirizzo il sito dell’artista e la sua  pagina Instagram

(as)

Il tempo versatile di Mika Vainio

Tre orologi su un muro bianco segnano la stessa ora, ma ogni lancetta dei minuti scorre con la propria cadenza. Dei microfoni collegati agli orologi ne amplificano il battito, restituendo nella sala un ritmo irregolare. Si tratta dell’installazione 3 x Wall Clocks dell’artista finlandese Mika Vainio, risalente al 2001: un’opera – con le parole del suo autore – che “si basa su un’idea molto versatile del tempo”, un’opera che  riflette sul concetto di sincronicità e misurazione.
3 x Wall Clokcs è esposta – insieme ad altre sound installation e alla sua musica –  in una grande retrospettiva (dal titolo 50 Hz), aperta al museo Kiasma di Helsinki fino al gennaio 2021, dedicata a Mika Vainio, scomparso nel 2017. Un artista il cui impatto sulla musica elettronica, come scrive il Kiasma, è indisputabile e che è stato anche il creatore di installazioni sonore rimarchevoli per fisicità e “calore analogico”. 

Qui un video su youtube

https://www.youtube.com/watch?v=VOpO0EMiUZ4

Un puntuale articolo su Mika Vainio, scritto in occasione della sua scomparsa, si può leggere qui

E questo è il sito della mostra Mika Vainio: 50 Hz al Museum of Contemporary Art Kiasma  di Helsinki (20 agosto 2020–10 gennaio 2021)

https://kiasma.fi/en/exhibitions/mika-vainio/

 

“2 agosto. Bologna. […] Io sopravvivo”

Il titolo di questo post riporta l’inizio e la fine di una delle 366 voci di un’opera in forma di diario, in cui l’intero Novecento è condensato in un anno di eventi: la sequenza delle date non segue l’ordine cronologico degli avvenimenti, ma si dipana su un calendario annuale, un giorno dopo l’altro.
Alla data del 2 agosto troviamo scritto: 

“2 agosto. Bologna. Attentato alla stazione ferroviaria centrale. Alle dieci e trentacinque esplode una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto di seconda classe. La miscela di tritolo e T4 distrugge parte dell’edificio e uccide ottantacinque persone, mentre più di duecento vengono ferite. Io sopravvivo”.
L’opera, monumentale e al tempo stesso impalpabile, da cui la frase è tratta,  si intitola Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) ed è dell’artista Daniela Comani,
Nata a Bologna nel 1965 e diplomata presso l’Accademia di Belle Arti della sua città, Daniela Comani si è trasferita a Berlino nel 1989, l’anno della caduta del Muro. Nella Berlino degli anni Novanta, fra riunificazione e ricostruzione, smottamenti politici ed esperimenti sociali, ha proseguito la sua formazione, dando inizio a un’attività artistica orientata verso i temi degli stereotipi di genere, delle abitudini culturali, della memoria, ed espressa attraverso fotografie, disegni, video, performance, installazioni, assemblage, produzioni editoriali.
Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) racconta – come detto sopra – l’intero secolo XX concentrando una selezione di fatti epocali in un anno virtuale di 366 giorni. L’opera ha tre versioni: si può ascoltare come una radiocronaca, in diverse lingue europee, fra cui il tedesco, lingua in cui l’opera è stata in origine concepita; si può leggere sfogliando un libro, diverso per impaginazione da lingua a lingua; si può guardare, stampata su tela e montata su un grande pannello, come un muro di date e parole, di dimensioni variabili a seconda della collocazione. Poiché le date riportano solo il giorno e il mese, l’opera è accompagnata da una cronologia che consente di ricostruire l’anno in cui ciascun evento è accaduto.


