31 Ottobre

31 ottobre 2024

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Con quell’idea buttai giù una breve domanda nella quale chiedevo, ad un’intelligenza immaginaria, in quale canto dell’Ariosto si trovasse la predizione del giorno della mia liberazione. Poi composi una piramide rovesciata con i numeri risultanti dalle parole della mia interrogazione, e sottraendo il numero nove da ciascuna coppia di cifre, trovai alla fine, per risultato, ancora il numero nove. Ritenni perciò che nel nono canto c’era quello che cercavo. Seguii lo stesso metodo per sapere in quale stanza, di quel canto, si trovava la predizione, e trovai il numero sette. Curioso infine di sapere in qual verso della stanza si trovasse l’oracolo, ottenni l’uno. Col cuore palpitante presi subito in mano l’Ariosto e trovai che il primo verso della settima strofa del nono canto era:

Tra il fin d’ottobre e il capo di novembre.

La precisione di quel verso, e il fatto di vederlo così appropriato al mio caso, mi sembrarono tanto mirabili che, senza dire di avervi prestato fede, il lettore mi vorrà perdonare se gli dichiarerò che mi disposi a fare tutto quello che dipendeva da me per favorire il verificarsi dell’oracolo. Lo strano è che “tra il fin d’ottobre e il capo di novembre” non v’è che mezzanotte, e fu precisamente al suono della campana di mezzanotte del 31 ottobre che io uscii dai Piombi, come il lettore vedrà

Giacomo Casanova, Fuga dai Piombi, 1787, ed. cons. a c. di G. Spagnoletti, Fuga dai Piombi – Il Duello, Rizzoli, 1989, pp. 132-133

Rinchiuso nella prigione dei Piombi a Venezia, Giacomo Casanova ha già tentato la fuga in agosto, ma un imprevisto cambio di cella ha mandato all’aria il suo piano. In ottobre, sta organizzando di nuovo la fuga fra Ognissanti e i Morti, quando gli Inquisitori di Stato prendono qualche giorno di vacanza. Cercando di decidere quale sia il giorno migliore per mettere in atto il progetto, Casanova confida in una rivelazione e si affida a un metodo usato nella sua epoca: la consultazione di un libro come se fosse un oracolo. Poiché ha a disposizione l’Orlando Furioso, Casanova – con un sistema che traduce le parole in numeri – interroga il poema dell’Ariosto e ottiene come responso un verso da cui deduce che la data migliore per fuggire corrisponde alla notte del 31 ottobre. 

 

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30 Ottobre | 30. Oktober

30 ottobre 2024

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Nun soll ich dir sagen, was mir widerfuhr. Ich muss es, das sehe ich ein, aber nur es denkend, lacht es wie toll aus mir heraus. – Ach mein herzlieber Lothar! wie fange ich es denn an, dich nur einigermaßen empfinden zu lassen, dass das, was mir vor einigen Tagen geschah, denn wirklich mein Leben so feindlich zerstören konnte! Wärst du nur hier, so könntest du selbst schauen; aber jetzt hältst du mich gewiss für einen aberwitzigen Geisterseher. – Kurz und gut, das Entsetzliche, was mir geschah, dessen tödlichen Eindruck zu vermeiden ich mich vergebens be- mühe, besteht in nichts anderm, als dass vor einigen Tagen, nämlich am 30. Oktober mittags um 12 Uhr, ein Wetterglashändler in meine Stube trat und mir seine Ware anbot. Ich kaufte nichts und drohte, ihn die Treppe herabzuwerfen, worauf er aber von selbst fortging. 

E. T. A. Hoffmann, Der Sandmann, 1815

Ora devo dirti quello che mi è capitato. Lo devo, lo capisco, ma al solo pensiero mi esce dal petto una risata folle. O mio carissimo Lotario, non so come incominciare per farti sentire almeno in parte come ciò che mi è toccato alcuni giorni  orsono abbia potuto veramente distruggere la mia vita. Se tu fossi qui, potresti vedere con i tuoi occhi; così invece mi prenderai per un visionario farneticante. Per farla breve, la cosa orrenda che mi è capitata (e invano mi sforzo di allontanarne l’impressione mortale) consiste in questo: che alcuni giorni fa, il 30 di ottobre, esattamente a mezzogiorno, un venditore di barometri entrò nella mia stanza e mi offerse la sua merce. Io non comprai nulla e minacciai di buttarlo giù dalle scale: dopo di che se ne andò da sé.

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, L’uomo della sabbia, 1815, tr. it.E. Pocar, in L’uomo della sabbia e altri racconti, Rizzoli, 1983, p. 13

Il racconto L’uomo della sabbia si apre con la lettera del protagonista Nataniele all’amico Lotario e con una data, il 30 ottobre, che segna l’ingresso – o meglio il ritorno – di un personaggio inquietante nella vita del giovane. Da bambino, infatti, Nataniele ha avuto modo di conoscere e temere l’avvocato Coppelius che la sera si intratteneva col padre in esperimenti chimici. Nella sua immaginazione, ha identificato Coppelius con il fiabesco “uomo della sabbia” , che getta manciate di sabbia negli occhi ai bambini che non vogliono andare a dormire. Responsabile della morte del padre, Coppelius è sparito dalla vita di Nataniele.  Finché un 30 ottobre uno strano personaggio, che si fa passare per un piemontese di nome Giuseppe Coppola, compare nella casa del giovane, portando strumenti ottici dai poteri magici e fatali. 

