4 Ottobre
4 ottobre 2015 |
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Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi
Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1975, p. 7
Comincia così, in un’Italia divisa dall’armistizio dell’8 settembre 1943, il lungo racconto del viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambrìa a Cariddi, dopo aver attraversato a piedi le coste della Calabria, il «paese delle Femmine». A traghettarlo clandestinamente lungo le acque dello Stretto, in una notte senza luna popolata da visioni, sarà la figura ammaliante della «femminota» Ciccina Circè, espressione, già nel suo nome omerico, di una femminilità potente e trasgressiva come il suo linguaggio che ‘Ndrja fa fatica a comprendere («Io, parola mia, non vi riesco a penetrare tutta…»). Il mare dello «scill’e cariddi», quello attraversato e quello che fa da sfondo alle storie di uomini e donne che vivono lungo le sue rive, è il vero polo d’attrazione del romanzo: luogo fisico e mentale, è infatti lingua, letteratura, tempo e memoria. In questo mare-mondo, che contiene l’origine e la fine di tutto, che è genesi e apocalisse, il traghettamento del protagonista tra i contrari della vita ha un alto valore simbolico e figurale. All’arrivo in Sicilia, ‘Ndrja troverà una terra stravolta, devastata dalla guerra, quasi irriconoscibile ai suoi occhi, offesi dal dolore per tanto degrado e tanta miseria. Per di più, il suo nostos coinciderà con quello dell’Orca, il Leviatano simbolo di morte, con cui sembra condividere la parabola esistenziale: quattro giorni impiega ‘Ndrja per arrivare al paese delle femmine, che sarà l’inizio della sua fine, e per quattro giorni l’Orca si aggira nello «scill’e cariddi» prima di “riassommare” e di andare incontro alla morte.
Il tempo reale entro il quale prendono corpo le 1257 pagine del romanzo si dispiega biblicamente lungo l’arco temporale della creazione, sette giorni, nel corso dei quali le peripezie fisiche e mentali vissute da ‘Ndrja assumono il valore di un’esperienza conoscitiva, che avrà la sua acme nell’incontro con un vecchio «spiaggiatore», «linguto e occhiuto». A lui lo scrittore affida di esporre la sua teoria della conoscenza della vita, fondata su tre diversi gradi: l’ingannevole e infondato «sentitodire», il solido e concreto «vistocogliocchi» e l’immaginifico e fantastico «visto cogli occhi della mente»: «Voi, amico del sole, vi dovete immaginare di vedere…». Allora, se vedi con gli occhi della mente tutto diventa possibile, le distanze tra lingue e culture si annullano e quella lingua di mare dello «scill’e cariddi» è sì Calabria e Sicilia, ma è anche Grecia, Africa, mille e una notte. Tutto diventa possibile perché l’«andamento epico-magico» (M. Corti) della scrittura di D’Arrigo attiva un fervore espressivo che gioca sulla sovrapposizione dei registri stilistici e sulla contaminazione espressionistica di lingua e dialetto. È necessaria una nuova lingua per dire l’indicibile, per raccontare il tempo impastato della storia dell’uomo, anche a rischio che essa diventi un labirinto per il lettore, che deve cercare in vocabolari immaginari o nella memoria di lingue ignote il senso delle parole che il racconto fa fiorire per gemmazione. D’Arrigo è un narratore lirico. L’ultima conferma è nelle parole che chiudono il romanzo: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Parole che riecheggiano simbolicamente i versi epici di una sua più antica poesia, dove il destino del personaggio si conclude oniricamente nello stesso mare in cui ‘Ndrja avrebbe trovato la morte:
«Qui, dove m’assomiglio, in patria,
sui prati, ora in cenere, d’Omero,
io da una guerra reduce, e da quante
un gran figlio mi ricorda mia madre,
perduto con lo scudo o sullo scudo,
desidero tornare spalla a spalla
coi miei amici marinai che vanno
sempre più dentro nei versi, nel mare».
(Sui prati, ora in cenere, d’Omero)
Commento di Gianfranco Crupi