Realizzata dunque in diversi formati e lingue a partire dal 2002, presentata nel 2011 alla LIV Biennale di Venezia per il Padiglione di San Marino, esposta nel 2016 alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea (Macro, Roma), è conservata in una versione di 3 metri x 6 nelle collezioni del Mambo di Bologna.
L’immagine che apre questo post è un dettaglio del manifesto scelto nel 2012 per l’anniversario della strage impunita. 
Come Daniela Comani ha raccontato, è nel gennaio del 1999 che il progetto di Ich war’s comincia a prendere concretamente forma.
Negli anni precedenti, l’artista ha lavorato alla raccolta di ritagli di giornale, foto, appunti e testi, che le sono servite per diversi progetti, legati al tema del singolo individuo di fronte alla storia. Nel 1999, mentre anche il millennio – nella convenzione occidentale – si avvia alla conclusione, il progetto si incanala nella direzione di raccontare il ‘900 dalla parte di un soggetto immaginario, vittima, responsabile, correo, testimone di tutto quello che il secolo ha prodotto. 
Come struttura d’appoggio di questo progetto vertiginoso, l’artista individua il sistema di partizione del tempo basato sulle date (dal latino datum: dato, redatto il): il calendario, un sistema in grado di offrire una griglia alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti, dotato di una natura insieme pubblica e privata, amministrativa e identitaria. Nominando il calendario,  il pensiero corre all’artista tedesca Hanne Darboven, che fin dagli anni Sessanta aveva lavorato sulle strutture del tempo in opere calendariali  e, più avanti, aveva stilato elenchi di avvenimenti, allestendo opere al tempo stesso concettuali e dal forte impatto visivo. E in relazione alle date, un richiamo va fatto al giapponese On Kawara con la sua Today series (con On Kawara, nel 1996, Comani ha partecipato alla collettiva Lesen, presso la Kunsthalle di Sankt Gallen in Svizzera); o ancora Roman Opalka, l’artista polacco che ha contato il passare del tempo (una mostra del 2013 a Milano, Accoppiamenti giudiziosi, ha visto dialogare le immagini di Daniela Comani e le opere dell’artista polacco). 
Scelta l’ossatura, in questo caso una griglia di 366 caselle, bisognava riempirla tutta, selezionando un fatto ogni giorno, per un totale di 366 accadimenti che rappresentassero, in modo significativo, tutti gli anni del secolo. Il racconto dei fatti non avrebbe però seguito la successione degli anni, ma si sarebbe svolto giorno dopo giorno in un unico anno solare, da gennaio a dicembre. Inoltre, poiché la prima versione dell’opera era pensata per un’installazione audio, una sorta di radiocronaca del XX secolo, letta da uno speaker senza interruzioni, il secolo sarebbe risultato condensato in un’ora di ascolto.
Il grande archivio personale raccolto negli anni da Daniela Comani viene sistematizzato, in modo che nessuna data resti vuota e nessun anno scoperto. Fanno la loro comparsa i classificatori, i pratici Ordner dalla copertina nera, e vengono stilate tabelle di corrispondenze fra date e avvenimenti. Comincia una metodica frequentazione delle biblioteche di Berlino (la Nazionale, l’Amerika-Gedenk-Bibliothek), con consultazione di banche dati, visione di microfilm con annate di giornali e riviste d’epoca. Per tutto il 1999, Daniela Comani attende al suo lavoro quotidiano di ricerca e classificazione di quei fatti che hanno portato all’Olocausto, ai conflitti balcanici, all’unità europea, alla globalizzazione tecnologica. Prende dagli archivi le notizie, che deposita nel suo schedario personale e poi riversa nell’ordine del calendario. In questo passaggio, però, quelle notizie subiscono un cambiamento inusitato. Di qualunque cosa si parli: la proclamazione del fascismo, il primo volo nello spazio, l’attentato alla stazione di Bologna, la notizia, con linguaggio asciutto, sintetico, quasi protocollare, è sempre data in prima persona (nella versione italiana, Sono stata io, il soggetto si rivela femminile, collegandosi ad altri progetti dell’artista, in cui i titoli dei capolavori della letteratura o del cinema cambiano genere).
Nei mesi di lavoro, il libro che l’artista aveva sul tavolo era Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la scrittrice di Archivi del Nord, capace di trasformare le tracce delle memorie private, familiari e storiche in sottile e potente materia narrativa. E nume tutelare, sempre presente dietro le spalle, era Borges, con i suoi magistrali passaggi dal reale all’immaginario. In quello stesso anno 1999, usciva poi la ricerca di Aleida Assmann sulla memoria culturale, Erinnerungensräume, Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, che rimetteva in gioco i temi della responsabilità e della memoria collettiva.
Scorrendo ancora una volta il calendario di Ich war’s, l’irriverenza nei confronti della cronologia sconcerta e attrae, costringe a un andirivieni nella storia, a uno sforzo di identificazione, a una proficua attività del pensiero. Si cerca di ricordare, senza andare a controllare subito nella cronologia, in che anno, il 10 ottobre, “io”  occupo la segreteria dell’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf; e chi sono “io” (nella fattispecie sono Joseph Beuys e l’anno è il 1972). In questa anamnesi, si sovrappongono memorie personali, ci si ricorda dove veramente si era in alcune date cruciali della storia collettiva, il cui impatto ha fissato la nostra posizione nel tempo. Sono stata io, dice Daniela Comani. C’è sempre io, che compie nefandezze, o prende decisioni umanitarie, o soccombe alle avversità della natura, o sopravvive, come in questo passo del 2 agosto. 

Il sito dell’artista: danielacomani.net 
Ringrazio Daniela Comani per la lunga e generosa collaborazione con diconodioggi
as (@asbrilli)

About Time: una mostra raccontata da Elena Lago

Lockdown: una parola che ormai è entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano. L’isolamento, la chiusura, la distanza hanno dilatato il tempo trascorso nelle nostre case e forse lo hanno reso più penetrabile. La White Cube Gallery di Londra ha organizzato una mostra on line negli spazi del suo sito web, per raggruppare una serie di artisti che hanno da sempre lavorato sul concetto di tempo.
About time è un incantevole percorso virtuale curato da Susan May, Global Artistic Director della White Cube. A cominciare dalla grafica del titolo, in cui le lettere di ABOUT TIME sono disposte a cerchio, la mostra offre subito una visione fluida e circolare del tempo, le cui molteplici sfaccettature ci vengono narrate da tredici artisti: Darren Almond, Olafur Eliasson, Hanne Darboven, Cerith Wyn Evans, On Kawara, Mona Hatoum, Agnes Martin, Christian Marclay, Josiah McElheny, Roman Opalka, Tatsuo Miyajima, Park Seo-Bo, Haim Steinbach.
 Come frase introduttiva alla mostra, la curatrice ha scelto le parole di George Kubler (1912-1996), autore, nel 1962, del libro La forma del tempo:
 «Le forme del tempo sono la preda che vogliamo catturare. Il tempo della storia è troppo grezzo e breve per costituire una lunghezza uniformemente granulare quale i fisici immaginano per il tempo della natura: esso è piuttosto come un mare pieno di innumerevoli forme di tipi numericamente limitati».
 
Lo spazio virtuale della White Cube ci fa leggere il tempo nella sua forma più liquida e mutevole, senza confini, attingendo dagli artisti che hanno raccontato il tempo dei numeri, delle stagioni, della ciclicità, dell’infinito ripetersi di immagini, il tempo visto come susseguirsi di momenti esatti all’interno di una griglia perfetta o come caos primordiale (e qui la memoria torna alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea, tenutasi al Macro di Roma nel 2016, a cura di Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo).
Immersi nella nostra tranquillità dello spazio-tempo domestico, scrollando la pagina della White Cube dedicata ad About Time, tra una presentazione e l’altra delle opere si dipana un universo simulato ed interstiziale, una galassia stellata che ci proietta in un tempo assoluto, silenzioso, dilatato. La mostra è divisa in due sezioni, ognuna dedicata alle due principali maniere di vedere il tempo, attraverso la precisa e calibrata scansione metrica e numerica, o mediante l’esperienza, il flusso e la percezione emozionante e riflessiva o istintiva della durata.
Parole e numeri: iIl primo artista che incontriamo è Darren Almond (1971), che nella mostra del Macro era presente con Tuesday (1440 minutes), del 1996 e su cui –  in diconodioggi – si può leggere questo testo.