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29 Ottobre

29 ottobre 2024

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Comunque, questa era la situazione quando il Duce era venuto a inaugurare Pomezia, il 29 ottobre 1939: il mondo era in guerra. Ma ciò che le sembrerà più strano è che per noi Peruzzi la cosa più grave non fosse questa – ossia la guerra – bensì che quel giorno a Pomezia a inaugurare la nuova città non ci fosse più, insieme al Duce, l’Edmondo Rossoni. S’era stufato anche di lui stavolta. Cacciato

Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, Mondadori, p. 340

Fra il 29 ottobre del 1937, quando viene inaugurata Aprilia – città di nuova fondazione nell’Agro romano –  e  il 29 ottobre del 1939, quando è inaugurata Pomezia, il mondo è cambiato. La Germania di Hitler, sempre più potente, ha bombardato Guernica, ha iniziato la persecuzione degli ebrei e ha invaso la Polonia. Mussolini segue l’alleato tedesco, aderendo alla politica antisemita con le leggi razziali del ’38. Fra i tanti deportati nei campi di concentramento, troverà la morte anche  “il figliastro di Petrucci, uno di quei due architetti di Aprilia e di Pomezia”. Dal punto di vista della famiglia Peruzzi – la cui storia è raccontata nel libro insieme a quella della bonifica  delle paludi pontine – la data segna la caduta della fortuna politica del compaesano, e protettore, Edmondo Rossoni, in un giorno, un 29 ottobre,  che condensa vicende private, anniversari e decisioni storiche. 

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28 Ottobre

28 ottobre 2024

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Accanto alla finestra è appeso un termometro, leggo la temperatura della stanza: diciotto gradi. Piuttosto gradevole: Eppure ho freddo. Vado nell’ambulatorio, prendo un’aspirina. Sarai forse sorpreso di quanto siano precisi i miei ricordi di quel giorno, di quelle ore. Ci ricordiamo con tanta esattezza soltanto degli avvenimenti storici dei quali siamo stati testimoni oculari, oppure delle circostanze in cui è avvenuta la morte di una persona cara, e ne parliamo allo stesso modo, con l’identica assurda pedanteria: era martedì, l’una e mezza del pomeriggio, il ventotto di ottobre

Sándor Márai, Divorzio a Buda, 1935, tr. it. L. Sgarioto, Adelphi, Milano, 2002, p. 170

La vita del giudice Kristóf Kómives, nella città di Budapest, fra le due guerre, segue un ritmo regolare, e i giorni scorrono seguendo il calendario pubblico delle udienze civili e quello privato della famiglia. Alla vigilia di una causa di divorzio che deve presiedere, l’uomo riceve la visita di un suo vecchio compagno di scuola – Imre Greiner – che ora è medico ed è uno dei coniugi il cui matrimonio – con una donna di nome Anna – dovrebbe essere sciolto l’indomani. Entrambi alle soglie dei quarant’anni, il giudice e il dottore non si sono mai frequentati, ma le loro vite sono strette da un nesso imprevedibile e involontario, che verrà svelato nel corso del lungo racconto che Imre  fa al giudice. La memoria gioca un ruolo decisivo, sia per Kristóf che ascolta episodi del passato a cui non aveva più ripensato (se non in sogno), sia per il medico, che rievoca i più minuti dettagli del giorno in cui la realtà ha perso, per lui, il suo senso familiare, pur rimanendo tutte le cose – in apparenza – al loro posto, nello spazio e nel tempo. 

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27 Ottobre | 27 octobre

27 ottobre 2024

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Le 27 octobre, à six heures du soir, il me restait dix-sept francs cinquante. Je pris mon revolver et le paquet de lettres, je descendis. J’eus soin de ne pas fermer 1a porte, pour pouvoir rentrer plus vite quand j’aurais fait mon coup. Je ne me sentais pas bien, j’avais les mains froides et le sang à la tête, les yeux me chatouillaient. Je regardai les magasins, l’hôtel des Écoles, la papeterie où j’achète mes crayons et je ne les reconnus pas. Je me disais : ” Qu’est-ce que c’est que cette rue ? ” Le boulevard du Montparnasse était plein de gens. Ils me bousculaient, me repoussaient, me frappaient de leurs coudes ou de leurs épaules. Je me laissais ballotter, la force me manquait pour me glisser entre eux. Je me vis soudain au cœur de cette foule, horriblement seul et petit.

Jean-Paul Sartre, Erostrate, 1939

Il 27 ottobre, alle sei di sera, mi restavano diciassette lire e cinquanta. Presi la pistola, il pacco delle lettere e discesi. Ebbi cura di non chiudere la porta, per poter rientrare più presto quando avessi fatto il colpo. Non mi sentivo bene, avevo le mani fredde e il sangue alla testa, gli occhi mi pizzicavano. Guardavo i negozi, l’edificio delle scuole, la cartoleria dove compro le matite, e non li riconobbi. Mi dicevo: “Che strada è questa?” Il boulevard Montparnasse era pieno di gente. Mi spingevano, mi ricacciavano indietro, mi urtavano con i gomiti o con le spalle. Mi lasciavo sballottare, mi mancava la forza per farmi largo tra loro. Mi vidi d’un tratto nel cuore di questa folla, orribilmente piccolo e solo

Jean-Paul Sartre, Erostrato, 1939, tr. it. E. G., in Il muro, Einaudi 1974, pp.79-80

Come Erostrato, che incendiò il tempio di Efeso procurandosi una fama duratura e sinistra, Paolo Hilbert ha deciso di compiere un atto gratuito ed eclatante, diretto contro il genere umano. Con una pistola carica di sei colpi, progetta di uccidere un gruppo di passanti in un boulevard parigino, per poi scappare e togliersi a sua volta la vita. Le cose non andranno come egli se le immagina nei suoi piani esaltati e deliranti. A partire dalla data scelta per l’azione, il 27 ottobre, quando decide di rimandare “all’indomani l’esecuzione del progetto”, andando a cenare alla Coupole per sedici franchi e ottanta. 

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26 Ottobre

26 ottobre 2024

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Il Dottor Augusto Vanghetta, pretore in sottordine con quasi quindici anni di carriera alle spalle, arrivò a Cuvio, dove era stato destinato in qualità di titolare, nel pomeriggio del 26 ottobre 1930. Negli uffici della sua nuova sede, ricavati al piano nobile d’un palazzo secentesco, non trovò il predecessore, partito il giorno prima, ma soltanto un vecchio cancelliere, che dopo avergli fatto visitare la sala delle udienze, l’archivio, la stanza dei corpi di reato e i locali dell’ufficiale giudiziario, lo lasciò solo in un ampio salone sulla cui porta era fissata una targa di smalto con scritto: Gabinetto del pretore. Seduto alla scrivania, diede una sbirciata al ritratto di Vittorio Emanuele III e a quello di Mussolini appesi alla parete che aveva di fronte, poi girò lo sguardo sulle librerie e sull’armadio, fermandolo alla finestra che dava verso la valle. Trovati buoni i mobili, piacevole la vista e comoda la poltrona, si sentì soddisfatto. Che altro poteva desiderare dalla vita, ormai che era pretore titolare di Cuvio?

Piero Chiara, Il pretore di Cuvio, 1973, Mondadori 1973, p.9

La storia del cinquantenne Augusto Vanghetta, “laureato miracolosamente” e diventato pretore grazie a una legge destinata a ripopolare l’organico della magistratura dopo la guerra, si svolge nella città di Cuvio, in provincia di Varese. Dedito più alle donne e agli affari che alla sua attività, Vanghetta trascorrerà a Cuvio tre anni, accorgendosi in ritardo che il giovane assistente di studio e vicepretore ha una relazione con sua moglie Evelina, dentro la sua stessa casa. Quando arriva a Cuvio, la carriera di Vanghetta sembra avviata verso il successo e la stabilità, il pomeriggio del 26 ottobre 1930.

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25 Ottobre

25 ottobre 2024

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Poi scoppiò la rivoluzione e per ognuno di noi, anche se in momenti diversi, l’esistenza cambiò. Per qualcuno, ciò avvenne quando salì a bordo di una nave a Sebastopoli, per altri quando i soldati di Budennyj entrarono in un villaggio della steppa. Per me, nel bel mezzo della placida vita di Pietroburgo. Non c’erano lezioni al Conservatorio. Mitenka, che era a Pietroburgo già da un mese (era venuto a studiare composizione), arrivò da noi la mattina del 25 ottobre, mentre la mamma era a letto con l’influenza. Suonò il piano, mangiammo, poi si addormentò. Come mi ricordo quel giorno! Non so perché, ero indaffarata a cucire qualcosa. La sera giocammo a carte tutti e tre, mi rammento persino che a cena avevamo mangiato manzo e cavolo

Nina Berberova, L’accompagnatrice, (1934) 1985, tr. it. L. Prato Caruso, Feltrinelli 1987, pp.15-16

Prima di diventare accompagnatrice di una famosa cantante, Sonečka, la giovane pianista russa che narra questa storia, ha vissuto nella povertà e nell’umiliazione. Figlia unica di una professoressa di pianoforte, non ha mai conosciuto il padre – un giovanissimo allievo della madre- e vive delle scarse lezioni di piano che si riescono a impartire, negli anni che seguono la rivoluzione d’ottobre. L’incontro – nel 1919 – con la cantante Marija Nikolaevna, bella, amata dagli uomini e acclamata dal pubblico, porterà un cambiamento fatale nella sua vita, fatta fino ad allora di poche  presenze. Tra queste c’è Mitenka, l’unico allievo rimasto alla madre. Grazie a lui, Sonečka conoscerà la cantante e la seguirà fino a Parigi, grazie alla visita che Mitenka fa alle due donne, a Pietroburgo la mattina del 25 ottobre, giorno indimenticabile per la catena di conseguenze imprevedibili a cui dà inizio.