Qui, invece, lo ritroviamo con una delle sue tipiche targhe in bronzo su cui è apposta la frase latina Noli Timere, che oggi ci suona più come un consiglio dettato dai tempi che corrono: “Non avere paura”, una versione più ispirata del mantra ripetuto in questi mesi “andrà tutto bene”. Ma l’ambiguità del messaggio sta nel gioco di parole che Almond ha costruito, operando l’obliterazione di alcune lettere per creare il suggestivo e laconico verso No Time: uno spazio della mente in cui il tempo non esiste, non ci trascina nella sua ineluttabilità e di conseguenza non ci fa temere.
Più avanti, Almond ritorna con un’opera veramente iconica della sua produzione, Perfect Time, del 2018. Composta da sei “flip clocks” le cui palette non seguono un andamento coerente tra le due metà, l’installazione non compone orari precisi, ma alfabeti sincopati e sconnessi, piccoli trattini bianchi su sfondo nero. Attraverso questo orologio paradossale, non possiamo controllare il tempo che passa, ma solo cogliere le sue infinite variabili che spesso risultano sfuggenti e impenetrabili, a tratti “interrotte”. Ma è questo il Tempo perfetto secondo l’artista, perché costruito da attimi e flussi che si incrociano, da costanti e variabili, da punti fermi e confini labili.
Roman Opalka (1931-2011), con la sua imperturbabile e costante precisione maniacale, compare poco dopo, lasciandoci, invece, un’idea di tempo che scorre e che ci appare come una progressione continua di numeri scritti a mano a partire dal 1965 fino al momento della sua morte. Ogni piccola tela di questo intero sistema numerico prende il nome di Détail e nella mostra virtuale della White Cube è stato esposto il DÉTAIL 2345774 – 2347926, del primo anno, il 1965. È un inchiostro su carta, non acrilico su tela: questo ci suggerisce che Opalka ha composto questo frammento durante un viaggio, quando ha la consuetudine di continuare il suo ossessivo lavoro non sulle tele, ma sulle più pratiche e maneggevoli Cartes de voyages. Quella di Roman Opalka è una narrazione lineare del tempo, che corrisponde a quell’idea di ripetizione e di riproposizione che contraddistingue anche il messaggio artistico di On Kawara (1933-2014), che incontriamo poco dopo e di cui viene presentata una tela dalle Today Series con la data MAY 26, 1994. Questo progetto quotidiano inizia nel 1966 e si interrompe solo con la morte dell’artista: quello contenuto nella serie dei giorni è un tempo personale e quotidiano, lento nella realizzazione di ogni singola tela, ma anche stringato e ripetitivo proprio per il carattere stesso del progetto: una testimonianza evidente, rigorosa e schematica del tempo che passa. Spesso l’artista ha l’abitudine di aggiungere una scatola con alcuni oggetti legati a quella specifica data scritta sulla tela nera. In questo caso, compare il titolo del “New York Times” che recita «Space Telescope Confirms Theory of Black Holes».
Luci e numeri, display di orologi digitali e piccoli codici fanno parte della poetica dell’artista giapponese Tatsuo Miyajima (1957) che, attraverso i suoi led che variano in continuazione le loro cifre dall’uno al nove, esprime il carattere circolare e fluido del tempo, che sempre cambia. Ciò
stabilisce una costante connessione, derivata dalla sua fede buddhista, tra la nascita, la vita e la rinascita, mentre lo zero, che rappresenta la fine e la morte, non compare mai tra i suoi numeri. Chiudono la serie dedicata alla misurazione e ai numeri Hanne Darboven (1941-2009), con una delle sue griglie di date, calcoli e poetici segni personali, la Dostojewki, Monat, Januar 1990 e Agnes Martin (1912-2004). Dell’artista canadese, la White Cube ci propone tre opere minimaliste, tra cui un Untitled del 1959, in cui ogni elemento viene portato ai minimi termini: un cerchio nero su sfondo bianco di lino, diviso in piccoli spicchi imprecisi, ricorda semplicemente la forma e l’aspetto di un orologio; un modo per appresentare «non ciò che si vede, ma ciò che si conosce per sempre nella mente».
Esperienza, flusso e durata: la seconda sezione della mostra si concentra sugli aspetti più fluidi ed esperienziali del tempo. La sua contingenza, il vissuto quotidiano, il concetto di durata e di flusso che sono stati decodificati dalla filosofia bergsoniana della durée. Il tempo soggettivo dell’esperienza procede come un getto ininterrotto ed indivisibile, intuibile attraverso la coscienza, capace, in questo modo, di ricongiungersi alla sua unità interna.
Christian Marclay (1955), autore del capolavoro The Clock, del 2010, è il primo artista che incontriamo. Con una serie di tre video ci trasmette la sua idea di durata: Look, Cotton buds e Lids and Straws (One minute), tutti realizzati tra il 2016 e il 2019, inquadrano minuscole porzioni delle strade londinesi, fotografate in diversi momenti della giornata e montate per creare un video loop, hanno la stessa funzione della serie delle Cattedrali di Monet. Le piccole variazioni di luce e di atmosfera prodotte sulla strada, così come i minimi dettagli della pavimentazione, forniscono un pattern irregolare e casuale al passare del tempo.
Questa incessante atmosfera di divenire e di cambiamento che viene fornita dal video in loop si riscontra ancora nel lavoro fotografico di Olafur Eliasson (1967) del 2006, The morning small cloud.

Attraverso una sequenza di nove fotografie, prese da una serie più ampia, ci mostra il passare del tempo attraverso l’apparizione mattutina di una piccola nuvola attorno ad una altura dell’Islanda. Ancora una volta, l’artista è capace di consegnarci una specifica idea di tempo atmosferico attraverso un legame indissolubile con il discorso cronologico, che si nota dalla lenta trasformazione ambientale delle foto.

Di questa seconda sezione colpiscono in particolare le opere dell’artista di Boston Josiah McElheny (1966). Le sue installazioni sono quasi sempre incentrate sulla lavorazione del vetro attraverso cui costruisce porzioni fragilissime di piccoli universi. Nel 2005, in collaborazione con il cosmologo David Weinberg, ha ideato il film Island Universe in cui inserisce l’idea dell’eterna inflazione dell’Universo. Questa costruzione fluida, frattale ed in continuo divenire del cosmo, data dalla creazione perpetua di nuova materia, ha portato al concetto di “multiverso”.