 

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24 Ottobre

24 ottobre 2024

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Sul tavolo, altre carte, appunti, un testo di Caviglia, uno dell’austriaco Schwarte, le Note di Capello, i Ricordi di Ludendorff, sedicesimi in collezione con gli ordini d’operazione, i fonogrammi, i bollettini quotidiani, e fogli bianchi tenuti distesi da puntine da disegno.
Il problema consiste nel bloccare l’Alpenkorps bavarese che, scattato nella nebbia alle otto del mattino del 24 ottobre 1917, sulla riva sinistra dell’Isonzo, partendo dal campo trincerato di Tolmino, dà il via alla grande offensiva degli Imperi Centrali contro l’Italia. (…)
Cadorna come quell’altro, quel giocatore di bocce!, quell’astigiano innominabile, quella testa di popone secco, bell’esemplare di questo nostro popolo di schiavi: basterebbe la sua storia, dalle ore 20 del 24 ottobre 1917, come comandante del XXVII Corpo d’Armata, fino al settembre dei ventisei anni dopo, basterebbe la sua storia a qualificarci per quel che siamo…

Giovanni Arpino, L’ombra delle colline, 1964, ed. cons. Mondadori, 1970, p.30, p. 34

Stefano, il protagonista di questo racconto, torna da Roma – città dove lavora – in Piemonte, dove vive il padre, che è stato colonnello dell’esercito. Deluso dalla storia d’Italia, soprattutto dall’armistizio del 1943, il vecchio vive ritirato e passa le giornate in una stanza tappezzata di carte militari e mappe dei campi di battaglia della prima guerra mondiale. In quella stanza, rievoca le fasi della battaglia di Caporetto, immaginando variazioni nella strategia che potessero evitare la sconfitta delle truppe italiane. La data di inizio della battaglia, il 24 ottobre 1917, è ripercorsa nelle diverse ore: le otto del mattino, inizio dell’offensiva; le due del pomeriggio; le otto di sera, quando viene richiamato – senza farne il nome – Pietro Badoglio, che quel 24 ottobre comandava il 27° corpo d’armata. 

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23 Ottobre | 23 octobre

23 ottobre 2024

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Un seul détail est décidément inventé: rien n’indique que le poète, ce 23 octobre 1875, fit à cheval la route d’Acoz à La Pasture. Mais il a à son crédit d’autres chevauchées plus longues. S’il fit ce jour-là ce trajet dans sa voiture, comme ce fut le cas dans les deux occasions suivantes, ses méditations en course de route n’en ont pas été changées.
Je me rends compte de l’étrangeté de cette entreprise quasi nécromantique. C’est moins le spectre d’Octave que j’évoque à près d’un siècle de distance qu’Octave lui-même, qui, un certain 23 octobre 1875, va et vient accompagné sans le savoir par une “petit-nièce” qui ne naîtra que vingt ans  après sa mort à lui, mais qui, en ce jour où elle à rétrospectivement choisi de le hanter, a environs l’âge qu’avait alors Madame Irénée. Tels sont les jeux de miroirs du temps. 

Marguerite Yourcenar, Souvenirs pieux, 1974

Un solo particolare è decisamente inventato: nulla indica che il poeta, quel 23 ottobre 1875, abbia percorso a cavallo la strada da Acoz a La Pasture. Ma si è a conoscenza di altre sue cavalcate ancora più lunghe. Se quel giorno egli fece il tragitto in carrozza, come nelle due occasioni successive, le sue meditazioni durante il percorso non furono certo diverse. Mi rendo conto della stranezza di questa operazione quasi negromantica. A un secolo di distanza, più che lo spettro di Octave, sto evocando Octave in persona, il quale quel certo 23 ottobre 1875 va e viene, senza saperlo, in compagnia di un “pronipote” che nascerà soltanto vent’anni dopo la sua morte, ma che il giorno in cui ha deciso di frequentarlo retrospettivamente ha circa l’età che aveva allora madame Irénée. Tali sono i giochi di specchi del tempo


Marguerite Yourcenar, Care memorie, 1974, tr. it. G. Cillario, Einaudi, 1981, p. 167

Il viaggio a ritroso lungo i rami della sua famiglia, in parte francese e in parte belga, conduce la scrittrice Marguerite Yourcenar a ricostruire la rete di esistenze e di relazioni che hanno condotto fino alla sua nascita, nel 1903. Ai dati storici documentati e ai ricordi di famiglia, vengono intercalate immaginazioni e deduzioni su quello che i suoi antenati – bisnonni, nonni, prozii – hanno fatto e provato durante le loro vite. In questa ricostruzione, si incontrano anche giorni inventati – come questo 23 ottobre. Un giorno nella vita del suo parente Octave Pirmez, scrittore e poeta, che la Yourcenar immagina in quei dettagli persi per sempre, impossibili da verificare, ma che forse si sono verificati, in una giornata di fine ottobre del 1875, nella campagna belga, proprio come lei li scrive.