 

McElheny, da questo modello, ha tratto alcune sculture in alluminio, vetro e luce elettrica che, oltre ad essere meravigliosi oggetti di design, suggeriscono l’idea di un’energia temporale che si irradia mutevolmente. Frozen Structure, il pezzo di universo inserito nel percorso virtuale, incarna un mondo che ha avuto inizio con un’energia oscura che ha congelato la crescita e il raggruppamento delle galassie in strutture ghiacciate e cristallizzate in una sospensione atemporale.
Verso la fine del percorso espositivo della pagina della White Cube, compaiono le opere al neon dell’artista gallese Cerith Wyn Evans (1958). Prima il neon drawing ispirato al simbolo dell’infinito che si dipana nello spazio attraverso il semplice e lineare disegno del neon appeso al soffitto, poi il testo specchiato dell’installazione del Leadenhall Market di Londra: “Time here becomes space/Space here becomes time” un gioco semantico e visivo: il testo specchiato, costruito con il neon, delimita uno spazio sospeso e incantato del mercato londinese, creando una sorta di doppia entrata in cui, attraverso questa sorta di formula magica, da una parte il tempo si trasforma in spazio e dall’altra lo spazio diventa tempo.
Chiudono poeticamente la mostra virtuale le parole Going going gone formulate da Haim Steinbach (1944), in un’installazione del 1999. Lo stesso verbo coniugato in due tempi diversi, trasferiti sul muro nero su bianco, in verticale, quasi a testimoniare la fuggevolezza del tempo e l’assurda vanitas del presente: un attimo prima siamo immersi nella temporalità vibrante e attiva del gerundio, nel pieno dell’andare, e un attimo dopo ci ritroviamo nella dimensione chiusa e passata del participio, dell’andato. In altre parole, un moderno memento mori, che vede al posto del teschio e della clessidra un semplice e conciso sciorinamento di tre tempi verbali.
Elena Lago, giugno 2020

About Time, fino al 16 luglio 2020 > qui un video tour della mostra 

I 21 giugno del conte Rostov: una nota di Sandra Muzzolini

Su Twitter negli ultimi mesi molti lettori, scrittori e blogger hanno fatto notare la rilevanza – in tempi di lockdown –  della vicenda narrata dallo scrittore statunitense Amor Towles nel libro A Gentleman in Moscow (2016). Il Washington Post a fine marzo 2020 ha incluso il romanzo di Towles in una lista di dieci letture raccomandate per i giorni di quarantena.
Il libro racconta la storia del Conte Rostov: condannato nel 1922 da un tribunale bolscevico per essersi “arreso alle corruzioni della sua classe sociale”, Rostov viene scortato attraverso i cancelli del Cremlino che danno sulla Piazza Rossa fino all’Hotel Metropol, dove dovrà trascorrere il resto dei suoi giorni agli arresti domiciliari.
Gentiluomo colto, appassionato di libri e di musica, arguto e brillante nella conversazione e perfetto anfitrione, Rostov non si scoraggia, convinto che un uomo deve saper governare le circostanze, non essere governato da esse. Costretto a rinunciare alla suite 317 che aveva occupato negli ultimi quattro anni, si ritrova confinato in una angusta stanza dell’ultimo piano dove non riesce nemmeno a collocare tutte le sue cose. Qui vivrà per una trentina d’anni, fedele ai riti e allo stile di un mondo aristocratico che vede dissolversi stando al riparo di questa prigione dorata che è l’hotel Metropol, un mondo a sé che solo a tratti viene raggiunto dagli echi della storia.
La data del 21 giugno, giorno della condanna di Rostov e dell’inizio del suo soggiorno forzato al Metropol, ricorre altre volte nella storia. Il 21 giugno 1923 il conte si sta preparando ad incontrare Mishka, l’amico poeta che rappresenta il suo contatto con il mondo esterno, e si chiede se sia opportuno celebrare l’anniversario del suo primo anno agli arresti, se abbia senso tenere il conto del tempo che passa, come fanno i naufraghi su isole deserte.

Il narratore ci offre poi il 21 giugno del 1946 un altro sguardo sulla Piazza Rossa, sul Cremlino e la cattedrale di San Basilio, e sulle ragazze vestite a fiori nell’ultimo giorno di primavera. Il quarto libro si apre il 21 giugno del 1950 ed all’inizio del quinto libro veniamo a conoscenza di un evento che si svolgerà a Parigi il 21 giugno 1954, un concerto a cui dovrebbe partecipare una persona cara al conte, uno degli incontri felici della sua vita al Metropol. Agli accadimenti di questa giornata sono dedicate le ultime pagine del romanzo.

Ed ecco un brano significativo:
At half past six on the twenty-first of June 1922, when Count Alexander Ilych Rostov was escorted through the gates of the Kremlin onto Red Square, it was glorious and cool. Drawing his shoulders back without breaking stride, the Count inhaled the air like one fresh from a swim. The sky was the very blue that the cupolas of St. Basil’s had been painted for. Their pinks, greens, and golds shimmered as if it were the sole purpose of a religion to cheer its Divinity. Even the Bolshevik girls conversing before the windows of the State Department Store seemed dressed to celebrate the last days of spring.
“Hello, my good man,” the Count called to Fyodor, at the edge of the square. “I see the blackberries have come in early this year.”
Giving the startled fruit seller no time to reply, the Count walked briskly on, his waxed moustaches spread like the wings of a gull. Passing through Resurrection Gate, he turned his back on the lilacs of the Alexander Gardens and proceeded toward Theatre Square, where the Hotel Metropol stood in all its glory. When he reached the threshold, the Count gave a wink to Pavel, the afternoon doorman, and turned with a hand outstretched to the two soldiers trailing behind him.
“Thank you, gentlemen, for delivering me safely. I shall no longer be in need of your assistance.”

Qui il link al sito dell’autore; l’edizione italiana Neri Pozza tradotta da Serena Prina e poi una curiosità: c’è anche chi ha suggerito di accompagnare la lettura con dello stufato cucinato secondo una tradizionale ricetta lettone, uno dei piatti preferiti del Conte, e prontamente il Book Club Cookbook ha pubblicato una foto del piatto e il link alla ricetta.

Sandra Muzzolini (@sandra_mzz)

@drtime_ un aggregatore di tempo

Uno dei tanti effetti collaterali del Covid-19 è quello di aver aumentato la frequenza della parola tempo nelle conversazioni. Non (solo) il tempo atmosferico, ma la dimensione del tempo che – interrotte le scansioni quotidiane a causa del lockdown – si presenta in blocchi compatti, si sfilaccia, si arrotola su sé stesso, sembra non passare mai o sparire in un batter d’occhio. Metafore, immagini, visualizzazioni, grafici, citazioni, gif animate scorrono nelle timeline dei social e per chi il tempo lo osserva e lo studia diventano una consistente fonte di dati e riflessioni.
Una selezione di risorse e testimonianze sul tempo si trova nell’account Twitter di Dr Time.

Il nome è scritto di seguito, con un underscore alla fine e due emoji che rappresentano il passaggio del tempo; nella presentazione, chi gestisce l’account si definisce un “chronosopher”, che usa Twitter (e anche Instagram) per una ricerca partecipata sul grande tema del “mystery of time”.
E di fatti Dr Time rilancia notizie e mirabilia, lavori di gruppi di ricerca (come il Timing Research Forum) e video in time-lapse di fenomeni naturali, affacci sul tema da diverse prospettive interconnesse, scienze, spiritualità, relazioni, linguaggio, creatività.
Dietro l’alias Dr Time c’è il ricercatore australiano Edward (Eddie) Harran, che si definisce Temporal Designer, Futurist and Researcher of Chronosophy.
Harran fa parte – come chi gestisce diconodioggi – dell’International Society for the Study of Time (ISST) e lavora sul tema in modo profondamente interdisciplinare e progettuale, con l’obiettivo di usare le esperienze presenti per immaginare forme future e potenziali di relazioni con il tempo.  
In questo periodo, il suo account aggrega evidenze sul mal di tempo in cui ci troviamo a vivere, registrando segnali della distorsione collettiva e aperture di pensiero. 

È grazie alle scelte di Dr Time, per esempio, che si incontra l’eloquente e bellissimo calendario di Chaz Hutton, dove il mese di aprile 2020 sgretola giorno dopo giorno la griglia regolare delle settimane e le linee di confine fra le giornate. 
Qui un link a un intervento di Harran sul tema del Future of Time.

 

“Time-taking exercises”

Retreating Horizon of Time in Quarantine (L’orizzonte in ritirata del tempo in quarantena) è il titolo molto eloquente di un articolo di Dan Chiasson apparso il 19 marzo 2020 sul sito del New Yorker. Segnalato da Carol Fischer dell’International Society for the Study of Time, il pezzo raccoglie esempi variegati degli effetti che la quarantena da Covid19 sta producendo nel rapporto con il tempo. In un periodo di forzato isolamento in sé stessi, le persone pongono maggiore attenzione allo “sfruttamento” e al “potenziamento” delle lunghe ore a disposizione, raffinando le scelte, soprattutto quelle che riguardano la lettura e la scrittura. Complici anche i social network, gli esperimenti di lettura collettiva aumentano, offrendo tanti programmi scadenzati a cui partecipare, che possono provocare – insieme alla soddisfazione – anche un misto di ansia e ripetitività. 
In cerca di forme per passare il tempo l’autore richiama una serie di esperienze del passato, oggetto di un suo interesse anche collezionistico. Si tratta di libri e quaderni fatti a mano da persone che si sono trovate alle prese con un tempo estremamente lungo da riempire. Fra questi, Chiasson cita il Cahier de Chansons, un quaderno di canzoni, realizzato alla fine della seconda guerra mondiale da un ufficiale francese prigioniero in uno stalag tedesco. E poi due fascicoli di un misterioso periodico di epoca vittoriana, sempre fatto in casa, che raccoglie racconti, puzzle, indovinelli, poesie, disegni e altri “time-taking exercises”, espedienti fantasiosi ed esercizi disciplinati per occupare il tempo, forse di un’estate ottocentesca. C’è anche un gioco ancora irrisolto su cui l’autore invita a perdere tempo: lo trovate qui.

 

 

29 Febbraio

29 febbraio 2020

« »

“Cinquantadue carte fanno cinquantadue settimane”, mormorò.
“Il tutto fa 364 giorni. Fin qui tutto bene. E poi i mesi diventano tredici, di ventotto giorni ciascuno…
E anche qui arriviamo a 364. Tutte e due le volte, però, avanza un giorno…”
“Che sarebbe il Giorno del Jolly”, spiegai.
“Per la miseria!”
Rimase a lungo a fissare gli aranci, poi 
mormora: “E tu, quando sei nato, Hans Thomas?”
Non capivo dove voleva arrivare. “Il 29 febbraio 1972”, risposi.
“Ma in quale giorno cadeva?”
Allora ebbi l’illuminazione: nel giorno ‘in più’ di un anno bisestile. Secondo il calendario dell’isola incantata, sarebbe stato il Giorno del Jolly.

Jostein Gaarder, L’enigma del solitario, (Kabalmysteriet)1990, tr.it. D. Braun Savio, Longanesi 1996,ed. cons. TEA, 1998, pp. 216-17

Dicono del libro
“Chi sei, tu? Sei un fante di fiori, una donna di cuori, un asso di quadri, un due di picche? Già, perché ognuno di noi non è che una carta di quel grande solitario chiamato vita, una carta che esce a un certo punto del gioco, prende il proprio posto sul grande tavolo dell’universo e segue le regole che altri hanno stabilito. Ma che cosa ci accadrebbe se, nel ‘grande solitario’, spuntasse un jolly? Probabilmente ci sentiremmo un po’ come il dodicenne Hans Thomas che, nel suo viaggio verso la Grecia alla ricerca della mamma (fuggita di casa per trovare se stessa), scopre un’isola incantata (in cui vivono cinquantadue nani, un naufrago pieno di immaginazione e un folletto molto sarcastico) e finisce per capire che l’unico modo per non essere schiacciati dal destino è trasformarsi lui stesso in un jolly curioso e impertinente, sempre pronto a porsi domande” (dalla quarta di copertina dell’ed. TEA citata)