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22 Ottobre

22 ottobre 2024

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Il ventidue ottobre, all’alba, Artemisia partì. La verità non sta nella data, ma nelle parole eternamente eguali che la fissarono. Ma una data occorre: come occorse, per far balzare il cuore di una giovane che non si è mai mossa di casa e ci ha patito vergogna. I facchini trasportarono le casse e un angolo della più pesante sbreccò il muro della scala. I vicini stupirono. Giambattista Stiattesi, suocero inonorato, alzò le mani al cielo per molti giorni susseguenti. Ma intanto la biondina partiva, seduta fra suo padre e un grosso frate romagnolo che tornava, lo disse subito, a Bologna. Dopo una notte passata sulla seggiola, vestita, l’immobilità precaria di quel primo istante di viaggio le dava una vertigine di eternità

Anna Banti, Artemisia, 1947, Bompiani, 1994, p. 37

Artemisia, la figlia del pittore toscano Orazio Gentileschi vive a Roma con i fratelli, senza madre, disegnando e dipingendo dentro casa. Molto giovane, ha subito uno stupro da parte di un uomo sposato, anche lui pittore, che l’ha lasciata disonorata e sempre più concentrata sulla  pittura. Sono i primi anni del Seicento. Il padre Orazio ha deciso di partire per Firenze e di portare con sé Artemisia,  a patto che prima lei si sposi con un vicino. Il giorno della partenza è il 22 ottobre, una data memorabile per una ragazza che “non si è mai mossa di casa” e per la quale il viaggio – accanto al padre molto temuto e molto amato – è una pausa di libertà dai vincoli del tempo e della storia.

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21 Ottobre

21 ottobre 2024

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Sono passati alcuni mesi, e non ci sono più né un potere, né un esercito, né un’amministrazione. I  patrioti russi avevano riposto tutte le loro speranze nell’atamano Semënov, che Kolčak aveva designato come suo rappresentante e che i giapponesi, nostri alleati, sembravano decisi a sostenere. Ora, nella notte tra il 20 e il 21 ottobre, i partigiani sono entrati a Čita e l’atamano è fuggito in aereo portando con sé le riserve auree. I giapponesi non hanno mosso un dito. I comunisti sono a un passo dal trionfo. Il popolino li ha accolti ovunque con grande entusiasmo (…) Ora, Ungern è scomparso. Dove si troverà in questo momento? In nessun luogo e ovunque

Vladimir Pozner, Il barone sanguinario, 1937, tr. it. L. Di Lella, G. Girimonti Greco, Adelphi, 2012, p. 132

Nel Barone sanguinario di Vladimir Pozner risuonano nomi di luoghi e popoli così lontani da sembrare vicini al fascino di un oriente crudele e remoto: ci sono Cosacchi, Atamani, Mancesi, Giapponesi, Mongoli e Siberiani; mentre gli eserciti e i dispacci viaggiano ad Harbin, a Urga, nel Turkestan, a Pechino. L’oriente che viene raccontato è crudele, sì, ma non remoto. Siamo lontani sia da Gengis Khan che da Tamerlano. Si svolge tutto negli ultimi anni della Rivoluzione di Ottobre, quando gli eserciti dei Bianchi sono ormai scompaginati e in rotta, quando si formano, nell’Asia più profonda, piccoli regni indipendenti intorno a generali reazionari e realisti. Il Barone sanguinario è uno di questi; il nome che si nasconde dietro l’appellativo è quello di Ungern che ricorda, sia per la durezza dei fonemi, che per quella del personaggio, il colonnello Kurtz di Coppola. È un nobile crudele, ossessionato dalla numerologia e dalle carte astrali; spietato sopra misura. L’autore in questo romanzo prova a ripescarne il ricordo – già sbiadito- prima nella Parigi degli anni ’30, intervistando tassisti e salumieri russi che rievocano con nostalgico godimento la loro vita passata, quando loro erano i generali fedeli ai Romanov. Poi attraverso i documenti, i giornali,  le date che riportano alla capitolazione del vecchio regime: ed ecco risaltare  la notte del 21 ottobre, fra assalti, ritirate e complotti. (Commento di Valentino Eletti)

 

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20 Ottobre

20 ottobre 2024

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Quante giornate avevano trascorso insieme, lui e la Basca? Ai bagni, su e giù per il paese, una volta a Tellaro, al castello salendo e scendendo le scale che portano al mare. Luglio, agosto settembre e le prime morbide giornate d’ottobre. Come avrebbe mai potuto darsi quel giorno in cui la Basca sarebbe scomparsa? Era mai possibile pensarci? E quale sarebbe stato quel giorno? Il due ottobre? Il sei? Il venti? Certamente un giorno d’ottobre, allegro e piovigginoso. Uno di quei giorni che si esce fischiettando, contenti della noia degli altri, i quali non sanno quanto può esser bella una giornata grigia che rinchiude due amanti all’albergo a godersi la bellezza di un cielo noioso dietro i vetri di una finestra; mentre il padre della ragazza, il delicato professore, studia due pietruzze raccolte in una spiaggia lontana

Antonio Delfini, Il ricordo della Basca, 1938, Garzanti 1992, p.190

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19 Ottobre

19 ottobre 2024

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Poteva trattarsi di una coincidenza casuale, ma le coincidenze casuali non convincevano Aomame. Era possibile che fra i due fatti ci fosse un collegamento. Anche l’espressione usata dalla signora, quel “grave incidente”, sembrava indicare l’esistenza di una connessione. Lo scontro a fuoco si era svolto il 19 ottobre di tre anni prima (secondo la teoria di Aomame, tre anni prima del 1Q84). I particolari sulla sparatoria li aveva già letti la volta precedente, scorrendo gli articoli di cronaca, quindi un’idea sufficiente dei fatti la possedeva. Quel giorno decise che avrebbe dato solo una rapida scorsa alle notizie, concentrandosi sugli articoli pubblicati in seguito e su quelli che analizzavano l’episodio da vari punti di vista

Murakami Haruki, 1Q84, 1 e 2, 2009, tr. it. G. Amitrano, Einaudi 2011, versione kindle, pos. 6258

Da quando – nel primo dei 24 capitoli del primo libro – la giovane Aomame è scesa dal taxi sulla tangenziale e ha imboccato la scala d’emergenza nella piazzola di sosta, si è ritrovata in una strana atmosfera, dove le cose – come le ha detto il tassista – “sono diverse da come appaiono”, anche se “la realtà è sempre una sola”. Uno degli indizi di una mutazione nello stato della realtà viene proprio dalle date. Consultando i giornali della biblioteca di quartiere, Aomame si accorge di non ricordare – lei così attenta alla storia – alcuni dei fatti accaduti nel 1981. In particolare la colpisce la notizia di un incidente avvenuto il 19 ottobre, uno scontro a fuoco fra la polizia e un gruppo estremista, nei pressi del lago Motosu. Non si tratta di una lacuna della sua memoria, ma di una variante nel corso degli avvenimenti, che conduce in un mondo parallelo, dove una cifra dell’anno corrente, il 9 di 1984, è diventata la Q del “question mark, il punto interrogativo”. Sui fatti del 19 ottobre, Aomame ritorna durante un’altra visita alla biblioteca, in cerca di notizie utili per orientarsi nel nuovo tempo in cui lei e la rete delle cose si trovano.

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18 Ottobre

18 ottobre 2024

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Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo.
Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi sono destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati.
Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell’anno che corre dell’era cristiana 1858 […] La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell’essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l’ardito navigatore trova un passaggio per l’oceano infinitamente calmo dell’eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini

Ippolito Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, 1867 (postumo), ed. cons. Mondadori 1984, pp. 3, 6


Carlo Altoviti, detto Carlino, è “testimone ed attore d’un bel capitolo di storia”, dalla rivoluzione all’arrivo dei Francesi in Italia, dalla caduta di Napoleone ai moti del 1848. Un capitolo di storia osservato all’inizio da una postazione che sembra periferica, il castello di Fratta nella bassa friulana, posto sotto la giurisdizione della Serenissima Repubblica di San Marco. Ma che permette di raccontare gli sconvolgimenti che porteranno di lì a poco all’unità d’Italia, trasformando il narratore – così spera alla fine della sua lunga vita – da veneziano in italiano. Figlio di una sorella della contessa di Fratta e di un gentiluomo-avventuriero, Carlino viene affidato agli zii appena nato e cresce senza un posto preciso nella casa, fra la servitù, nella grande cucina del castello, guardando da una prospettiva tutta sua le persone, i dettagli, la natura, i sentimenti, soprattutto l’amore per la Pisana. Da Fratta a Padova a Venezia a Milano, a Londra in esilio, Carlino segue la fuga degli anni, alcuni terribili, altri “muti e avviliti”, a cominciare dalla sua nascita, nel 1775, il 18 ottobre, San Luca, giorno con il quale il lungo racconto ha inizio.

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17 Ottobre

17 ottobre 2024

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Ottobre. Il primo giorno di scuola. 17, lunedì.

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina nella sezione Baretti a farmi iscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta

Edmondo De Amicis, Cuore, 1886, ed. cons.Rizzoli, 1978, p.49

Nel 1881, nella scuola di Torino raccontata nel libro Cuore, le lezioni cominciano il 17 ottobre, dopo tre mesi di vacanza. Enrico –  il protagonista – mentre sale nella sua nuova classe al primo piano, ripensa ai boschi e alle montagne dove ha passato l’estate; rivede i compagni e il vecchio maestro della seconda, si accorge addirittura che il direttore ha la barba un po’ più bianca dell’anno prima. Alle dieci sono tutti in classe, lui e i suoi cinquantatré compagni, con il nuovo insegnante di terza, alto e serio. “Ecco il primo giorno” – pensa Enrico – ” Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche!”.

Dicono del libro

 

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16 Ottobre

16 ottobre 2024

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Venne il sedici ottobre (ricorderà, fu quando venne distrutta la Biblioteca di Stato, era un venerdì), tutto andava come al solito, io stavo dietro il banco, i clienti mi porgevano le loro tessere, ormai senza sospetto e senza paura. Non si pregava più da quando il rabbino era stato deportato; ma io, talvolta, invece di pronunciare un altro saluto, dicevo scialom. Era il nostro sabato nella macelleria…

Albrecht Goes, La vittima, 1955, tr. it. R. Leiser Fortini, Linea d’ombra 1990, p.54

La moglie del macellaio di una città tedesca, incaricata di servire la clientela ebraica – proprio mentre ha inizio la deportazione verso i campi di sterminio – compie il suo lavoro con umanità e comprensione. Cerca di aiutare e di proteggere – come può – le persone che si presentano al bancone con le tessere per la carne. Finita la guerra, è lei che racconta a un giovane bibliotecario, che ha preso in affitto una stanza nella sua casa, la storia della macelleria trasformata in sinagoga, in rifugio, in crocevia di destini. Il 16 ottobre  – fra bombardamenti, incendi, tentativi di fuga dalla Germania – è un giorno fatale per la donna e per gli altri protagonisti del suo racconto.
Storicamente, il 16 ottobre del 1943 è il giorno del rastrellamento degli ebrei che abitavano nel ghetto di Roma, rievocato da Giacomo Debenedetti nel libro che porta come titolo la data dell’evento: 
16 ottobre 1943.