Altre storie che accadono oggi

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“… Che santi si festeggiano sul calendario, il ventinove di febbraio?…”
Marco Malvaldi, Buchi nella sabbia

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“… So it was that on the twenty-ninth day of February, at the beginning of the thaw, this singular person fell out of infinity into Iping village…”
H. G. Wells, The Invisible Man

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“… Con la presente, dichiaro che sabato 29 febbraio 1967 ho colpito mia cognata Isabe Kerr con un posacenere e l’ho uccisa…”
Rex Stout, Nero Wolfe. Invito a un’indagine

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“… 29 febbraio ’71 Caro Michele, mi sono arrivate le dodici tutine di spugna…”
Natalia Ginzburg, Caro Michele

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“… La Repubblica fu finalmente proclamata in forma solenne a Marsiglia la mattina del 29 febbraio…”
Emile Zola, I misteri di Marsiglia (segnalazione di @atrapurpurea)

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“… si trattava di una sera del tutto fuori dall’usuale, non compresa quasi nel calendario, un hors d’oeuvre, per così dire, una sera extra, una sera bisestile, il 29 febbraio…”
Thomas Mann, La montagna incantata

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“… Il tuo giorno fortunato è stato un 29 febbraio. Una data ballerina…”
Simona Sparaco, Se chiudi gli occhi (segnalazione di Libreria Feedbooks @feedbooks_it)

 

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“… Erano le ultime ore di un freddissimo 29 febbraio del 1936 quando nacqui ad Ampezzo…”
Luigi Schneider, Nato il 29 febbraio. Storia di un uomo fortunato (segnalazione di @atrapurpurea)

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“… campava con uno stecco 365 giorni all’anno e 366 quando l’anno era bisestile…”
Anton Giulio Barrili, La notte del commendatore (segnalazione di @atrapurpurea)

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“… Ma questo è un giorno speciale, è il 29 febbraio Marco Carrera non ha resistito. Non è superstizioso, non è scaramantico, ma si fa comunque ispirare da numeri e ricorrenze, e un giorno che capita solo ogni quattro anni è un buon giorno per giocare…”
Sandro Veronesi, Il colibrì (segnalazione di Fabiazep)

The Library of Encoded Time di Michele Ciacciofera

Quando l’artista Michele Ciacciofera espose alla Biennale del 2017, sulla rubrica Alfagiochi della rivista “alfabeta2” giocammo con le lettere del suo nome e uno degli anagrammi che ne risultarono fu “E lì faccio ceramiche”, trovato da Viola Fiore. Si tratta di un anagramma felice, poiché fa emergere dal nome dell’artista la materia a cui egli si dedica da tempo con una passione da conoscitore, da collezionista e anche da studioso. 
In una interessante conversazione con Irene Biolchini, Ciacciofera – che è nato in Sardegna e vive fra la Sicilia e Parigi – racconta infatti l’importanza della ceramica nel suo percorso artistico, che è tutt’uno con la sua visione della cultura: un viaggio nella lunga durata, dalla natura alla storia, attraverso fossili e reperti, materie prime e tecniche di lavorazione arcaiche, segni, decorazioni e grafie. 
Una sintesi formidabile di questi caratteri della sua ricerca si trova  nella mostra aperta fino a marzo 2020 al Museo Marino Marini di Firenze, a cura di Angelo Crespi, dal titolo  The Library of Encoded Time.
I concetti di biblioteca, di codici e di tempo sono riuniti in una installazione fatta di mattoni che presentano – come tavolette antiche – tracce di scrittura, glifi, linee. Questi “libri che interrogano il tempo” sono il risultato di un lavoro effettuato sui mattoni rinvenuti durante la ristrutturazione del chiostro adiacente alla ex chiesa di San Pancrazio, dove il museo Marino Marini ha sede.
Come si legge nella presentazione della mostra, la procedura che porta alla realizzazione passa per diverse fasi: una prima cottura dei mattoni che, come in “rituale di purificazione”, elimina la calce; la scrittura “quasi automatica” sulla superficie, su cui linee e segni si intersecano e si stratificano in un magma temporale; infine la seconda cottura che fissa indelebilmente smalti e colori sulla superficie “così da far presagire il riutilizzo del mattone per una futura costruzione, una biblioteca, basata sui segni che rappresentano la memoria”.

La mostra The Library of Encoded Time è aperta fino al 2 marzo 2020 al Museo Marino Marini di Firenze.

I venti venti di Paolo Bernacca

L’illustratore e grafico romano Paolo Bernacca è un artista poliedrico, che gioca con le immagini, i supporti, le tecniche e spesso anche con le parole. Oltre all’attività professionale per case editrici e periodici, Bernacca svolge una ricerca su temi che lo appassionano: il mare, la navigazione, il tempo nelle sue accezioni cronologiche e meteorologiche, affrontandole con la pittura, l’assemblage e il disegno dal vero.
Chi ha avuto modo di vedere qualche sua mostra o catalogo, conosce di certo i suoi Fari, una serie di dipinti e di grafiche realizzate negli anni Novanta, che presentano – con tagli prospettici originali e talvolta l’inserzione di un elemento narrativo e letterario – una collezione di queste architetture di segnalazione, presenze cromatiche che svettano sulla linea delle coste. Nelle Pagine salate – altra serie di ispirazione marina –  l’autore riconosce, in grandi schegge di legno, dei profili di paesaggio e le assembla per ottenere vedute che sono insieme bi- e tri-dimensionali.
Dal 2012, Bernacca si dedica poi alla pratica dello sketchcrawl (traducibile come “maratona di disegno”), realizzando schizzi dal vero di vedute paesistiche, scorci cittadini e architetture: l’editore Palombi ha pubblicato  una selezione di sketch di Bernacca  e del collega Maurizio Moretti in un volume prezioso, che si spera il primo di una serie.
Questo post è dedicato però soprattutto a uno dei temi che l’artista affronta con rigorosa e fantasiosa puntualità tra la fine e il principio di ogni anno: il calendario.  