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15 Ottobre | 15 octobre

15 ottobre 2024

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Ils gagnèrent Livourne, visitèrent Florence, Gênes, toute la Corniche.
Par un matin de mistral, ils se retrouvèrent à Marseille.
Deux mois s’étaient écoulés depuis leur départ des Peuples. On était au 15 octobre.
Jeanne, saisie par le grand vent froid qui semblait venir de là- bas, de la lointaine Normandie, se sentait triste. Julien, depuis quelque temps, semblait changé, fatigué, indifférent; et elle avait peur sans savoir de quoi.

Guy de Maupassant, Une vie, 1883

Giunsero a Livorno, visitarono Firenze, Genova, tutta la Costa Azzurra. Un mattino che spirava il maestrale si ritrovarono a Marsiglia, ed eran passati due mesi dalla loro partenza dai “Pioppi”, era il 15 ottobre. Colpita da quel vento freddo che pareva venir di laggiù, dalla lontana Normandia, Giovanna si sentiva un po’ malinconica. Giuliano non era già stanco, indifferente, cambiato? Lei aveva paura, non sapeva bene di che.

Guy de Maupassant, Una vita, 1883, tr. it. M. Moretti, Mondadori 1993, p.65

La storia di una vita femminile, raccontata in questo romanzo di Maupassant, ha inizio con un calendario da muro dove Giovanna (Jeanne nell’originale) ha cancellato i giorni e i mesi fino alla data della sua uscita dal convento, il 2 maggio 1819. Tornata nella casa di famiglia, la tenuta dei Pioppi sulla scogliera presso Yport, in Normandia, è stata subito chiesta in matrimonio da un vicino, il giovane visconte di Lamare e si è sposata alla metà di agosto. Il 15 ottobre, dopo due mesi di viaggio di nozze trascorsi in Corsica, è sulla via del ritorno, a Marsiglia. Le prime avvisaglie del carattere poco trattabile del marito le danno un presentimento di quello saranno i giorni futuri, che aveva immaginato pieni di eccitazione e felicità, quando cancellava le date sul calendario, in attesa di un tempo che è già disatteso.

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14 Ottobre | October 14

14 ottobre 2024

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Composite image, optically encoded by escort-craft of the trans-Channel airship Lord Brunel: aerial view of suburban Cherbourg, 14 October 1905.
A villa, a garden, a balcony.
Erase the balcony’s wrought-iron curves, exposing a bath chair and its occupant. Reflected sunset glints from the nickel-plate of the chair’s wheelspokes.
The occupant, owner of the villa, rests her arthritic hands upon fabric woven by a Jacquard loom.
These hands consist of tendons, tissue, jointed bone. Through quiet processes of time and information, threads within the human cells have woven themselves into a woman. 
Her name is Sybil Gerard.

William Gibson, Bruce Sterling, The Difference Engine, 1991

Immagine composita, codificata otticamente dall’apparecchio di scorta della nave aerea trans-canale Lord Brunel: veduta aerea dei sobborghi di Cherbourg, 14 ottobre 1905.
Una villa, un giardino, un terrazzo.
Cancellate le curve in ferro battuto del terrazzo, scoprendo una poltrona a rotelle e la sua occupante. La luce del sole al tramonto si riflette sui raggi nichelati delle ruote. L’occupante, proprietaria della villa, appoggia le mani artritiche sulla stoffa, lavorata da un telaio Jacquard. Queste mani consistono di tendini, tessuti, ossa. Attraverso un silenzioso processo di tempo e di informazioni, i fili all’interno delle cellule umane si sono intessuti in una donna.  Il suo nome è Sybil Gerard

William Gibson, Bruce Sterling, La macchina della realtà, 1991, tr. it. D.Zinoni, Mondadori, Milano, 1995, p. 9

In questo romanzo di Gibson e Sterling la storia  – nell’Ottocento – ha preso un corso alternativo. Le ricerche pionieristiche sulla macchina analitica di Charles Babbage e di Ada Byron (la figlia del poeta) hanno  condotto alla creazione dei primi computer, alimentati a vapore, grazie a cui i governi registrano informazioni su schede perforate. Lo stesso Byron non è morto in Grecia nel 1824, ma è diventato primo ministro di una Gran Bretagna dominata dal partito degli Industriali Radicali. La catena di conseguenze prodotte da questi eventi alternativi sulla scena dell’Europa porta lontano ed è raccontata a partire da singole immagini. La prima di queste immagini è catturata in un paese sulla Manica, il 14 ottobre del 1905. Mostra Sybil Gerard, figlia di un avversario del progresso industriale, impiccato anni prima, mostra i pensieri e i ricordi della donna, che danno inizio al racconto di questa storia possibile. “E la Memoria si volta, riflessa, veloce come la luce, lungo un’altra deviazione…”.