Dal 1988, l’anno che sta per arrivare è visualizzato in forme sempre diverse, che alludono graficamente alle cifre che ne compongono il numero, in un gioco di riferimenti e suggestioni venato di arguzia.
Le invenzioni prodotte fin qui dalla fantasia di Bernacca si possono vedere a questo indirizzo web; ogni schermata un anno che è trascorso, salutato dalla sua immagine emblematica, che ne accompagna il passaggio: ciliegie, virgole, aquiloni, punti interrogativi, coppe e così via.
Il calendario del 2020 racchiude  anche un enigma da risolvere, che ne allarga le dimensioni concettuali e il piacere di averlo accanto nei mesi di questo nuovo anno. Il disegno, che accompagna la sequenza dei mesi e dei giorni dell’anno nuovo, è un diagramma stellare, con le cifre 2 2 0 0 sulle quattro punte principali. Sotto ad esso, la parola Rebus indica che l’osservatore deve risolvere un enigma, la cui soluzione corrisponde a una frase di quattro parole – la cui lunghezza è indicata dai numeri fra parentesi – da ottenere ragionando sul disegno e sui segni che lo accompagnano.


Se non si riesce a risolvere il rebus, basta capovolgere il calendario e la soluzione si può leggere lì in fondo.
Due piccoli aiuti: il primo è un’opera del 1971 dell’artista verbo-visivo Arrigo Lora-Totino, dal titolo Parole ai quattro venti, che si basa su un meccanismo simile a quello del calendario di Paolo Bernacca per il 2020. 
Il secondo aiuto ci porta a Fivizzano,  in provincia di Massa-Carrara, dove ha sede il Meteo Museo Edmondo Bernacca (MMEB), dedicato al celebre  meteorologo dell’Aeronautica Militare, padre di Paolo ed egli stesso fine disegnatore di fenomeni, carte e diagrammi.
Entriamo così nel 2020 con una mappa del tempo cronologico che racchiude in sé folate di tempo atmosferico, collegate da un gioco antico grazie alla matita felice di Paolo Bernacca. 

a.s.

 

 

 

Past + Future

“Quando il presente diventa passato? Quando finisce oggi e inizia domani? E come definiamo lo spazio che si trova nel mezzo, prima che uno sia determinato come conseguenza dell’altro?”
Sono le domande che l’artista australiana Sara Morawetz pone per presentare la serie di opere Tenses. I tempi, i tempi dei verbi, la natura dei termini che indicano la percezione condivisa e personale del tempo sono il soggetto di questa serie di opere che risale al 2017 e che costituisce una delle fasi della ricerca, artistica e scientifica, che Sara Morawetz conduce sul tempo e sulla sua misurazione. 


In questa serie di opere, i termini Today, YesterdayPresent, PastFuture sono stampati neri su fondo bianco con la tecnica della stampa lenticolare, una tecnica per cui, muovendosi davanti all’immagine, il visitatore percepisce una forma che sfuma in un’altra. Nel caso delle parole, lo stato di transizione fra l’una e l’altra produce sovrapposizioni, stati indeterminati, in cui la leggibilità e il senso diventano eventi casuali, effimeri e mutanti mentre l’occhio trascorre sulla superficie.


In questi passaggi, capita che le lettere creino delle sequenze sensate, del tutto inaspettate: per chi parla italiano, nello scatto che si vede riprodotto in questo post, la somma dinamica di PAST e FUTURE produce a un certo punto la sequenza leggibile PAURE, che apre a suggestioni e interpretazioni impreviste dall’autrice, ma cariche di senso per chi parla appunto italiano.

Il tema del passaggio fra uno stato attuale, il presente dell’ora, e un prima, rimanda il pensiero all’opera del fotografo Duane Michals, Now becoming Then (1978), corredata di una legenda che coniuga le neuroscienze (il momento presente è una costruzione della mente) e i pensieri sul tempo di Sant’Agostino: “When I say, ‘this is now’, it becomes then. There is no now, it appears to us as a moment, but the moment itself is an illusion. It is and isn’t, and this illusion is a series of about-to-be’s and has-beens, that put together seem an event. It is a construction, an invention of our minds”.


Il procedimento concettuale di una parola che sfuma nell’altra lasciando una traccia comune ricorda poi la fusione algebrica di A GUEST + A HOST = A GHOST di Marcel Duchamp. Anche gli anni fatti di giorni in trasparenza nei calendari compositi di Alighiero Boetti si affacciano in questi accostamenti che cercano di catturare lo “space in-between“, l’istante di passaggio fra prima, adesso, dopo. Abituati ad esistere nel flusso, fermarsi a ragionare sui punti di passaggio fra le immense misure del passato e del futuro, del PAST e del FUTURE,  può ragionevolmente suscitare le PAURE che i due termini contengono a un certo stadio della loro fusione.

Il sito dell’artista: http://saramorawetz.com

Su Diconodioggi si parla di Sara Morawetz in occasione della sua opera-ricerca How the Stars Stand  e della conferenza tenuta alla Sapienza di Roma nel corso di Antonella Sbrilli.

a.s.

Con Casa Lettori a Più libri più liberi 2019

Che cosa vuol dire aprire e mantenere un blog dedicato ai libri; che efficacia ha diffondere le proprie riflessioni e proposte tramite Twitter, nell’epoca del dilagare di Instagram; come si può coniugare la forma della scrittura con la presenza delle immagini; e perché dedicare tempo della propria vita quotidiana a un impegno non direttamente remunerativo. 
Intorno a queste domande si è svolta la conversazione di giovedì 5 dicembre 2019, nell’accogliente spazio dell’Arena Robinson di Repubblica, allestita a Più libri Più liberi.
Maria Anna Patti, collaboratrice di Robinson e fondatrice/animatrice di Casa Lettori – un dispositivo di promozione della lettura e della partecipazione culturale che conta col solo account Twitter più di 76.000 follower – ha scelto gli ospiti e condotto il dialogo  su questi temi, davanti a un pubblico composto per la maggior parte di giovani studenti, e poi di fedelissimi della lettura, di curiosi, di visitatori e operatori della fiera. 

Con molto piacere, Diconodioggi – nella persona della fondatrice Antonella Sbrilli – ha partecipato a questo incontro, insieme con gli altri blog (e account Twitter) invitati: Corsi e rincorsi di Sara Durantini, che si occupa – come dice il sottotitolo – di “Arts. Literature. More”, in una visione integrata delle espressioni creative;  Un libro, una tazza di lè e il camice bianco di Marzia Giansante, psichiatra che considera l’apporto umanistico indispensabile alla cura e alla stessa professione medica; “Giuditta legge. Il blog di lettura di Giuditta Casale” che fa della lettura personale di un singolo libro un punto per osservare le dinamiche relazionali della società; Letteratume. Spunti di letture con leggerezza di Vincenzo Barometro, che predilige ironia e auto-ironia per le sue incursioni editoriali. 
Anche Sololibri,net ha contribuito al talk, con dati sulla presenza dei blog letterari in rete e sulla consistenza degli scambi sui social, mentre Maria Di Cuonzo ha twittato l’evento in diretta.
Il filo rosso delle considerazioni espresse negli interventi è stato quello della necessità di comunicare il proprio modo di leggere, in cerca di interlocutori affini, di riscontri, di collegamenti.
Il dialogo può crearsi con gli autori, con gli editori (e in questo Twitter è assai più efficace di altri social), con una nicchia di appassionati su temi molto specifici – come nel caso di chi arricchisce giornalmente @diconodioggi con le date trovate nei racconti – oppure con un gruppo molto vasto di persone, come accade proprio a Casa Lettori, che considera ogni tweet inviato al suo account un segno importante della presenza di ciascuno.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

 

 

Muri fuori sincro in un libro di Stefano Scialotti

Stefano Scialotti è un regista di documentari che affrontano i temi – per lui sempre intrecciati – dei diritti umani, dell’infanzia, del gioco e dell’arte in tutte le sue variegate espressioni. Chi vuole conoscere alcune delle sue realizzazioni può seguirlo sul canale Vimeo, dove i video caricati mantengono una traccia, quasi un diario, delle sue tante imprese in giro per il mondo. Dai sogni onirici dei bambini, alla liberazione dei cortili, passando per la documentazione alternativa delle Biennali (non solo quella di Venezia), Scialotti si muove sempre come un creatore di situazioni collettive, director di incontri e di fenomeni il cui racconto filmato è solo uno degli esiti possibili e sperati.
Uno dei temi a cui Scialotti sta dedicando da anni energie, viaggi e impegno è quello dei muri che separano le frontiere calde del panorama geopolitico attuale: manufatti edilizi che condensano materialmente e metaforicamente l’esclusione, anche violenta.
Dal confine fra Stati Uniti e Messico, al campo Aida di Betlemme, in collaborazione con volontari, ricercatori, artisti, attivisti, Scialotti trasforma lo spazio desolato prossimo ai muri in un luogo di avvenimenti inaspettati, che coinvolgono i bambini del posto in partite di calcio e altri giochi in virtuale dialogo con i bimbi dell’altra parte.
All’origine di questo interesse profondo, c’è un’esperienza condotta da Scialotti davanti al muro per antonomasia, quello di Berlino, eretto nel 1961 e smontato nel 1989. A questo muro, Scialotti ha dedicato riflessioni e azioni, fotografando – nel corso degli anni ’80 – il palinsesto di scritte di cui la sua facciata occidentale si copriva, immaginandone la parete nascosta verso Berlino est, organizzando performance e spettacoli (fra cui uno al Piper di Roma, nei primi anni Ottanta).
Tutto questo materiale, rielaborato con un estro fantastico e tecnologico che rivela la formazione di Scialotti – ingegnere elettronico appassionato di fantascienza – e la sua attitudine alla ricerca creativa, è diventato Lennon not Lenin. Il muro di Berlino erano due, un libro pubblicato dall’editore Fausto Lupetti e collegato alla campagna iorompo.it del quotidiano “il manifesto”. 
Tutto è doppio in questo racconto: le facce del muro, nella città dal “cielo diviso”, così come le realtà, quella corrente in cui si svolge la storia  e quella virtuale del dispositivo di Intelligenza Artificiale (anzi di Vita Artificiale, il cui nome è Continua-Mente), che interagisce con i protagonisti. Le vicende raccontate – in capitoli brevi e dallo spirito ipertestuale – si srotolano fra il 13 agosto 1981 (vent’anni esatti dopo l’inizio della  costruzione del muro),  quando un gruppo di artisti, “reduci un po’ disadattati del ’68”, fonda il collettivo utopico No Future Project, e il 25/26 marzo del 1991, quando il gruppo si ritrova in cerca di uno dei componenti, Ario, che è scomparso. La strategia investigativa adottata nella ricerca scatena un corto-circuito di tecnologie, culture e tempi, che è il fulcro della narrazione:  procedendo nella lettura, ci si accorge che i nomi dei protagonisti sono connessi alla Divina Commedia, a cui alludono anche le date di marzo in cui si ambientano le vicende; e così il viaggio di ricerca si riflette e si raddoppia nei versi del poema dantesco che Continua-Mente cita in risposta alle domande che le vengono poste. L’aldilà e l’aldiquà, la storia e la finzione, la realtà e la virtualità,  lungi dall’essere per forza domini separati da muri e confini, rivelano – a saperli trovare – tanti ponti e punti di connessione, fatti di parole e giochi con le parole, immagini fisse, spezzoni di video, telepatie, frammenti “fisici e grafici”. Come spiega Francesco Antinucci nella prefazione al libro, le storie che lo compongono “corrono parallele ma a un certo punto scivolano l’una rispetto all’altra, così che i loro personaggi vanno fuori sincro o nel tempo o nello spazio, creando e vivendo realtà inesistenti (né mai esistite) fatte di pezzi rigorosamente esistenti (o esistiti)”.
Il fuori sincro funziona anche in queste pagine di Scialotti come un modo di raccontare gli strati non lineari delle storie e della storia, ripescando dal magma del tempo segnali ancora trasmissibili, fra cui emergono – ancora potenti e argute come Lennon, not Lenin – alcune delle  scritte del muro di Berlino.

a.s.

Il video Lennon not Lenin di Stefano Scialotti con Davide Canazza