 

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13 Ottobre | October 13th

13 ottobre 2024

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Baskerville Hall, October 13th.
MY DEAR HOLMES: My previous letters and telegrams have kept you pretty well up to date as to all that has occurred in this most God-forsaken corner of the world. The longer one stays here the more does the spirit of the moor sink into one’s soul, its vastness, and also its grim charm. When you are once out upon its bosom you have left all traces of modern England behind you, but, on the other hand, you are conscious everywhere of the homes and the work of the prehistoric people. On all sides of you as you walk are the houses of these forgotten folk, with their graves and the huge monoliths which are supposed to have marked their temples. As you look at their gray stone huts against the scarred hillsides you leave your own age behind you, and if you were to see a skin-clad, hairy man crawl out from the low door fitting a flint-tipped arrow on to the string of his bow, you would feel that his presence there was more natural than your own

Arthur Conan Doyle, The Hound of the Baskervilles, 1901-02

Maniero di Baskerville, 13 ottobre 

Mio caro Holmes,

le mie lettere e i telegrammi precedenti l’hanno tenuta abbastanza al corrente su quanto è sinora accaduto in questo angolo di terra abbandonato da Dio. Più si rimane qui e più lo spirito della brughiera, la sua vastità, diciamo pure il suo lugubre fascino, prende l’anima. Una volta chiusi nella sua stretta ci si lascia alle spalle ogni traccia della moderna Inghilterra, mentre si avverte sempre più intensamente la presenza delle dimore e delle opere delle genti preistoriche. Ci si trova circondati da ogni lato dalle abitazioni di questa gente dimenticata, dalle loro tombe e dai monoliti enormi che si suppone siano le vestigia dei loro templi. Quando si guardano le grigie capanne di pietra che si stagliano contro i tormentati versanti di queste colline, ci si dimentica del nostro tempo, e se ci dovessimo imbattere in un uomo villoso, ricoperto di pelli d’animale, e lo vedessimo strisciare fuori da una bassa porta, in atto di aggiustare alla corda del proprio arco una freccia dalla punta di selce, avremmo la sensazione che la sua presenza fosse più naturale della nostra

Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, 1901-1902, tr. it. M. Gallone, Mondadori 1992, p.84

Il caso della morte di Sir Charles Baskerville e della leggenda che aleggia sul Maniero della famiglia  – situato nel Devonshire – è raccontato dal dottor Watson, sula base delle annotazione nel diario, dei resoconti e delle lettere spedite a Sherlock Holmes. Watson si trova infatti nella residenza dei Baskerville insieme con Henry, l’erede del defunto Charles, con il compito di riferire dettagliatamente tutto quel che accade a Holmes, il quale, a sua volta, finge di essere a Londra, ma in realtà è anch’egli sul campo. È ottobre e la brughiera è avvolta dalla nebbia; il clima rende più inquietanti i racconti sul mastino diabolico e vendicatore legato alla famiglia. Il primo resoconto di Watson è datato 13 ottobre e di lì a pochi giorni il caso verrà risolto. Holmes e Watson ne discuteranno i particolari in una “sera rigida e nebbiosa” di novembre, nel salotto di Baker Street.

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12 Ottobre | October 12

12 ottobre 2024

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I have five thousands dollars in government high-denomination bills, he told himself. So I’m not completely helpless. And that thing is gone from my chest, including its feeding tubes. They must have been able to get ai them surgically in the hospital. So at least I’m alive; I can rejoice over that. Has there been a time lapse? he asked himself. Where’s a newspaper?
He found an L. A. Times on a nearby couch, read the date. October 12, 1988. No time lapse. This was the day after his show

Philip K. Dick, Flow My Tears, the Policeman Said, 1976

“Ho cinquemila dollari in banconote del governo di grosso taglio” si disse. “Quindi non sono del tutto inerme. E quella cosa è scomparsa dal mio petto, assieme ai suoi tubi di suzione. All’ospedale devono essere riusciti a rimuoverli chirurgicamente.
Quindi, se non altro, sono vivo; di questo posso rallegrarmi.
C’è stato un salto temporale? Dov’è un giornale?”
Trovò una copia del “Los Angeles Times” su un divano lì vicino, lesse la data: 12 ottobre 1988. Nessun salto temporale. Era il giorno dopo il suo ultimo show

Philip K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, 1976, tr. it. V. Curtoni, Mondadori, 1998, p. 26

Due “corridoi spaziali” – uno corrispondente alla realtà, l’altro a una “possibilità latente fra le molte”, concretizzata  da una potente droga assunta dalla sorella del generale Buckman – sono accaduti contemporaneamente, confondendo le percezioni, la memoria, le relazioni delle persone coinvolte.  L’11 ottobre il protagonista, il cantante Jason Taverner, è un celebre conduttore televisivo, con uno show seguito da milioni di spettatori. Il giorno dopo, il 12 ottobre si ritrova solo, senza documenti, in un hotel periferico, mentre tutti intorno sembrano non aver mai sentito parlare di lui. Nel corso di quel 12 ottobre entrerà in contatto con il sistema di controllo poliziesco e burocratico della società, con le psicosi e le allucinazioni degli abitanti, mentre la storia (e la lettura) oscillano fra metafore del tempo e della coscienza, ricerca di conferme sull’ora e sulla data. 

 

Dicono del libro

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